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July 19, 2022

Home Studio 2: Ronny Trocker

Alessio Posar

Ronny Trocker è uno di quegli artisti che sono partiti da Bolzano e hanno girato il mondo: ha studiato cinema in Argentina e in Francia, e vive a Bruxelles. L’Alto Adige, però, si sa, mantiene sempre un ruolo – non solo perché qui ha la sua casa di produzione BAGARREFILM, ma anche per come si può vedere nel suo primo lungometraggio Die Einsiedler (Gli eremiti), presentato nel 2016 alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Il suo secondo film “Human Factors”, invece, è stato l’unico film italiano a partecipare nel 2021 al Sundance Film Festival – la Mecca del cinema indipendente mondiale. Non male, eh?

Ronny, i tuoi film hanno un tono minimalista e molto dei tuoi personaggi passa attraverso i loro silenzi. Che lavoro c’è dietro la costruzione dei loro rapporti? 

Penso semplicemente che il “non detto“ sia spesso più forte. Il dialogo è uno strumento narrativo molto interessante, ma lo trovo molto più attraente quando non serve a svelare i sentimenti e le intenzioni dei personaggi, ma piuttosto il contrario, quando accentua la loro complessità e l’ambiguità. Quindi cerco soprattutto di creare situazioni e momenti nei quali i rapporti tra i personaggi, i loro dilemmi, diventino palpabili senza bisogno di essere pronunciati, senza la necessità di parole. 

Sei sceneggiatore e regista. Quando sviluppi un progetto, da dove nasce? Da un’idea o da un’immagine?

I progetti nascono in modi molto diversi, non c’è un vero e proprio sistema oppure una metodologia che seguo. Può essere un personaggio, un’immagine, un paesaggio, etc. Avendo entrambi i ruoli, sceneggiatore e regista, spesso scrivo avendo già in testa immagini o idee precise di messa in scena. Ma c’è sempre un momento, quando sto sviluppando la sceneggiatura, in cui cerco di separare i due ruoli e di pensare solo come autore. Quando scrivi tutto è ancora possibile e voglio sfruttare al massimo questa libertà senza che la mia “metà regista” interferisca troppo.

 

Come gestisci l’equilibrio tra storia e potenza delle immagini?

Credo che le immagini debbano essere al servizio della storia e della narrazione, altrimenti si rischia che l’esperienza visiva, pur essendo elaborata e potente, diventi rapidamente noiosa.

 

Cosa deve avere, per te, una storia per essere raccontata?

Penso che debba convincere innanzitutto l’autore stesso, dopotutto è lui – o lei – che passerà più tempo con la storia. Gli ostacoli tra la prima idea e il film finito sono così tanti che, se non c’è un minimo di passione per la storia raccontata, sarà molto difficile arrivare fino in fondo.

Sia “Die Einsiedler” che “Human Factors” ci raccontano storie di famiglia, per quanto diverse. Cosa ti affascina della dimensione familiare?

La famiglia è spesso una specie di “polveriera”, quindi predestinata a qualsiasi tipo di dramma. Pero non mi sono seduto consapevolmente a scrivere un conflitto familiare. È successo semplicemente così: ho deciso che i personaggi che mi interessavano sarebbero stati raccontati anche nel loro contesto familiare. In qualsiasi modo si definisca il concetto di famiglia, si cerchi di prenderne le distanze o che si venga a patti con essa, in qualche modo è sempre presente.

Da una parte abbiamo una famiglia di montagna, legata ai ritmi di sempre, e dall’altra l’upper class creativa europea. Che cosa hanno in comune?  

Credo che entrambi film parlino di un problema di comunicazione. La difficoltà di trovare le parole giuste per esprimere i propri sentimenti, i propri desideri, come succede in “Die Einsiedler”, oppure l’incapacità di ascoltare gli altri, come forse accade in “Human Factors”. Il paradosso in questo secondo caso è che i personaggi del secondo film gestiscono un’agenzia pubblicitaria, dunque in fondo sono “comunicatori professionisti”. L’idea era di tematizzare come nella nostra società “hyper-comunicativa”, sia via i social media o altri canali, la comunicazione in realtà stia diventando sempre più superficiale.

“Human Factors” ci mostra una famiglia poliglotta, che si sposta per l’Europa alla ricerca di pace – a modo suo. Quanto è possibile raccontare le somiglianze e le differenze all’interno dell’Europa con un film? 

Per dire la verità, non ho cercato di mostrare le differenze all’interno dell’Europa. Spesso queste “differenze” sono dei cliché generalizzantidunque non molto interessanti, secondo me. Il multilinguismo nella famiglia mi interessava per altri motivi. Vivo a Bruxelles e qui la maggior parte delle famiglie sono poliglotte. Mi interessa capire come la gente passi da una lingua all’altra, a seconda della situazione in cui si trova o dell’argomento di cui si sta parlando, e come questo potenzialmente influenzi la comunicazione all’interno di un gruppo, o nel mio caso, all’interno di una famiglia.

I legami familiari, la fiducia, le aspettative… Quali altri temi vorresti esplorare?

Non ho un elenco di tematiche che vorrei trattare in futuro. Dipende sempre dal progetto. Comunque se dovessi cercare di definire il mio focus, anche essendo troppo ampio, direi che mi interessa la condizione umana in un mondo in costante cambiamento.

Sei anche produttore: quanto influiscono le necessità produttive sullo sviluppo dei tuoi film? 

Il fatto di essere anche co-produttore del mio film mi dà l’opportunità di partecipare più globalmente a tutte tappe del progetto. Durante la scrittura del film, c’è sempre un piccolo produttore “nascosto” dentro di me, che analizza tutto dal punto di vista della produzione e si interroga sulla fattibilità del progetto. Comunque cerco sempre di separare i compiti il più possibile, però non sempre ci riesco. Ho sempre pensato i miei progetti come un insieme, non solamente dal punto di vista di un ruolo particolare. Non posso scrivere storie o idee che poi risultano irrealizzabili. Era già così con i miei cortometraggi, e non è diverso con i progetti attuali, che io sia anche il co-produttore o meno. 

“Human Factors” è stato l’unico film italiano presente al Sundance Film Festival nel 2021. Quali sono, secondo te, le difficoltà per chi vuole realizzare cinema arthouse in questi anni? 

Sicuro che nei prossimi anni non sarà certo più facile realizzare progetti indipendenti. Ho l’impressione che si produca sempre di più, ma maggiormente prevalgono gli interessi commerciali. I film però non sono “prodotti” e credo che il cinema debba essere difeso e sostenuto come forma di espressione artistica, senza compromessi. Non solo i film, ma anche le sale. Non può trattarsi solo di aspetti commerciali. Questo porterebbe a un impoverimento fatale della cultura audiovisiva. Purtroppo, temo che in questo momento ci troviamo su una cattiva strada…

 

Foto Ronny Trocker

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