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July 9, 2021

franz opens to Fies openings #3. Feminist Futures Festival

Stefania Santoni

Dal 1 al 3 luglio a Centrale Fies si è tenuto Feminist Futures Festival, il primo kickoff meeting di APAP, la rete europea dedicata alle Performing Art, che include 20 artiste e artisti e 11 istituzioni tra festival, teatri nazionali, centri di produzione e di residenza. Curato da Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta questo festival ha visto sia un ampio programma di perfomance e installazioni che una Feminist Futures School. condotta da ricercatrici ambientali, sociologhe del lavoro, artiste e artisti.

Nel corso di queste giornate, ho avuto il piacere di conversare con Filippo Andreatta, curatore di Feminist Futures Festival e fondatore di OHT, Chiara Bersani, performer e autrice italiana attiva nell’ambito delle Performing Arts, Elisa Di Liberato, Project developer di Fies Core.OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Filippo, potresti spiegarmi a grandi linee Feminist Futures Festival e in che modo il tuo lavoro, Rompere il ghiaccio, si inserisce in questo contesto?

È la prima volta che ci incontriamo come network europeo dopo che è stato vinto il bando nel 2020 ed è proprio qui a Fies che ha preso corpo APAP, un progetto europeo che prevede la collaborazione di 11 partner. Si tratta di un percorso che ha lʼobiettivo di mettere in pratica pensieri e modalità intersezionali a ispirazione femminista. È unʼesperienza autogestita e autoriflessiva: non ci sono accademici a fare lezione; è uno statement verso lʼinterno in cui ci si chiede come si possono migliorare alcune dinamiche a livello pratico. Ad esempio, per applicare il pensiero intersezionale femminista, noi abbiamo cercato di scardinare le dinamiche di potere in questi termini: le istituzioni hanno sì individuato 12 artisti, ma questi a loro volta hanno invitato altri artisti e artiste così da farle entrare nel network. Qui a Fies è inoltre iniziata la Feminist Future School, cioè una scuola che prova a ridefinire i parametri di autovalutazione che ci auto-applichiamo: sono  momenti formativi in cui ci si interroga su temi e modalità, in maniera eterogenea e orizzontale.OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Per quanto riguarda Rompere il ghiaccio, si tratta di uno spettacolo che ha una vita propria, ma nel quale sicuramente si possono riscontrare delle affinità elettive, delle comunanze nelle pratiche e nei pensieri di Feminist Futures Festival. Con il festival ha in comune il chiedersi “in che modo si può essere più femministi?”, “come scardinare certe abitudini?”. Nel lavoro si materializza molto bene lʼidea del confine come entità in movimento e quindi mette in crisi il concetto di confine come qualche cosa di fisso, fermo, immobile. Il confine si trasforma in questi termini come un essere indefinito: lo spettacolo ci dà così la possibilità di ripensare le relazioni, i cambiamenti, le trasformazioni, come avviene nel festival. Come sai, Rompere il ghiaccio prende avvio dalle lettere dei miei nonni recuperate da mio padre: è lui che le ha catalogate, scannerizzate e riscritte facendo un vero e proprio lavoro dʼarchivio. Potrei dirti che avendo trovato questo archivio già fatto è stato quasi naturale trasformarlo in un lavoro. È così che ho iniziato a rileggere tutto il materiale ricontestualizzandolo da un punto di vista temporale (quando è stato scritto cosa e via discorrendo) assieme a Veronica Franchi, lʼassistente regista. Lei si è occupata più delle lettere, io della cartografia: pur essendo una rottura del ghiaccio nel senso che è stato un lavoro anche personale, il fatto che è personale è da un lato perché non cʼè un approccio egemonico (come diceva Langer, la storia si crea sui corpi delle persone, con le persone e con le loro emozioni, non con le storie con la s maiuscola) dallʼaltro invece perché si provoca sugli spettatori e sulle spettatrici un coinvolgimento emotivo diverso e profondo. Lʼidea di lavorare sulle stelle nasce dalle mappe, intime e anonime al tempo stesso: studiando una serie di mappe terrene e aeree è venuto così a crearsi un rapporto binario con le lettere e le mappe. Lʼobiettivo era di andare su diverse scale di mappe, da una scala più minuta che parte da una linea di confine e di movimento a quella del cosmo. Ci si relaziona a quello per avere una visione più ampia della propria esistenza e così si è creato uno scarto di confronto. È stato inoltre molto interessante lavorare sullo Jodel in chiave contemporanea; il processo fatto sul suono è stato analitico e ha previsto solo lʼutilizzo dei suoni creati da Magdalena: tutto quello che lei produce si trasforma in suono, non ci sono suoni aggiuntivi, ma tuttavia lo spettacolo ha una sua drammaturgia sonora profonda che deriva da ciò che succede in quel preciso momento. Le lettere, le mappe, la voce di Magdalena hanno prodotto un effetto molto avvolgente e coinvolgente. Apap Feminist School, ph Roberta Segata courtesy Centrale Fies1

Chiara, qual è il tuo approccio al femminismo e in che termini si declina nelle tue pratiche performative? 

Quando parlo di femminismo nel mio lavoro intendo quello di approccio intersezionale. Questo tipo di femminismo penso che abbia in qualche modo lʼobbligo dʼintrecciarsi con le tematiche dellʼabilismo e quindi di iniziare a parlare dei nostri corpi e della loro complessità. È solo in questo modo che possono essere messi in discussione alcuni dei suoi paradigmi: se il cambio di prospettiva deriva da un corpo che ha avuto unʼaltra esperienza di vita e di educazione, come ad esempio il corpo disabile, alcuni punti fissi (e quindi anche quelli del femminismo) iniziano a vacillare, a crollare. Altro aspetto per me fondamentale è il transfemminismo inteso come costante richiesta di cambio di prospettiva: dobbiamo accettare che non afferriamo mai niente, che ogni cosa è in movimento e che ogni corpo rilegge tutto. In questi termini il transfemminismo diventa un allenamento per nuovi posizionamenti, che non significa assolutamente essere perse e persi dietro ad ogni stimolo, ma piuttosto essere costantemente alla ricerca di un rigore nella flessibilità. Per me è molto interessante capire come il pensiero femminista si può tradurre nella pratica artistica: ci tengo a precisare che come autrice non sono molto a mio agio nellʼutilizzare la pratica artistica come divulgazione, mi interessa molto di più capire come una pratica politica può diventare azione pratica nella creazione di unʼopera. Si tratta sicuramente di un processo meno immediato, ma è decisamente più viscerale. Quando sei spettatore o spettatrice e vedi il mio lavoro, non cogli in maniera immediata che parlo di determinate cose (perché alcuni aspetti della ricerca e delle pratiche non sono comprensibili allo strato più superficiale): tuttavia potresti carpirne il metodo, che è basato su un determinato approccio frutto di ricerca e studio. È in questi termini che si possono attivare trasformazioni e cambiamenti di prospettive e punti di vista. Il lavoro che sto presentando qui a Fies ha sicuramente in comune alcuni temi con Gentle Unicorn; in entrambi lavori ho scelto una specifica manipolazione del tempo: ci tengo a precisare che non si tratta di tempo lento o lentezza, ma piuttosto di prendersi un tempo per stare dentro una questione. È una questione che per me è legata allʼapproccio intersezionalista: si tratta di prendere qualcosa, accettare che al primo sguardo non lo potrai capire e che hai bisogno di starci dentro, di aspettare, di entrare in contraddizione. È un tema, questo, che riguarda lʼessere una donna disabile: in qualità di donna disabile, io ho tempi diversi da una donna abile. Sono tempi che hanno unʼaltra matrice. Ti faccio un esempio: se devo passare dalla forgia alla turbina, con la ghiaia e i gradini ci metto più tempo rispetto alle altre persone. Ma, andando oltre le questioni tecniche, cʼè proprio una questione mia, di movimento: ho movimenti che richiedono unʼaccuratezza diversa e quindi un tempo diverso. Tutto questo fa sì che io possa decidere di fare un lavoro in cui parlo del fatto che ho bisogno di tempi lenti oppure che io possa scegliere di dar vita ad un lavoro in cui ti accompagno dentro un tempo dilatato. Per questo cerco di portare avanti una coerenza metodologica: se io sono una donna che ha bisogno di lentezza, mi va bene che questo aspetto si rifletta anche nei miei lavori. 

Ad una lezione che ho tenuto alla Feminist Futures School ho lavorato con Mara Pieri, una studiosa che vive in Portogallo. Entrambe abbiamo spiegato due tipi di disabilità differenti: io ho una disabilità fisica-motoria, Mara una visibilità cronica e invisibile. Dal momento che la proposta che ci è arrivata dal circuito APAP è stata quella di fare una scuola e fare formazione attraverso lʼascolto degli artisti e delle artiste per capire come lavorare sul sistema produttivo, insieme abbiamo deciso di affrontare una serie di questioni legate alla formazione, produzione, visione, distribuzione di artiste e artisti con disabilità, ma al tempo stesso di cercare di capire come guadagnarsi la fiducia di un pubblico con disabilità. Ci siamo chieste come provare a ribaltare e a spostare lʼasticella: la partenza è sempre un pubblico abile per poi adattare tutto ad un pubblico disabile; ma se invece si iniziamo a pensare da una partenza altra, come quella disabile, tutto cambia. Non dimentichiamoci che spesso anche le persone abili faticano a stare ai tempi e ai ritmi dei festival di produzione e distribuzione; quindi la domanda è: siamo certi che sia il tempo giusto, questo? Se proviamo a pensare al tempo delle persone con disabilità motoria, neuro-divergenze, con disabilità invisibili, e quindi ad un tempo con delle pause, non diventerebbe tutto più confortevole e  accessibile?  Eva Geatti, L’uomo che accarezzava i pensieri contropelo, ph Roberta Segata courtesy Centrale Fies17

Elisa, quale è stato il processo che assieme a Virginia e Lucrezia avete seguito per realizzare l’immagine visiva del festival?

La rete APAP (che ha 20 anni di vita) per la prima volta, per il primo quadriennio, ha deciso di lavorare sullʼidentità visiva del progetto. Non era mai successo prima. Per fare questa operazione è stata scelta Centrale Fies. Questo progetto ovviamente presenta complessità notevoli: non si impegna più solo a supportare artisti, creatività, far fare produzioni e residenze, scambiare pratiche ma si pone una mission davvero molto alta che è quella di capire come unʼistituzione da un punto di vista pratico possa diventare più orizzontale, inclusiva, più propensa a lottare contro le discriminazioni già dal suo interno, tra lavoratori e lavoratrici, tra quelli che sono storicamente i vertici delle istituzioni culturali (direzione, curatori) e quelli che vengono percepiti dallʼaltra parte, cioè gli artisti e le artiste. Sappiamo infatti che questi non sempre lavorano con contratti che rispettano la qualità del loro lavoro. La rete APAP ha di fatto deciso di interrogarsi su come le istituzioni possono cambiare, cioè su come fare autocritica e trasformare questo atteggiamento in una pratica costante ispirandosi al femminismo intersezionale, vale a dire un corpo di pensiero consolidato e che si sta evolvendo in varie forme per attivare delle rivoluzioni interne a partire dalla definizione del proprio pubblico (con domande come: quale pubblico sto includendo o escludendo? Quali azioni sto mettendo in atto verso un target che magari qualche anno fa non pensavo di dover considerare?). Il lavoro che abbiamo portato avanti è stato quindi molto complesso perché coinvolge 11 istituzioni culturali, come centri di produzione, residenza, festival sparsi in tutta Europa. Ovviamente ognuna di queste istituzioni pensa a livello nazionale e quindi la rete è per forza di cose eterogenea. Il Feminist Futures Festival di Fies è il format dello share festival della rete, cioè un festival pensato e strutturato in due o più strutture contemporaneamente tra i partner per scambiare pratiche e visioni, per offrire agli artisti un supporto più strutturato.

Per quanto riguarda lʼimmagine visiva, abbiamo cercato di trovare nuove pratiche e metodologie femministe anche nel processo creativo di realizzazione. Da qui abbiamo deciso di fare un processo di co-design con tutti i partner, cioè un vero e proprio coinvolgimento costante dei partner cui spiegare cosa facevamo e dai quali ricevere feedback. In questo modo da una parte abbiamo reso più fragile il processo, visto che siamo 11 istituzioni e ognuna di queste ha un approccio visivo personale, ma dallʼaltra abbiamo co-realizzato un progetto che si fa portavoce di sinergia e comunione di intenti. Innanzitutto abbiamo realizzato dei questionari da sottoporre ai partner e creato un moodboard. Abbiamo poi esplorato gli immaginari visivi attraverso una ricerca iconografica precisa e selezionato 8 mood visivi (come incantesimo, the new queer, political body, intersezionale, making kin, girl power) che erano relativi a pratiche femministe e attivismi di diverso pensiero. In seguito abbiamo chiesto alle istituzioni in che modo si posizionavano a fianco di questi. Il responso del posizionamento ci ha indirizzati su come procedere per realizzare logo e identità visiva. Così abbiamo prodotto due loghi, uno che richiamava più il concetto di making kin mentre lʼaltro quello di incantesimo e, per rispondere alle esigenze della rete, abbiamo ibridato queste due visioni. Si è quindi configurato un logo con una natura più umana, ma anche una pelle che contempla più possibilità: abbiamo reso fluido e vivido il risultato, lavorando su una superficie cromata. Il risultato è una forma che è una creatura viva, fluida e che pulsa in tante direzioni. Sono tensioni che vanno in direzioni molto contrastanti e diverse, proprio come quelle dellʼEuropa. 

Crediti fotografici:

1: OHT, Rompere il ghiaccio, ph Alessandro Sala courtesy Centrale Fies
2: OHT, Rompere il ghiaccio, ph Alessandro Sala courtesy Centrale Fies
3: OHT, Rompere il ghiaccio, ph Alessandro Sala courtesy Centrale Fies
4: Apap Feminist School, ph Roberta Segata courtesy Centrale Fies
5:  Eva Geatti, L’uomo che accarezzava i pensieri contropelo, ph Roberta Segata courtesy Centrale Fies

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