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June 21, 2022

Emanuele Quinz: Contro l’oggetto. Conversazioni sul design

Mauro Sperandio
21 giugno 2021. Il volume "Contro l’oggetto. Conversazioni sul design" di Emanuele Quinz, pubblicato dalla casa editrice Quodlibet, è stato insignito ieri 20 giugno 2022 - durante una cerimonia nella sede milanese di ADI Design Museum - del prestigioso XXVII Premio Compasso d'Oro ADI. Felici di questo risultato, riproponiamo l'intervista che abbiamo realizzato in occasione dell'uscita del libro nel 2020.

Emanuele Quinz, bolzanino ma ormai da anni trapiantato a Parigi, è storico dell’arte e del design e curatore. Professore associato all’Université Paris 8 e ricercatore associato all’EnsadLab, Emanuele svolge la sua ricerca lungo i confini e attraverso i territori delle differenti discipline artistiche.  Recentissimamente ha pubblicato per i tipi dell’editore Quodlibet l’approfondito e sostanzioso Contro l’oggetto. Conversazioni sul design, che raccoglie il frutto di numerosi confronti tra l’autore e importanti personalità del mondo del design: da Giovanni Anceschi ad Aldo Bakker, passando per il “nostro” Martino Gamper, fino ai Superflex. Un libro sostanzioso, dicevamo, di sicuro interesse per gli addetti ai lavori, ma che anche per il semplicemente curioso lettore offre la possibilità di sbirciare dietro le opere dei designer coinvolti, scoprendone sensibilità, riflessioni e, in senso max-weberiano, Beruf.

Incontriamo Emanuele, grazie ai mezzi tecnologici del nostro tempo e nel rispetto delle normative vigenti, per scoprire di più sul suo Contro l’oggetto.

IMG_2935Partiamo dal titolo. Come nasce questa curiosa dicitura?

Il titolo è una provocazione. Indica un paradosso, l’idea di un design che si spinge oltre l’oggetto e addirittura contro l’oggetto, a volte contro il design stesso.
Il mio punto di partenza è stata l’analisi di quello che viene definito il “design critico”, che si esprime come una posizione di contestazione non solo delle forme del design tradizionale, ma soprattutto dei suoi valori, della sua connivenza con il potere economico e politico.
In un libro precedente (Strange Design. From Objects to Behaviors, con Jehanne Dautrey) ho cercato di esplorare la genealogia di questa posizione critica, dai Radicals italiani degli anni ‘60 al design concettuale olandese degli anni ‘90 al critical design inglese degli anni 2000 fino alle produzioni più attuali. Questa genealogia rimane presente nel nuovo volume (che riprende alcuni testi di Strange Design), ma si estende includendo altre voci, anche discordanti. In questo senso, la prospettiva di un rifiuto o di una critica dell’oggetto non è necessariamente condivisa da tutti i designer che intervengono nel volume. Alcuni come i fratelli Bouroullec, Yves Béhar o Aldo Bakker, sono molto legati all’oggetto e alle dimensioni formali del design. Attraverso le conversazioni, il volume è costruito come una tessitura polifonica, in cui diverse voci si esprimono, tuttavia emerge una tensione comune, un bisogno di ridefinire il design al di là dell’oggetto, come una pratica sociale, come un progetto di trasformazione dei comportamenti.

La vastità di campi in cui i designer si trovano impiegati, e le svariate applicazioni del design, ne rendono complicata la definizione. Qual è la tua opinione a riguardo?

In effetti, oggi spesso si sente dire “è impossibile definire il design”, perché si tratta di un fenomeno troppo esteso, pervasivo, dalle frontiere mobili o porose. Alcuni critici hanno tendenza a identificare il design come un approccio generalista e non specialista, capace di comprendere un orizzonte dilatato di dati e eventi, capace di negoziare con la complessità del reale. Altri tendono a estenderne la definizione, al di là degli oggetti e dei prodotti, alla nozione stessa di tecnica, che caratterizza l’umano. In ogni caso, quello che mi sembra importante è non rinunciare a una definizione del design. Bisogna mantenere vivo il dibattito, non evadere la questione, pensare che una definizione non è un orpello accademico, ma un programma operativo e anche, in qualche modo, una proposta politica.

charpinSi potrebbe dire che il design è un metodo, più che una disciplina?

Negli ultimi anni si è diffuso il Design Thinking, come pratica di co-design che associa designer e utilizzatori in un processo iterativo e comune. Ma questa pratica illustra una visione in cui il design è uno strumento di marketing, in cui l’inclusione dell’utilizzatore nel processo di creazione, permette di rendere i prodotti più efficaci, dal punto di vista dell’usabilità, ma soprattutto della loro attrattiva commerciale. A rischio di andare controcorrente, continuo a pensare che il design sia un campo disciplinare le cui frontiere non smettono di essere ridefinite, non solo quelle storiche, con l’architettura e l’arte, ma anche con l’ingegneria e sempre di più, con le scienze sociali, come la sociologia o l’antropologia. Come appare in modo chiaro nelle conversazioni che compongono il volume, quasi tutti i designer con i quali ho discusso rivendicano una posizione di “designer”. Non si tratta solo di circoscrivere un’azione in un contesto professionale specifico, o d’inserirla in una tradizione culturale, ma anche di posizionarla rispetto a ciò che non è design.
Le posizioni che emergono nelle conversazioni sono anche delle opposizioni. Per cui difendere il design significa difendere certi valori più che semplicemente delle forme. Per questo, mi interessa la posizione paradossale del design critico, che sostiene che per fare il vero design (per esempio aperto, libero, sostenibile, giusto…) bisogna opporsi al design (affermativo, sottomesso all’industria, come strumento di assuefazione…). Nato con i Radicals italiani, il design critico ri-attualizza la tensione politica della filosofia sociale della scuola di Francoforte, di Adorno, Horkheimer e Marcuse per esempio, della loro critica della società dei consumi e dell’industria culturale. Ma anche la tensione intransigente delle avanguardie degli anni ‘60, che spiegava che per fare arte è necessario uscire dall’arte.
In sostanza, essere designer non è solo scegliere un mestiere, o rispondere a una vocazione creativa, ma è anche un progetto di impegno sociale.STADLER_QuizB

Tra le interviste realizzate per Contro l’oggetto, ce n’è qualcuna caratterizzata da dettagli curiosi?

Preferisco il termine conversazione a intervista, perché si tratta in molti casi di trascrizioni di dialoghi che si estendono per mesi o per anni. Le considero tutte come delle conversazioni aperte, non concluse, che continuano a farmi pensare. Del resto, alcune delle conversazioni sono state realizzate da altri critici, implicati in un’indagine comune.
Ma tutte nascono da un incontro, spesso a Milano, al Salone del Mobile. Dopo il primo incontro, la conversazione riprende, a distanza, o all’occasione di una visita dello studio o di qualche esposizione. Tutte le conversazioni sono legate a una storia singolare, ma citerò solo il caso di Ernesto Oroza, che forse è meno conosciuto degli altri. Oroza si è formato come designer a L’Avana, a Cuba e oggi lavora principalmente nel mondo dell’arte. Nei suoi progetti, che hanno la forma di inchieste antropologiche, sono presentati degli strani oggetti realizzati a Cuba dalla popolazione, in cui gli oggetti tecnici imposti dal regime, spesso realizzati seguendo le direttive del design modernista della scuola di Ulm, sono smontati e riassemblati per assumere nuove funzioni. Per esempio, con dei pezzi di lavatrice sono realizzati dei ventilatori. Si tratta di una pratica di hacking popolare, di riappropriazione, di redesign. Ma che nasce dal basso, dal bisogno e dall’uso.  Oroza lo chiama “design della necessità” e aggiunge “Senza necessità, non vedo cosa possa essere il design”. Un’esperienza che serve a farci pensare.

OROZA_15Gianni Pettena, nonostante il suo cosmopolitismo, ha sempre ricordato con entusiasmo la sua origine altoatesina. In Martino Gamper l’origine alpina è forse anche più esplicita. Quali sono, secondo te, i caratteri comuni ai designer nati o ispirati dal nostro contesto?

Anche io sono altoatesino, anche se vivo a Parigi da più di 20 anni, e con Gianni, che vive a Firenze, parliamo spesso delle “nostre montagne”, delle vette alpine, che lui definisce come la sua “scuola di architettura”. Non so se sia possibile isolare degli elementi stilistici che accomunano i lavori di designer o artisti nati in un contesto specifico, in ogni caso, non è quello che mi interessa. Sicuramente ci sono delle tracce, delle influenze, persino delle abitudini che persistono.
E poi, e qui parlo anche per me, c’è la nostalgia.
A questo proposito, ho letto recentemente un magnifico testo di Ettore Sottsass, anche lui nato nella regione, dal lato di Innsbruck, e poi vissuto sempre altrove. Descrivendo i boschi visitati nella sua infanzia, in cui si perdeva, «circondato da miriadi, miriadi di piccole luci che arrivano in silenzio dal cosmo segreto», Sottsass spiega come, in quel magico contesto, abbia per la prima volta sentito la forza della “estasi estetica” – l’intuizione di un’intensità che non l’ha mai abbandonato. E che è divenuta nostalgia.

 Da Giovanni Anceschi, classe 1938, a Pieke Bergmans, del 1978. Quali sono le differenze, legate al fattore anagrafico, che più risaltano? In che modo possono aiutarci a tracciare una seppur incompleta panoramica sull’evoluzione del mestiere di designer?

Contro l’oggetto percorre diverse generazioni e diverse geografie, soffermandosi prima in Italia, poi in Olanda, per poi aprirsi a un orizzonte più esteso, anche se principalmente europeo. Più che una panoramica, che permette di tracciare delle linee chiare di continuità, mi sembra che il volume proponga, come dicevo prima, una trama polifonica, in cui le voci si incrociano in un contrappunto. E poi non mi sembra che sia l’evoluzione del mestiere di designer – la riflessione sugli strumenti e sulle tecniche, sulla produzione, etc – che emerge come un motivo ricorrente, ma piuttosto una tensione, che inventa ogni volta le sue tecniche e non privilegia alcun supporto, che va oltre l’oggetto, sconfinando a volte sul terreno dell’arte o dell’inchiesta antropologica o dell’azione politica: il design come tensione critica, come pratica sociale, come un progetto del mondo più che sul mondo. Un progetto che diventa sempre più esigente dal punto vista etico, più inclusivo e meno esclusivo. E per questo si trova nell’obbligazione di ridefinire il design, la sua missione, il suo mandato. L’obiettivo non è di produrre oggetti e mobili per un’élite agiata né per una massa passiva e indifferenziata, ma di contribuire a una trasformazione profonda della società. Per questo il design, se vuole rispondere a questa tensione sempre più esigente, e, in un certo senso, urgente, è costretto a volte ad andare contro l’oggetto e contro il design. Ma senza cadere nella retorica del designer demiurgo che salva il mondo o nell’ideologia che sostiene che il design ha condannato il mondo, come strumento dell’industrializzazione e della modernità trionfante.
Oggi non abbiamo bisogno di proclami, ma di dialoghi, di conversazioni.

emanuele quinz

Photo credits: 
(1) Martino Gamper, If Gio Only Knew, 2007, Mobili riassemblati, Performance alla Markthalle Basilea (CH), 12–16 Giugno 2007. Per i mobili di Gio Ponti, courtesy Nilufar Gallery, Milano. Courtesy Martino Gamper, Londra.
(2) Il volume Contro l’oggetto. Conversazioni sul design. 
(3) Vedute dell’esposizione Villégiature, 2015, curata da Jean-Pierre Blanc, Villa Noailles, Hyères (F). Scenografia: Pierre Charpin. Collaborazione: Julie Richoz, Mathieu Peyroulet. Foto: Lothaire Hucki, Atelier Pierre Charpin. Courtesy Atelier Pierre Charpin, Paris.  
(4) QUIZ – Sur une idée de Robert Stadler, 2014. Esposizione collettiva, curata da Robert Stadler e Alexis Vaillant, Galerie Poirel, Nancy. Foto: Martin Argyroglo. Courtesy Studio Robert Stadler, Paris.  
(5) Ernesto Oroza, Canapé, 2001. Assemblaggio di sedie in plastica. Courtesy Ernesto Oroza. 
(6) Ritratto Emanuele Quinz, Foto Luca Meneghel. 

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