Culture + Arts > Literature
May 20, 2021
Tzimtzum 04: è volere che non voglio
Allegra Baggio Corradi
Sinceramente, Giacobbe, la tua levità è imbarazzante. Sul pianeta gassoso hai chiaramente perduto ogni senso della realtà. Non sto costruendo un nemico come sostieni né lo sto identificando con te. Che egomane che sei! Mi dici di illanguidirmi nel vino, ma non sai, perché non vedi e non vivi la vita quaggiù, che l’unico liquido rosso che scorre ormai è quello dei morti dissanguati; morti come muoiono i colonnelli di fanteria che devono a tutti i costi impadronirsi di quota 960, caduti con tre ferite allo stomaco ed una sola, letale, all’anima. Sono stanco, non ricordo tutti i nomi, i cognomi, il sesso, l’età, l’altezza, la professione, l’indirizzo e il colore degli occhi dei millenovecento ottantacinque caduti dei quali ho prelevato i documenti dal taschino mentre erravo per le vie, forse errando nel farmi sciacallo.
Vendemmia atroce quella della guerra. Non c’è il pane di segale che vorresti mangiassi, nessuna copula che possa debilitarmi, nessun unguento di cui cospargermi. Non le voglio le cose, tanto meno quelle che suggerisci tu. È volere che non voglio, ma tu che ne sai? Tu che sei ancora pago di sogni fantastici e ti nutri incessantemente di promesse, di idilli solitari, di libertà assoluta senza responsabilità. Che ne sai?
Avrei dovuto capirlo già quella volta, quando tu, hijo-de-algo, ti sei rivelato il furbo-cretino che eri, che sei. Mentre salivamo gli stretti scalini che a Castel Cornedo portano dalla camera da letto al tetto, ci mettemmo ad osservare il vuoto sotto ai nostri piedi ricordando che un tempo fu mare: ironia della sorte, non trovi? La mar o el mar? Rimanemmo lì, in attesa, finché tu non mi spinsi, se per scherzo o per scherno non lo capii mai. Caddi e prontamente mi salvasti; le mie mani aggrappate alle tue quasi fossero stelle, apparse per annunciare il mio destino: tu lassù, io quaggiù.
“Im leuchtenden Teppichgemache, da ist es so duftig und warm!”, sussurravi mentre mi tenevi aggrappato a mezz’aria. Non capivo a cosa ti stessi riferendo, ma ero troppo grato perché mi avevi salvato per pormi delle domande sul tuo delirio interpretativo. Tu tamponatore di vistose larderie, fu allora che iniziai ad essere cauto. Sei sempre stato insofferente all’imbecillaggine generale del mondo, alle baggianate ritualistiche dei tuoi borghesucci d’amici, ai crimini del mondo scritto e non scritto. Non verresti mai definito associale o misantropo perché le tue doti recitative sono fastidiosamente efficaci. Ti raccogli nei tuoi studi averroistico-cusiani rifuggendo quelli che chiami gli ‘anilia deliramenta’ della burocratizzazione. Ma tu chi sei veramente se non l’opposto di ciò che ti schifa?
Eppure, tu rifletti sui riflessi di luce e ti domandi se non possa esistere la spada se non esisti anche tu: sei tre volte rimosso dal vero, tu pensi il pensiero. La sceverazione degli accadimenti del mondo e della società in simbolo, come descrivi nelle tue lettere naïf dal pianeta gassoso, male odorano di muffe della storia biologica e della relativa componente estetica che tu in quanto autore – bada bene, non attore, ma autore – ami dare della vita senza viverla, della società senza neppure avvicinartici. La verità è che la storia è una bamboccesca inanità e tu rivolgi sempre ogni tuo pensiero, come nel caso della spada di luce, a quel lurido pronome che è l’io. Santa e sadica megera ch’è la storia, tu sei un moralone pitocco perché giudichi gli altri dall’alto dell’esasperata consapevolezza della tua bestiaggine. Scendi, maledizione. Prova anche solo a capire perché non è il momento di dare consigli, perché è volere che non voglio.
Comments