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May 13, 2021

Padiglione Italia Biennale Architettura 2021: vivremo, sopravvivremo o daremo vita?

Allegra Baggio Corradi

La 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, curata dall’architetto, docente e ricercatore Hashim Sarkis, si terrà dal 22 maggio al 21 novembre 2021. I contributi di 46 paesi – di cui Grenada, Iraq e Uzbekistan al loro esordio – e 112 artisti verranno suddivisi in cinque aree tematiche: Among Diverse Beings, As New Households, As Emerging Communities, Across Borders e As One Planet. Anche quest’anno la Mostra si estenderà sino a Forte Marghera, dove il progetto How will we play together? rifletterà sul futuro del gioco in termini architettonici. Il programma della Biennale sarà arricchito dai Meetings on Architecture, durante i quali architetti e studiosi di tutto il mondo tenteranno di trovare delle risposte alla domanda centrale alla Mostra, ovvero “How will we live together?”, tramite dialoghi sul rapporto tra cambiamento climatico e architettura, tra spazio pubblico e rivolte urbane, tra nuove tecniche di ricostruzione e forme mutevoli dell’edilizia collettiva. Il fine curatoriale di Sarkis è quello di offrire un’opportunità concreta agli architetti, soprattutto se giovani ed emergenti, di affermarsi come cittadini sintetizzatori, capaci cioè di attingere da diverse forme di competenza e di espressione per risolvere problemi complessi e concreti rendendo anche più belli gli edifici strada facendo.

Nel contesto dell’edizione 2021, il Padiglione Italia Comunità resilienti sarà a cura dell’architetto e ricercatore Alessandro Melis. Cofondatore di “Heliopolis 21 Architetti Associati”, studio di architettura e design urbano con sedi a Pisa e Berlino, Melis si focalizza soprattutto sulla progettazione di edifici pubblici a basso consumo energetico e sull’ospitalità sostenibile. Èconosciuto nel mondo accademico per aver introdotto i cosiddetti “hybrid teaching methods” e per aver integrato computazione e fluidodinamica nella progettazione climatica. 

Al Padiglione Italia Melis ha voluto garantire una forma-concetto peculiare – così chiosa il collega Gianluca d’Incà Levis, curatore di Dolomiti Contemporanee  – acquisendo responsabilmente in ruolo (tra gli altri) di – “enciclopedico catalizzatore ultraconnettivo delle risorse intelligenti all’interno di una rete viva e plastica d’alleanze reattive, che rifiuta i segregazionalismi compartimentatori propri dell’onanismo personal-professionalistico in favore di una gravidanza collettiva; operando alla messa a punto di soluzioni e sistemi concretamente operativi che partono da ciò che già c’è e resiste (resilienza culturale); determinando un parto di opportunità ri-generative originatesi e cresciute all’interno di una iprertrofica giungla organigrafica abitata da strane creature rese seminali nei bozzoli iridescenti della fantescienza culturale, chiave di lettura questa di una realtà progettuale-visionaria che include ed alimenta l’immaginazione creativa, l’ironia quale meccanismo esploratore funzionale stigmatizzante delle spazialità terrestri e sideree (ahinoi spesso rapprese), l’idea di un’alienità tonificante e trasformativa rispetto alle logiche compilative dei realismi paupero-descrittivi e degli altri triviali complessi inchiodati d’umane reificazioni, e così via…” 

05_Architectural Exaptation_Installazione Curatoriale_Spandrel

Nel Padiglione Italia, la sezione Dolomiti Care curata da d’Incà Levis elegge le Dolomiti a sismografo dell’estremizzazione climatica e dell’eccessiva antropizzazione. Partendo dal presupposto che il paesaggio è uno ma differenziato, Dolomiti Careattualizza il potenziale delle risorse già esistenti attraverso lo spirito, ovvero si focalizza sulle possibilità intelligenti ed esistenti utili a risolvere i problemi del pianeta per far coincidere il potenziale delle cose con le cose stesse. Attraverso lo strumento dell’arte contemporanea, delle buone pratiche e delle reti partecipate, Dolomiti Care offre una visione del territorio come luogo gravido, come sito di co-generazione e interconnessione spaziale unitaria e coerente. Lungi dall’essere uno spazio fossile, le Dolomiti sono vissute al di là della loro collocazione geografica specifica e rese sito studio di fenomeni universali nonché mezzo per tracciare un confine tra il fare bene e il fare male.

Dolomiti Care si inserisce all’interno di Comunità Resilienti proponendo una visione dell’esistenza ancora prima che dell’architettura. In questo senso, il margine diviene serbatoio delle possibilità di vita del tutto, come spiega Melis nella sua riflessione curatoriale sul Padiglione Italia.

04_evoluzione logo

Ciao Alessandro. Il Padiglione Italia è nato a partire da uno sforzo collettivo piuttosto che essere figlio unico di un solo curatore. Come hai innescato questo processo?
Qualsiasi intervento riguardi lo spazio urbano è al momento sottoposto ad un processo di decolonizzazione partecipata che combina giustizia sociale e democrazia. Nel contesto del Padiglione Italia, questo avviene attraverso l’interdisciplinarietà e l’exaptation architettonica.

La teoria dell’exaptation prevede che un carattere evoluto per una particolare funzione ne assuma una indipendente dalla primitiva rivelando la presenza di nuove risorse laddove non si sospettava ve ne fossero. Le pieghe laringee, ad esempio, sono comparse per impedire che il rigurgito del vomito entrasse nei polmoni, ma successivamente sono state cooptate per produrre suoni trasformandosi nelle corde vocali, ma mantenendo la loro funzione originaria.

Chi studia fenomeni di exaptation in biologia sa che diversità, variabilità e ridondanza sono elementi imprescindibili per comprendere i meccanismi evolutivi. Tra gli anni Sessanta e il Duemila è avvenuta una rivoluzione tassonomica che ha portato, oltre i confini dell’etica, alla comprensione funzionale del fatto che la sopravvivenza dipende dalla molteplicità. Nel Padiglione Italia abbiamo applicato il medesimo principio, ricorrendo allo sforzo collettivo e dunque non a cento Alessandro Melis così come non a cento uomini bianchi, per dare un nome a un fenomeno che già esiste, ma che è ancora marginalizzato.

Se si centralizza il meccanismo dell’exaptation in architettura dando importanza a ciò che già esiste, che ruolo acquisiscono gli architetti?
La celebre posizione di Bernard Rudofsky secondo il quale si può fare architettura senza architetti è valida in questo contesto, ma va precisata. I raffinati fenomeni architettonici che esistono, ad esempio, nelle periferie, seguono meccanismi e logiche sociali e tecniche diverse dai canoni. Il rischio demagogico del pensare che ci possa essere un’architettura senza architetti si contrappone al problema opposto, ovvero al fatto che colui che definiamo ‘architetto’ oggi è più di un semplice ‘capo costruttore’. Come già sosteneva Aristotele, l’architetto è un ‘costruttore di idee’ ovvero colui che fa della creatività il proprio elemento guida poiché opera secondo i principi dell’interdisciplinarietà. 

Sappiamo che la società ha una certa forma di inerzia e che quando ci sono delle crisi ambientali, una parte della società riesce a trasformare i meccanismi inerziali, ovvero le modalità standard di sopravvivenza che seguono uno sviluppo lineare, nel pensiero associativo che è all’origine della creatività. Questo significa che esiste una parte della popolazione che predilige la creatività durante un cosiddetto salto evolutivo ed è tra questa che vivono gli architetti, i costruttori di idee. Ci sono degli eventi storici precisi che dimostrano questo. La paleoantropologa Heather Pringle, ad esempio, fa riferimento al Rinascimento per provare che la crisi del Trecento è stata superata proprio perché una parte della società ha spostato il proprio asse verso la poligrafia ossia l’interdisciplinarietà, abbandonando la linearità a favore del pensiero associativo. 

03_Padiglione espanso

L’architetto, il costruttore di idee, è, quindi, colui che interpreta il caos che regna nella giungla popolata da strane creature?
Esiste una scalabilità del cervello umano secondo la quale a partire da sistemi creativi ne produciamo di nuovi. Non abbiamo scoperto il fuoco perché lo cercavamo, ma è accaduto mentre eravamo occupati a fare altro; lo stesso con la materia oscura. Il pensiero non lineare è il serbatoio della nostra sopravvivenza perché il nostro codice genetico è definito in base al suo proliferare in una giungla abitata da strane creature. 

Capiamo, quindi, perché la perfezione sia autodistruttiva in quanto non lascia spazio all’imprevedibile. L’unica perfezione possibile è, di fatto, l’imperfezione. Dunque, sì, l’architetto è colui che si muove necessariamente nel caos tramite un pensiero associativo. Per questo il Padiglione Italia è pensato come un laboratorio, una specie di bottega del Verrocchio, nella quale chiunque entri possa muoversi nel caos scoprendo il proprio fuoco grazie alla ridondanza.

A livello espositivo, come vengono trasmesse l’assenza di linearità e l’atmosfera della giungla?
Abbiamo chiuso figurativamente le porte del Padiglione all’esterno, mantenendo invece all’interno tutti i materiali che erano stati utilizzati per costruire il Padiglione della Biennale d’Arte del 2019. Siamo, quindi, partiti da ciò che già esisteva nel rispetto del principio naturale dell’economia o ‘contrazione funzionale’. Il fatto che le componenti del Padiglione non fossero state prodotte a scopo deterministico ha permesso di attivare un caos creativo. 

Abbiamo, quindi, chiesto ai partecipanti di contribuire con delle installazioni che mettessero in discussione alcuni paradigmi dell’architettura, principalmente il binomio natura/artificio poiché questo discorso si riallaccia ad una riflessione più ampia di biologia dell’evoluzione; ovvero, il fatto che noi diamo per scontato che tutto ciò che creiamo sia artificiale e in competizione con la natura. La capacità dell’uomo di creare degli abiti o seconde nature non inficia la natura in sé quanto piuttosto genera dei meccanismi autodistruttivi per l’uomo stesso. Siamo illusi di essere in competizione con qualcuno ed è proprio da quest’idiosincrasia che nasce la nostra idea di città. 

Ci saranno all’interno del Padiglione una serie di installazioni e opere che ricorderanno il proliferare degli organismi viventi in natura. Non ho ancora chiaro nemmeno io cosa possa nascere dall’incontro dei molti e diversi mondi che convivono all’interno del Padiglione, quindi, starà al visitatore dare un senso alla propria esperienza all’interno. A questo proposito, citerei l’idea di ‘serendipità’ ovvero di un meccanismo d’interazione con l’ambiente che crea una serie di opportunità spesso migliori di quelle che pensavamo potessero esistere adottando un pensiero lineare. 

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In mezzo al caos troviamo un’area più strutturata e canonica che è Italian Best Practice
Italian Best Practice è esattamente quello che ci si aspetta da un Padiglione tradizionale. Abbiamo selezionato dodici progetti di architetti che avessero a che fare con il tema delle comunità resilienti e della sostenibilità. Si tratta, dunque, di una piccola mostra abbastanza canonica in questo senso intorno alla quale proliferano fenomeni marginali. Nonostante si trovi al centro, abbiamo optato per una selezione di figure che, seppur italiane, fossero attive al di fuori del paese e che quindi delineassero una geografia meno centralizzata e più periferica dell’architettura italiana come fenomeno che non si sviluppa necessariamente in Italia.

Che rapporto intercorre tra periferia e sperimentazione? 
Quando mi sono trasferito in Nuova Zelanda mi sono accorto che il mondo aveva un aspetto diverso da quello che pensavo. Il centro, quando ero lì, si è spostato nonostante la sensazione fosse sempre quella di essere ai margini. Per fare un esempio concreto, i manuali ai quali ci rifacciamo noi progettisti non tengono mai in considerazione il fatto che il sole possa spostarsi non verso sud, ma verso l’equatore o il centro del pianeta. Il problema è tassonomico. Il discorso fila se ti fermi in un luogo, ma più ti sposti più quello che fai è sbagliato. Quando parliamo di margini, quindi, non intendiamo solo il voler dare voce agli oppressi, ma vogliamo abbracciare la complessità del mondo perché spesso ci sono soluzioni e opportunità laddove non le cerchiamo. Quanti libri abbiamo letto, ad esempio, secondo i quali è stato Colombo a scoprire l’America? Quando ho visitato il museo di Auckland ho scoperto che il popolo polinesiano si spostò dall’Asia all’America nel 1200 attraverso il Pacifico. Ciò non significa semplicemente che trascuriamo determinati fenomeni, ma che non siamo sufficientemente interessati a capire come sono state possibili certe dinamiche. 

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A livello architettonico, come si possono comprendere certe dinamiche per riuscire a vivere piuttosto che a sopravvivere?
Questo è un punto estremamente importante, anche perché rientra nei miei interessi di ricerca. Una delle ragioni della crisi della città contemporanea è la concezione monofunzionale delle strutture. Nel movimento moderno si prendono le funzioni di un determinato luogo e le si interpretano in modo riduzionistico. Nel momento in cui si suddivide una città in zone – lì si dorme, lì si mangia, lì si lavora – si riduce l’uomo a mera funzione. In questo momento di passaggio di superamento della crisi ambientale, se costruiamo dei luoghi dell’esistenza ovvero delle case che sono meno razionali e più funzionali nelle quali accogliamo la complessità dell’uomo, non solo pensiamo alla vita e non alla sopravvivenza, ma adottiamo una mentalità intrinsecamente ecologica. 

Una delle ipotesi che abbiamo sondato nel Padiglione è che molte delle cose che non possono sussistere in una città funzionale che produce danni sono riparabili attraverso una visione complessa e stratificata delle comunità resilienti, le quali dovrebbero essere al centro dei progetti piuttosto che diventarne il fine ultimo. Il problema non è discutere se sia meglio la città o la campagna, ma capire quali siano gli strumenti che rendono una comunità felice. Quali sono i mezzi adatti non a sopravvivere, ma a vivere?, questo è il punto. Non parliamo, quindi, di città o villaggi, ma di sistemi di relazione, accessibilità, mixed use. Qualsiasi altra cosa è una fenomenologia dell’Ottocento che non fotografa nulla dell’oggi.

 

Photo Credits @ Biennale Architettura 2021
01_Laboratorio Peccioli
02_Architectural Exaptation. Installazione Curatoriale Sprandel
03_Logo Evoluzione
04_Padiglione Espanso
05_Installazione Curatoriale. Cyberwall Antismog
06_Schizzo iniziale. Installazione Curatoriale Sprandel

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