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July 8, 2022

Creature performanti tra danza e sport: intervista al filosofo Simone Regazzoni

Maria Quinz

No limits” è il tema della 38esima Edizione del Festival Bolzano Danza, che, anche quest’anno tornerà ad animare la città, dal 13 al 29 luglio, con la direzione artistica di Emanuele Masi e con un ricchissimo cartellone di eventi, spettacoli e performance sempre più coraggiosi e dirompenti. Proprio il rapporto tra corpo, mente, prestazione fisica e sfida dei propri limiti, sarà al centro di questa edizione, che porterà in scena non solo danzatori, ma anche acrobati, climber, circensi, sportivi e musicisti, oltre che proporre stimolanti occasioni di discussione e approfondimenti.

‘Aprirà le danze’, infatti, mercoledì 13, alle 17.30, presso la Salewa Entrance Hall, una prestigiosa tavola rotonda dal titolo “Creature performanti, tra danza e sport”, che vedrà riunite diverse personalità della danza e dello sport internazionali: il coreografo franco-algerino Rachid Ouramdane (il cui spettacolo “Corps extrêmes” del Théâtre National de la Dance, andrà in scena lo stesso giorno in anteprima italiana, alle 21.00, al Teatro Comunale) con la ricercatrice, coreografa e performer Francesca Pennini e la giovane atleta altoatesina Judith Rubner e l’alpinista e regista Simon Messner.

Modererà la tavola rotonda il filosofo Simone Regazzoni, docente universitario, autore di numerosi saggi, che attualmente insegna presso l’IRPA di Milano, Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata diretto da Massimo Recalcati e i cui campi di ricerca privilegiati sono la filosofia politica e la filosofia della cultura di massa; tra le sue tante pubblicazioni, citiamo qui i suoi due libri più recenti: “La palestra di Platone. Filosofia come allenamento” (Ponte alle Grazie, 2020) e “Oceano. Filosofia del pianeta” (Ponte alle Grazie, 2022). Simone Regazzoni – che sono felicissima di intervistare – guiderà la tavola rotonda in un’affascinante conversazione con i relatori, ruotando attorno a temi a lui cari, oltre che centrali per l’edizione di quest’anno del festival, andando a evidenziare come discipline apparentemente lontane, come danza e sport, affondino in realtà in un terreno comune sotto molteplici aspetti che hanno a che fare con il lavoro su di sé, così come sull’aspirazione al superamento dei propri limiti.Simone Regazzoni copia

Simone, partirei dal titolo della tavola rotonda e dalla nozione di creature performanti: come mai questa scelta?

Abbiamo scelto di usare la nozione di “creature performanti” perché questa espressione costituiva è già di per sé un modo per entrare nel vivo della discussione, evocando quell’unità di mente e corpo, per cui, nell’antica Grecia, i pensatori ricorrevano alla parola bios (βίος, in greco antico) per definire le forme di vita. Le creature sono forme di vita, cosa di cui spesso ci dimentichiamo. Da un lato, se parliamo di cultura o di questioni legate all’etica, ci riferiamo quasi esclusivamente a mente, spirito, anima, ecc. Dall’altra, se parliamo di sport, deleghiamo tutto alla prestazione corporea, come se lo sportivo lavorasse solo sul corpo e non anche sulla mente e sulla psiche. Parlare di creature performanti, significa quindi rimettere al centro un’altra dimensione del soggetto, come “mente incarnata”, performante, votata a ottenere dei risultati e ad auto crearsi. Questo è uno degli elementi che accomuna discipline diverse, che mettono insieme mente e corpo, come la danza, l’arrampicata o altri sport.
Aggiungerei che spesso noi pensiamo ai soggetti come dotati di caratteristiche stabili e definite: noi siamo qualcosa; noi rivendichiamo il fatto di essere in un modo piuttosto che in un altro…
In realtà, dovremmo, invece, ripensarci in maniera molto diversa: siamo creature che divengono, che si evolvono e mutano. Ma come? Attraverso il lavoro e la performance, cioè la messa alla prova della nostra soggettività. Questo significa che abbiamo tantissime potenzialità, più o meno espresse, lavorando sulle quali possiamo produrre delle trasformazioni. Quindi, per sintetizzare, parlare di creature performanti è un modo per ripensarci in quanto soggetti caratterizzati dall’unità di mente e corpo: come forme di vita in divenire, che hanno la capacità di trasformare sé stesse.

E attraverso quali elementi avvengono tali trasformazioni?

Attraverso degli elementi fondamentali che sono il lavoro e la fatica: elementi che rimettono al centro il soggetto come unità trasformativa – così che non ci siano quegli alibi che spesso usiamo nella società: io sono fatto così, questi sono i miei limiti, io devo accettarmi per come sono, ecc.
Tutta una retorica della mediocrità che domina oggi ed è indotta dall’esterno; perché poi è l’esterno che in realtà decide cosa siamo. Ci nutriamo in un certo modo, ci muoviamo con determinati schemi, usiamo certe posture indotte dal lavoro, dallo studio, dai sistemi di movimento nello spazio pubblico. E pensiamo di essere fatti “così”. In realtà manca un lavoro su noi stessi, di cui invece parleremo proprio in questa tavola rotonda.

Andando quindi a parlare di sport e danza e più in particolare, di arrampicata e danza, cosa lega queste discipline?

Sono discipline che sembrano distanti, ma solo apparentemente. Da una parte, abbiamo una delle arti più antiche che conosciamo, una disciplina di formazione totale. Platone nella “Repubblica” parlava della danza come di una delle pratiche fondamentali per la formazione dei giovani, senza distinzione di genere. Si praticava presso i greci anche la cosiddetta “danza pirrica”: una danza di guerra in armi, che preparava al combattimento. Dall’altra, abbiamo una disciplina che sembra invece rientrare nella categoria dello sport, caratterizzata da un’importante forma di preparazione atletica, destinata, non a creare un oggetto estetico, ma un certo tipo di risultato.

Nella nostra cultura, si tende a tenere separate tali attività umane: lo sport e l’arte – anche se talvolta, oggi, usiamo delle metafore artistiche per parlare di alcuni generi sportivi. In realtà, noi sappiamo – e questo richiamandoci di nuovo all’antichità – che sport e arte condividono spesso lo stesso spazio. La danza, in particolare, è una di quelle forme d’arte – e non sono moltissime – dove il corpo è al centro della scena. La performance dev’essere una performance estetica, quindi avere come scopo la creazione di un armonia di movimento, una certa ripetizione dei gesti, ecc.
Ma tutto questo non può avvenire se non c’è un’atleticità del corpo. Il lavoro di allenamento sul corpo accomuna quindi il danzatore e lo sportivo. E mettere in luce la dimensione atletico-sportiva della danza non è un modo per sminuirla, ma un modo per riconoscere che il lavoro, unito ad un progetto estetico, può condurre il corpo a diventare l’opera d’arte stessa. Quello della danza e della performance è un caso particolare. Nell’arte, solitamente, esiste un corpo che produce qualcosa di diverso da sé; anche un pittore usa il corpo, ma produce oggetti. Nel Novecento, un grande filosofo come Michel Foucault che ha lavorato sulla cura di sé, diceva che il soggetto della performance come corpo vivente che si auto-plasma per superare i propri limiti è l’opera d’arte stessa. La danza di fatto fa questo: il ballerino è l’opera d’arte, mentre l’allenamento di tipo sportivo è la produzione dell’opera d’arte.

 E l’arrampicata?

Venendo all’arrampicata, noi abbiamo tutta una serie di studi sui movimenti, sulle posture del corpo che non vengono eseguiti in sé per sé, ma che hanno comunque, una valenza estetica oltre che funzionale. Di nuovo qui il lavoro che si esegue non è sicuramente, soltanto, un lavoro sul corpo: è un lavoro in cui, attraverso la pratica corporea, si lavora sulla mente. Non c’è la possibilità di fare una prestazione atletica se non si lavora sulla mente. E oggi lo sappiamo tutti quanto l’unità di mente e corpo sia fondamentale: i grandi sportivi, infatti, hanno tutti un mental coach che li affianca. Quindi mettere insieme questi due universi è un modo per approfondirli: possiamo approfondire la danza, se la guardiamo con un occhio “sportivo”, per vedere che tipo di lavoro atletico venga fatto sui corpi e poi possiamo approfondire l’arrampicata, così come altri sport, per vedere quanto lavoro di tipo estetico-artistico ci sia.AF_STLABS_Salewa_Simon_Messner_Sas_Dla_Crusc-269-Edit-2 copia

Cosa ci insegnano quindi danza e arrampicata nella loro messa a confronto?

Entrambe le discipline ci danno un forte messaggio propositivo in una società come la nostra, in cui la tendenza è quella di fare le cose in pochissimo tempo e con scorciatoie, ottenendo risultati mediocri. Ci insegnano che i propri limiti si possono superare, ma c’è un lavoro da fare, c’è un amore della fatica che va messo in conto: la fatica che la nostra società rimuove, cioè il lavoro su sé stessi, il lavoro di trasformazione. Non ci sono scorciatoie per allenarsi a un’arrampicata e non ci sono scorciatoie per prepararsi a una performance di danza. Ci deve essere invece, quello che Platone chiamava la filoponìa, cioè l’amore per la fatica. La fatica è la misura della nostra volontà di trasformarci.

Cosa implicano, di fatto, tali trasformazioni?

È evidente che qualsiasi trasformazione o metamorfosi implica il lasciarsi dietro delle parti del sé: significa diventare altro. Un danzatore dopo anni di allenamento diventa altro, supera i propri limiti. I limiti che cosa sono? Solo la nostra vecchia forma di sé, con cui veniamo a patti, che superiamo sapendo che non ci sono super uomini o super donne. Ci sono soggetti che, invece, devono conoscere il limite ultimo di sé stessi, perché è evidente che non si può superare tutto. Devono gestire al meglio le proprie potenzialità e sapere dove fermarsi, ascoltare il corpo quando dice che è meglio non andare oltre, perché rischierebbero di entrare in quella che gli antichi chiamavano la hýbris, la “tracotanza”, cioè l’idea fuorviante di poter fare tutto. La ricetta giusta potrebbe essere questa: gestite al meglio le vostre potenzialità, non fatevi dare i limiti dall’esterno, da qualcuno che decida chi volete essere. Sappiate che con un lavoro su voi stessi, che implica la fatica, potete diventare quello che non sapevate nemmeno di poter essere; perché è qui che sta l’altro elemento importante: chi danza o arrampica, scopre parti di sé e potenzialità, che non aveva mai immaginato di avere prima di andare sul palco o di essersi misurato con una certa parete.

Associando danza e arrampicata viene naturale individuare anche un altro fattore condiviso, che è quello dell’elevazione, dell’ascesa, dello slancio verso l’alto…

Questo è certamente un aspetto molto interessate, che mette in campo la riflessione sulle posture che adottiamo nello spazio, a cui il più delle volte non facciamo caso e che sono determinate culturalmente. Marcel Mauss, al proposito, parlava di “tecniche del corpo”. Vero è che noi, per esempio, da una certa età in poi, il floor non lo abitiamo più. I bambini, invece si muovono e giocano a terra – e anche la danza contemporanea ha riscoperto il floor. Nel vivere quotidiano più cresciamo, più ci allontaniamo da terra, ci sediamo e ci fermiamo a mezza altezza e dopo una certa età non ci alziamo più. I bambini invece saltano. Platone nelle “Leggi” diceva che l’uomo è un animale che salta; tuttavia nella cultura di oggi, noi occupiamo principalmente lo spazio a “mezz’aria” e vi rimaniamo inchiodati per tutta la vita. Discipline come queste, ci permettono di scoprire potenzialità e spazi che non sembravano destinati a noi, ma ad altri esseri viventi: gli uccelli volano, gli animali si arrampicano… Io pratico da molti anni arti marziali e ho sperimentato personalmente come il lavoro sui calci saltati, siano dei grandi scogli in queste discipline: bisogna saper coordinare un salto girato e alzare la gamba, come fosse una danza. All’inizio questo tipo di lavoro è spaesante: noi non siamo abituati a roteare nell’aria, a fare un giro di centottanta o trecentosessanta gradi, sospesi dal suolo, ecc. È evidente che la somma di tutti quei salti e di tutte quelle piroette è un modo di abitare uno spazio aereo che normalmente non mettiamo in conto.
C’è indubbiamente un’idea di elevazione, di alzarsi e sollevarsi verso l’alto. Nietzsche parlava di aspirazione verso le vette; le vette sono le cime della montagna, ma la vetta è anche fare un salto che mi permetta di elevarmi trenta centimetri o più da terra. Non sono certamente pochi gli sport contemporanei in cui il salto è fondamentale: dal salto con l’asta al salto di Michael Jordan che va a canestro, dalle schiacciate nella pallavolo, al salto con piroetta nel pattinaggio artistico o al colpo di testa nel calcio ecc. Altro aspetto da sottolineare è che se si imparano nuove posture – così ci dicono le neuroscienze – il nostro cervello si modifica non solo neurologicamente, ma anche materialmente. C’è un bel libro di una neuroscienziata ex danzatrice, Hanna Poikonen, che parla proprio di questo, di come la danza con i suoi movimenti influenzi corpo, mente – nella sua parte materiale – e apparato emotivo. Imparare nuovi movimenti e cambiare “altezza” porta quindi a pensare in modo diverso e questa è una cosa che ci dicono le neuro-scienze, ma che sapevano già anche gli antichi, che mettevano insieme pensiero e postura.

A questo proposito, ti chiederei se puoi accennarci brevemente al tuo libro “La palestra di Platone. Filosofia come allenamento”, in cui affronti il tema delle posture, in particolare in riferimento alla figura del filosofo, che “pensa attraverso il corpo”.

Volentieri, anche perché – secondo me – è nello spirito di questo incontro, soprattutto in riferimento al tema del superamento di quei pregiudizi e quelle frontiere che la nostra cultura ha istituito. Ad esempio, il filosofo è pensato come colui che studia seduto a tavolino, il cui lavoro è puramente mentale; anzi un certo disprezzo del corpo farebbe parte, in termini di sociologia della cultura, della costruzione della buona immagine del filosofo. Questo in realtà è un limite enorme ed è un limite molto recente, prodotto dalla istituzionalizzazione della filosofia, da Cartesio in avanti che ha separato mente e corpo, ma, in origine, la filosofia era vissuta come una forma di vita completa, un’arte del lavoro su di sé a tutti gli effetti. Non a caso Platone la fa nascere, non come ha detto qualcuno in una proto-biblioteca, ma in una palestra vera e propria, dove ci si allenava nella corsa, nella danza e nel combattimento. Questo perché le pratiche di allenamento non erano semplicemente dei momenti propedeutici al pensiero, ma erano co-sostanziali al pensiero. L’uomo greco non poteva concepire un pensiero che non fosse anche una mente incarnata nel corpo che si muove. L’idea stessa di un pensiero che ti dà una forma etica, passava per il lavoro sul corpo.
L’ideale della kalokagathìa, dell’essere “bello e virtuoso” insieme, era un lavoro a tutto tondo. Quindi la filosofia che andiamo a recuperare nel suo senso originario e praticata nella palestra di Platone è un lavoro totale su di sé, a trecentosessanta gradi, di cui fanno parte allenamento mentale, allenamento fisico, alimentazione sana e scoperta, ogni volta, di nuovi tipi di movimenti che ci insegnano nuove forme di pensiero. Come appunto diceva Platone tutti possono fare filosofia, basta che siano disposti a faticare. Questa è la premessa. Non servono altre distinzioni per età, classe sociale, né genere – perché c’erano anche donne nella palestra di Platone. L’unico discrimine è la fatica che è propria degli stessi sport.

Questa visione – in termini propositivi – dove ci può condurre nell’oggi?

È attualmente in discussione, tra Senato e Camera – cosa che io mi auspico vada in porto – l’introduzione del diritto allo sport come elemento fondamentale della nostra Costituzione.
Si tratterebbe di un notevole passo in avanti, perché significherebbe riconoscere la centralità, nella formazione di tutti, dello sport. Troppo spesso nelle scuole lo sport è trascurato. Troppo spesso in Italia si parla solo di calcio, quasi fosse l’unico sport esistente. Gli stessi fondi per lo sport, quando non si ha a che fare con i cosiddetti sport “in vetrina”, sono minori. Un paese che investe in palestre e luoghi deputati allo sport, investe sulla formazione, non solo fisica e psicofisica, ma anche sociale e collettiva. Lo sport è una grande palestra di rispetto per sé stessi e per gli altri: stimolando la capacità di interazione, lo stare in gruppo e la conoscenza dei propri limiti, rappresenta una delle forme educative più alte. Spesso cadiamo nella retorica per cui la formazione è solo culturale e libresca. I libri sono assolutamente importanti, ma noi non siamo solo delle menti. Noi vediamo giovani che hanno problemi di gestione del proprio corpo, delle proprie emozioni, del rapporto con il corpo degli altri. Tutto questo non si educa semplicemente a parole, stando seduti in una lezione frontale. Platone lo diceva a proposito del coraggio: voi potete fare la lezione più bella che volete sul coraggio, ma poi se non vi mettete alla prova fisicamente, non vi formerete mai. Quindi anche i discorsi etici si formano facendo sport.

Per concludere, ci racconti, brevemente, qualcosa del tuo ultimo libro “Oceano. Filosofia del pianeta”?

L’idea dell’ultimo saggio è un po’ come fosse – dicamo così – l’altra parte del libro sulla palestra di Platone. Tutto ciò che indica l’allenamento, il lavoro su di sé, ecc, non deve essere pensato come un accrescimento narcisistico dell’Io, come spesso avviene nella nostra società. In realtà l’allenamento, lo sport, la filosofia, la formazione dovrebbero metterci in contatto con una potenza vitale impersonale che ci attraversa. Quando andiamo a lavorare sui limiti dell’Io, lavoriamo anche su quel che ci separa dagli altri e su ciò che ci fa entrare in connessione con la dimensione del tutto.
Chi fa arrampicata lo sa, non combatti con una parete, quando la scali, devi piuttosto entrare in connessione con lei, con le sue pieghe, con le sue rughe, con la sua consistenza. Devi diventarne in qualche modo parte. Nell’ultimo libro sull’oceano la tesi è un po’ questa. In fondo quando pensiamo al pianeta Terra, pensiamo a uno spazio stabile diviso da frontiere, appropriato da soggetti umani sovrani che pensano come coloro che hanno il potere su tutto. Il pianeta Oceano significa, invece, che noi siamo parte integrante di un grande flusso che è questo tutto. I Greci lo chiamavano zoé (dal greco antico ζωή): la vita che non conosce morte. Prendersi cura di questa parte e pensarci in una dimensione di simbiosi è un lavoro su noi stessi che dobbiamo fare, non per separarci dal tutto, ma per recuperare questa fondamentale connessione.

 

Immagini: 1) Les Traceurs, Rachid Ouramdane, Annecy, 2) Salewa, Simon Messner, Sas Dla Crusc, 3) ritratto Simone Regazzoni

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