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April 27, 2021

Andrea Bernard: teatro realtà, regia
della magia

Allegra Baggio Corradi

I suoi personaggi vivono esperienze al di là della linearità. Il suo linguaggio è gestuale e musicale. Il sua drammaturgia è la direzione. Il suo pubblico la sua domanda. I suoi racconti aperture al mondo. Il palco artificio e magia. Il regista e scenografo bolzanino Andrea Bernard crede che il teatro non sia un’operazione museale, ma la costruzione di una coerenza che nasce dalla vita, tra sogno e magia. Ugualmente impegnato sui versanti dell’opera lirica e della prosa, Andrea ha diretto, tra gli altri, “La Traviata”, “La Bohème”, “Lucrezia Borgia”, “La valigia di un gran bugiardo” e “Brattaro Mon Amour”. Vincitore del nono premio europeo per la regia d’opera e finalista del premio internazionale per l’opera nel 2020, a lui la parola…

Ciao Andrea, raccontaci dei tuoi inizi…

Nasco teatrante. Già durante il liceo pensavo più al teatro che a studiare. Frequentavo un corso di recitazione e poi ho seguito la regia dei musical del liceo Rainerum. Mi sono presto reso conto che nel recitare stavo più attento a che tutto andasse bene sul palco piuttosto che alle mie battute, che dimenticavo spesso. È da lì che è nato il mio interesse per la regia. 
Al termine del liceo, ho deciso di iscrivermi all’Università di architettura. Nutrivo un interesse per la scenografia, lo spazio e l’estetica, ma in cuor mio sapevo che quello che volevo fare davvero era il regista. Molti registi, comunque, sono architetti di formazione, ad esempio, Francis Ford Coppola, quindi avevo dei riferimenti. Durante gli studi universitari ho continuato con il teatro. Ho cominciato come figurante al Teatro Comunale di Bologna per diventare dopo poco assistente alla regia, facendo molta gavetta e avendo la fortuna di girare il mondo collaborando a importanti produzioni nelle quali ho seguito grandi maestri come Pier Luigi Pizzi e Damiano Michieletto, con il quale collaboro ancora adesso. 
Il mio debutto alla regia in prosa è avvenuto nel 2012 grazie a Walter Zambaldi che mi ha chiamato a Bolzano per mettere in scena una nuova drammaturgia di Paolo Cagnan, “Brattaro, mon amour”. Qualche anno dopo ho debuttato nella lirica vincendo un premio a Berlino che mi ha permesso di mettere in scena “La Traviata” al Festival Verdi di Parma.

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Data la tua formazione come architetto, hai un interesse o ti occupi anche della scenografia dei tuoi spettacoli?

All’inizio seguivo anche questo aspetto, ma ho capito che prestando attenzione a questo rischiavo di non concentrarmi sul resto, quindi, mi sono focalizzato sulla regia. In più, mi piace circondarmi di persone delle quali mi fido e nel caso della scenografia, mi piace sviluppare lo spazio della narrazione anche tramite gli occhi dei miei collaboratori che vedono altre cose rispetto a me, arricchendo di dettagli l’esperienza estetica della narrazione finale.

A livello estetico, come trovi una coerenza narrativa mantenendo una tua firma?

Anche se sono ancora molto giovane, credo che il rischio nel corso degli anni per numerosi registi sia quello dell’autoreferenzialità. Da una parte c’è una questione stilistica, dall’altra una narrativa. Trovo la mia individualità come regista attraverso la costruzione di una coerenza drammaturgica, ovvero di un linguaggio estetico definito tanto in base alle mie conoscenze e i miei gusti quanto quelli dei miei collaboratori; è importante seguire sempre la drammaturgia e le storie dei personaggi che raccontiamo. Non opto mai per il decorativismo e credo sia importante porsi un obiettivo specifico da raggiungere con uno spettacolo per trovare una coerenza. Dunque, la coerenza drammaturgica è la direzione del racconto verso un obiettivo specifico. 

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Cosa significa raccontare per un regista? 

Raccontare è aprirsi. Non sono scrittore quindi non racconto storie a partire da zero. Come regista mi baso su storie scritte da altri; questo significa che esistono punti di partenza tanto deboli quanto forti. Quando l’incisività del riferimento scritto è minore c’è più margine di intervento da parte del regista. Credo che il mio compito sia quello di aggiungere una chiave di lettura ulteriore ad una storia che andrebbe altrimenti a consumarsi fino a diventare un reperto storico. La regia non è un’operazione museale. Esistono molte produzioni famose e importanti che raccontano storie classiche in maniera brillante, ma se devo lavorare a queste stesse storie cerco di sottolinearne degli aspetti magari anche piccoli o molto puntuali che manifestino un mio modo di vedere la vita. Dopo tutto, il teatro è un modo artefatto e magico di raccontare la vita.

Quindi realtà o sogno?

Cerco sempre di raccontare le storie a partire da un contesto di realtà per poi spostarmi su un piano sconosciuto che è simile al sogno. Fare teatro è creare una visione che prescinde dalla realtà pura per permettere allo spettatore di capire la vita; cito sempre il realismo magico di Borges e Marquez nel quale mi ritrovo molto. Ci succede costantemente nel quotidiano senza che necessariamente ce ne accorgiamo di passare da un contesto di realtà ad un altro di magia e questo perché tutti viviamo ma vogliamo anche tutti sognare. All’interno di una cornice registica questo è un passaggio fruttuoso perché permette alla linearità di non diventare un fattore determinante. Con il mio lavoro mi piace fornire una lettura onirica e psicologia dei personaggi per mostrare il sottinteso, per fare emergere ciò che non viene sempre esplicitamente detto a parole e questo per andare oltre la linearità della storia.

La-traviata_Luisa-Tambaro-Violetta-Valéry_D4_1163_©Andrea-Ranzi-Studio-Casaluci_TCBO-2019

A teatro, oltre la non linearità ci sono domande o possibilità?

Il teatro è una domanda diretta allo spettatore, un modo per stimolarlo. Oggigiorno siamo abituati a sedere sul divano, a guardare, a stoppare una serie alle volte leggera per non pensare troppo. Il compito del teatro così come del cinema è di provocare una reazione da parte dello spettatore. Contenti non si può mai fare tutti, ma mi piace quando i pareri sollevati da uno spettacolo sono contrastanti.
Con “La Traviata”, ad esempio, mi è capitato di ricevere delle critiche in relazione al rapporto che avevo costruito tra i protagonisti Violetta e Alfredo. L’enfasi sulla convenzionalità piuttosto che sull’amore ha suscitato dei dibattiti, ma allo stesso tempo comprensione da parte dei puristi dell’opera. Ambientando lo spettacolo all’interno di una casa d’aste ho voluto enfatizzare il concetto di mercificazione dell’amore, scatenando dei dibattiti perché ho proposto un nuovo punto di vista. Credo che a teatro bisognerebbe entrare senza preconcetti e uscire con molti spunti di riflessione. 

A livello esperienziale nel contesto dell’opera, ogni lingua genera la sua musica. Quando ti confronti con libretti stranieri cambia anche il metodo di costruzione dello spettacolo?

Spesso compositori stranieri scrivevano in italiano perché era di moda ed era considerata la lingua con la musicalità migliore. Si è poi passati a scrivere nelle lingue originali degli autori, aiutando nella comprensione del testo. Quello che mi piace è che avendo ogni lingua suoni e musicalità diverse, si deve lavorare su accenti e parole molto specifiche. A livello narrativo e comunicativo, per quanto mi riguarda, non ci sono grandi differenze. 

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Quindi, i vuoti comunicativi legati alla lingua possono essere riempiti dalla gestualità e dal suono?

Esatto. Mi viene in mente “Amleto” di Eimuntas Nekrosius che ho visto a Bolzano in lituano qualche anno fa. Anche se non capivo la lingua, la comunicazione avveniva tramite la gestualità e il suono. Un altro aspetto importante, come ho già accennato, è l’estetica. Credo che la decorazione sia estetica senza etica. Tutti gli aspetti narrativi, dalle luci agli oggetti all’attrezzeria ai costumi, fanno parte del racconto e in questo senso devono non solo riempire uno spazio, ma anche degli eventuali vuoti di senso, dando coerenza al tutto. 

Fino ad ora abbiamo parlato del lato più sognante e astratto del teatro, ma la regia è anche pratica e tecnica…

Sì, lo è sempre di più. L’organizzazione di uno spettacolo impone al regista delle responsabilità gestionali: le prove, le scene, i costumi, le luci. Spesso bisogna anche gestire un budget. Quando hai chiaro in testa quello che vuoi ottenere e non c’è la possibilità di realizzarlo bisogna evitare che tutto crolli. Ho imparato a convivere con questo aspetto del teatro. Spesso è necessario ritornare con i piedi per terra perché il sogno stride con la realtà. 

Credi nei mentori?

Sì, credo che avere un maestro sia una necessità perché ti permette di imparare non tanto uno stile quanto un metodo. Ho sempre cercato dei grandi maestri perché volevo imparare dai migliori; non per copiare, ma per imparare il lavoro e il loro modo di sognare.  

Infine, cosa popola il tuo scaffale immaginario?

Sicuramente una pianta rampicante che di anno in anno si dirama in tante direzioni diverse, alcuni romanzi e un libro di cucina, una mia grande passione.


Photo Credits
1. Andrea Bernard durante “Don Pasquale” al Maggio Musicale di Firenze 

2. Scena di “Don Pasquale” al Maggio Musicale Fiorentino , Foto Michele Monastero
3. Scena di “Lucrezia Borgia” al Festival Donizetti di Bergamo, Foto 
4. Scena de “La Traviata” al Festival Verdi di Parma, Foto Andrea Ranzi/Studio Casaluci
5. Andrea Bernard ritratto da Claudia Corrent 

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