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April 26, 2021

Cosa ci insegnano le Alpi 06. Design, arte, cultura: studio d-o-t-s

Emanuele Quinz
Il paesaggio delle Alpi è un ecosistema unico, un fragile e millenario equilibro tra natura e cultura. Cosa insegnano le Alpi – a chi le attraversa, a chi ci vive e lavora? Ma soprattutto, come influenza questo paesaggio, questo ecosistema, questa cultura il pensiero e la pratica degli artisti e dei designer?

Per il sesto episodio della nostra serie, incontriamo Laura Drouet [FR] e Olivier Lacrouts [IT/FR], che nel 2014 hanno fondato d-o-t-s. Con una vocazone esplicitamente nomade e internazionale, lo studio sviluppa progetti editoriali e curatoriali incentrati su dinamiche sociali alternative, narrazioni non ufficiali e metodi progettuali sperimentali. Definito dall’approccio partecipativo e interdisciplinare, il lavoro di studio d-o-t-s spazia dalla scrittura e la curatela di mostre all’organizzazione di workshop pratici. Tra i loro progetti recenti: il libro Plant Fever. Towards a Phyto-centred Design (Stichting Kunstboek – Belgio, 2020); la mostra Design Without Designers (per Musée Collectif de Casablanca, Atelier de l’Observatoire – Marocco, 2019); la piattaforma di ricerca The Offbeats (online, 2016-2018). Attualmente lo studio sta preparando l’itineranza della propria esposizione Plant Fever  (per Museum für Gestaltung Zürich e Kunstgewerbemuseum Dresden) e sta lavorando a una mostra sul ruolo ambiguo delle serre come strumenti di produzione agricola e culturale (per loop – down the hills, across the land - Lussemburgo, 2022).

Vista dal Rifugio Bietti-Buzzi, Grigna - 2018_Photo © Olly CruiseQual è il vostro rapporto con le Alpi?

L: Sono stata introdotta alle Alpi tardi: avevo 26 anni. Non provenendo da una regione a ridosso dell’arco alpino, il mio rapporto con loro era fino ad allora limitato a un rapporto estetico grazie al Sublime, agli artisti romantici e alle loro vedute montane. Eppure, più che il paesaggio drammatico e grandioso delle Alpi, ciò che mi affascina di più ora che le ho incontrate sono i dettagli minuscoli e spesso invisibili: il muschio, i licheni, gli eleganti fiori di Epilobium angustifolium e gli animali che le popolano.

O: Le ho sempre percepite come uno spartiacque geografico ed emotivo. Sono italo-francese e in orizzontale segnano quindi il confine tra il mio paese di nascita e crescita, l’Italia, e la mia seconda patria, la Francia. Da bambino, di qua dalle Alpi c’erano la scuola, il gelato e gli amici; oltralpe c’erano le avventure estive con mio cugino, il paté e il mare (i nonni stavano sulla costa francese). In verticale sono la porta d’accesso a un mondo lontano dalla monotonia e rigidità della vita urbana, regolato da ritmi inusuali e imprevedibili. Le ho frequentate fin da piccolo, arrivando da Milano e quindi forse come outsider/turista, e hanno sempre esercitato su di me un’attrazione particolare: da bimbo molto agitato e curioso sapevano – e sanno tuttora – tranquillizzarmi e meravigliarmi. Credo di poter definire il mio rapporto con loro – e va detto che per me le Alpi cominciano sulle mulattiere del Lago di Como! – come quello di un voyeur/esploratore: mi piace studiarle e immaginarle sulle carte e poi viverle e sudarle sui sentieri.

Vendesi appartamenti, Champoluc - 2015_Photo © Laura DrouetPotete raccontare una storia, un ricordo personale, una parabola, un aneddoto legato alle Alpi?

L: Un passaggio particolarmente inaccessibile, per i miei standard, sul versante inospitale di un valico poco distante dal Col de Nana, in Valle d’Aosta. Mi paralizzo a metà: il paesaggio lunare e il vuoto infinito alla mia destra – non un solo albero sotto per trattenermi nell’eventualità di una caduta! – mi impediscono di mettere un piede davanti all’altro e di proseguire sul sentiero che abbiamo intrapreso. Ci vorrà tutta la pazienza e la calma di Olivier per convincermi a non guardare giù e a continuare. Come ricompensa, nella valle sottostante scopriamo una foresta piena di mirtilli di cui facciamo ampie scorte.

O: Tra tutti, due momenti. Il primo: la mia personale “conquista” della vetta del monte Cevedale – la cima più alta ch’io abbia mai raggiunto a piedi (3.769 m s.l.m.): avevo 14 anni e la salita faceva parte di una delle settimane estive organizzate dalla sezione giovanile del Club Alpino Italiano al quale sono stato iscritto per parecchi anni e dove ho costruito amicizie fondamentali. Ricordo la sveglia alle 3-4 del mattino, la colazione spartana, la cordata per giungere in cima e la meraviglia della vista da lassù. Il secondo: un weekend passato con due amici sulla Grigna Meridionale, facendo tesoro della poca acqua a disposizione, cucinando su un fuoco improvvisato e dormendo nel mitico Bivacco Ferrario -–una sorta di capsula spaziale d’altri tempi posata sulla cima di questa piccola, ma aspra montagna – da cui si gode un panorama a 360° sulle Alpi, il Lago di Como e la Pianura Padana.

Sill from video_Cables-way - Champoluc, 2015 (film x Italy in a Frame contest)_Image © studio d-o-t-sCosa vi hanno insegnato le Alpi?

L: Ad andare avanti (con calma). 

O: Pazienza, attenzione e umiltà. E che noi umani siamo piccoli piccoli, ma che i danni che provochiamo possono essere grandi.

Cosa ci insegnano le Alpi?

L: Che c’è tutto un mondo oltre la nostra realtà umana e che, per vederlo, bisogna semplicemente essere attente/i.

O: Che alla fine di ogni salita difficile c’è sempre una grande ricompensa: dal nuovo punto di vista che hai conquistato sul paesaggio e sul mondo, al meritato piatto di polenta fumante.

No room for false steps, Champoluc - 2018_1_Photo © Olly CruiseNel 2020 avete iniziato una ricerca sul mondo rurale che vi sta portando a studiare e frequentare tutta una serie di pratiche e avventure progettuali che tramite il design tentano di stabilire nuove relazioni con il paesaggio. Come é nata questa ricerca e quale é il suo obiettivo?

Quella per l’ambito rurale è una passione comune e uno dei fil rouge delle nostre ricerche da che ci conosciamo. Ci siamo incontrati nel 2013 nel mezzo della campagna francese, presso il Domaine de Boisbuchet, un centro culturale dove si mescolano paesaggio contadino, vita comunitaria e sperimentazione progettuale low-tech. Vi abbiamo vissuto e lavorato due anni, sviluppando una grande curiosità per tutte quelle persone e iniziative – culturali, imprenditoriali, o anche semplicemente di vita alternativa – che scelgono il non-urbano come proprio campo d’azione.

A cavallo tra il 2014 e il 2015 siamo poi partiti per il Marocco dove abbiamo condotto una ricerca dal titolo Learning from the Desert. Nell’arco di sei mesi abbiamo lavorato in una fattoria didattica e incontrato e intervistato attivisti dell’organizzazione Terre & Humanisme e agricoltori, giornalisti ed educatori sensibili a temi quali la scarsità d’acqua, l’urbanizzazione incontrollata e le tecniche di coltivazione alternative.

Infine, tra il 2017 e il 2020, Laura ha sviluppato un ampio studio su quello che abbiamo chiamato phyto-centred design, raccogliendo progetti di designer e artisti internazionali (di più di 20 paesi) che – basandosi su recenti scoperte scientifiche e nuovi approcci filosofici – mettono in discussione il nostro rapporto con il mondo vegetale e più generalmente guardano al design da un punto di vista multispecifico e interspecifico. La mostra itinerante Plant Fever (prossima tappa: Museum für Gestaltung, Zurigo, 03.12.2021 → 03.04.2022) e il libro omonimo sono la sintesi di questa esplorazione.

La ricerca che abbiamo cominciato l’anno scorso è quindi figlia di queste esperienze passate e ne eredita le modalità d’investigazione eterogenee: dalla ricerca d’archivio all’indagine di stampo giornalistico, fino all’immersione lavorativa in prima persona. Intitolata Rural [re]Generation, vuole fare luce su alcune pratiche progettuali contemporanee che stanno ridefinendo la nostra relazione con il paesaggio non-urbano europeo: sia esso naturale, culturale, antropizzato, restaurato, o rinselvatichito. Nei prossimi due/tre anni analizzeremo situazioni diverse – che spaziano dalla campagna coltivata ai parchi naturali protetti – cercando di capire equilibri e squilibri delle dinamiche con cui noi umani diamo forma e destino a paesaggi ed ecosistemi. 

Lo faremo attraverso una quindicina di progetti – che stiamo ancora definendo – che usano il design come strumento d’investigazione/interazione. La ricerca non sarà limitata al contesto alpino, ma dovrebbe toccarlo con alcuni casi studio e si nutrirà anche di periodi di nostra residenza in ambito montano: a giugno e luglio di quest’anno, per esempio, faremo un’esperienza di Wwoofing in una fattoria nella regione del Col di Tenda, al confine tra Francia e Italia. Risultato della nostra indagine sarà una mostra itinerante che dovrebbe vedere la luce a fine 2023.

Plant Fever - Towards a Phyto-centred Design_A travelling exhibition by studio d-o-t-s (Laura Drouet, Olivier Lacrouts)_Photo © Tim Van de Velde, CID au Grand-Hornu_PFVR604_Low ResQuali sono i riferimenti artistici o teorici importanti in questa vostra ricerca?

Forse a causa del nostro percorso personale e professionale – che ci ha portati a confrontarci (e arricchirci) a più riprese con mentalità diverse dalla nostra – nei nostri progetti siamo sempre alla ricerca di prospettive plurali e interdisciplinari. Ci piace dare forma a narrazioni che incrociano le scoperte e le esperienze di specialisti di vari campi. Questo approccio – che nel quadro di Rural [re]Generation applicchiamo al paesaggio come spazio di incontro/tensione/riparazione – ci ha portati, per ora, verso le opere di antropologi e filosofi come Donna Haraway, Baptiste Morizot e Anna L. Tsing o scienziati come Robin Wall Kimmerer. Pensatrici e pensatori che ci invitano a reinventare il modo in cui ci relazioniamo con il mondo che ci circonda – in particolare con gli esseri non-umani – adottando metodologie investigative che mescolano ricerca sul campo e racconto.

Plant Fever_The Manifesto of Phyto-centred Design_Photo © Olly Cruise, studio d-o-t-s_IMG_3476 - Horizontal cut_Low ResDa alcuni anni state lavorando molto sul rapporto tra design e mondo vegetale. Nel 2020, nel contesto dell’esposizione Plant Fever al CID au Grand-Hornu, in Belgio, avete presentato The Manifesto of Phyto-centred Design. Potete sintetizzarne i punti principali?

L’abbiamo pensato come uno strumento per stimolare nuove riflessioni sul rapporto umani-piante e vuole anche essere un invito a sviluppare approcci progettuali che vadano al di là della mera mercificazione del mondo vegetale. Si compone di sette punti/azioni che incoraggiano designer, produttori e consumatori – soprattutto qui in Occidente dove siamo forse meno sensbili a questi temi – a considerare le piante non come oggetti inerti, ma come esseri sensibili; a mettere in discussione sistemi produttivi basati sulle monocolture; a riscoprire conoscenze pre-industriali; a interrogare la nozione di “specie invasive”; a consumare di meno e a non lasciare tracce (si veda questo pezzo scritto per The Planthunter). Per noi è diventato inoltre la base su cui strutturare le nostre riflessioni curatoriali future e anche il punto da cui partire quando organizziamo workshop pratici con giovani designer e artisti. Diciamo che è un modo per seminare i concetti sviluppati nell’ambito di Plant Fever in altri contesti.

Per chiudere con una formula, come designer o curatori di design, cosa pensate che le Alpi insegnino al design?

Tornando all’idea delle Alpi come spartiacque, è importante sottolineare che le zone di confine sono spesso anche zone di incomprensione e conflitto. E dove c’è conflitto, c’è bisogno di dialogo e di progetto.

In quanto area di mediazione tra Stati, stili di vita, paesaggi, specie, funzioni, linguaggi e immaginari, l’arco alpino pone molteplici domande a cui trovare risposte: siano esse di carattere sociale, poetico, burocratico, geopolitico, turistico, infrastrutturale o ambientale… Dal punto di vista progettuale, le Alpi offrono quindi senz’altro un terreno fertile per nuove narrazioni e ipotesi che rispondano al contempo a specificità regionali e a interrogazioni attuali su scala globale.

Pensiamo, per esempio, alle azioni dell’agricoltore e attivista francese Cédric Herrou a sostegno dei migranti che attraversano a piedi il confine Italia-Francia (si veda l’articolo del New York Times); al progetto di mappatura Italian Limes – Moving Borders dell’italiano Studio Folder che mette in luce la variabilità di frontiere nazionali che crediamo immutabili; o alle ricerche sui lupi del filosofo francese Baptiste Morizot che ci invitano a riflettere sul nostro rapporto con altri animali (si veda il suo libro Sulla pista animale, Edizioni nottetempo): tre casi molto diversi, ma accomunati dalla medesima intenzione di costruire ponti e di stabilire nuove relazioni con l’altro.

La necessità di rinunciare all’autoreferenzialità – progettuale, nazionale e umana – in favore di approcci olistici basati su principi di convivenza e condivisione con modi di pensare e specie diversi dalla nostra: forse è questo che le Alpi possono insegnare al design. 

studiodots.eu

dav

Graphic design Studio Babai

Photo credits:
Vista dal Rifugio Bietti-Buzzi, Grigna – 2018_Photo © Olly Cruise
Vendesi appartamenti, Champoluc – 2015_Photo © Laura Drouet
Sill from video_Cables-way – Champoluc, 2015 (film x Italy in a Frame contest)_Image © studio d-o-t-s
No room for false steps, Champoluc – 2018_1_Photo © Olly Cruise
Plant Fever – Towards a Phyto-centred Design_A travelling exhibition by studio d-o-t-s (Laura Drouet, Olivier Lacrouts)_Photo © Tim Van de Velde, CID au Grand-Hornu
Plant Fever_The Manifesto of Phyto-centred Design_Photo © Olly Cruise, studio d-o-t-s
Where our world ends, Champoluc – 2018_2_Photo © Olly Cruise

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