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March 29, 2021

Cosa ci insegnano le Alpi 04. Design, arte, cultura: ecoLogicStudio

Emanuele Quinz
Il paesaggio delle Alpi è un ecosistema unico, un fragile e millenario equilibro tra natura e cultura. Cosa insegnano le Alpi – a chi le attraversa, a chi ci vive e lavora? Ma soprattutto, come influenza questo paesaggio, questo ecosistema, questa cultura il pensiero e la pratica degli artisti e dei designer?

Per il quarto episodio della nostra serie, incontriamo questa volta Claudia Pasquero e Marco Poletto, fondatori e direttori di ecoLogicStudio, un’agenzia di architettura e urbanistica basata a Londra e della società Photosynthetica, che unisce innovazione tecnologica e progettazione ecologica.

Architetto di formazione, Claudia Pasquero insegna Landscape Architecture e dirige l’Institute for Urban design all’Università di Innsbruck University. A Londra, dirige l’Urban Morphogenesis Lab alla Bartlett School of Architecture. Ha curato la Biennale di architettura di Tallin 2017. Marco Poletto, dopo un dottorato al RMIT di Melbourne, ha insegnato all’Architectural Association e alla Bartlett School of Architecture di Londraa, alla Cornell University e a Carnegie Mellon University, e all’Aarhus School of Architecture.Attualmente, é Visiting Lecturer all’Università Innsbruck and Senior Tutor all’IAAC di Barcellona. Insieme hanno diretto il libro Systemic Architecture – Operating manual for the self-organizing city (Routledge, 2012) e hanno esposto opere in musei di tutto il mondo. 

Qual è il vostro rapporto con le Alpi?

MP: Dobbiamo andare indietro nel tempo, alla nostra vita precedente, quella di Torino. Ovviamente essendo nati e cresciuti a Torino, l’arco alpino era per noi una presenza costante. L’orizzonte è definito dai monti punti di riferimento, il Monviso e la Val di Susa sono come dei land mark che tutti usano per orientarsi negli spostamenti. Per me personalmente i monti sono stati anche una valvola di sfogo: durante gli anni di studi al Politecnico, ho preso l’abitutine di liberare la mente, pedalando in montagna con la mountain bike. Quando ci siamo spostati a Londra sicuramente questo esercizio quasi quotidiano, e la presenza delle montagne nel paesaggio, sono le cose che mi mancano di più. 

CP: Marco viene dalla parte nord di Torino e quindi è molto vicino alle Alpi mentre io sono nata e cresciuta nella parte sud più vicina alle Langhe, le zone collinari di produzione del vino. Quindi, dal mio punto di vista, le Alpi erano più un background visivo presente ma distante, nel senso che io vivevo immersa nella città, ero punk. La relazione fisica con le Alpi è, in un certo senso, iniziata grazie a Marco. All’inizio non ero una persona sportiva ma con Marco ho scoperto la dimensione esplorativa e quasi ascetica dello sport. Ora quando iniziamo le nostre lunghissime camminate, non mi fermo più. E poi, un altro elemento che mi ha riconnesso con le Alpi è stata la cattedra che ho preso alla Facoltà di Architettura dell’Università di Innsbruck, quattro anni fa. Anche Marco collabora attualmente con l’università sia su progetti di ricerca che di insegnamento. Il tema su cui lavoriamo è precisamente la landscape architecture, e come si interfaccia con il territorio alpino – e uno degli elementi di partenza della nostra riflessione è il cambiamento climatico e lo scioglimento dei ghiacciai…

04_jonas_koblmueller_macro Faculty Dr Marco Poletto with Maria Kupstova Chair Prof Claudia PasqueroPotete raccontare una storia, un ricordo personale, una parabola, un aneddoto legato alle Alpi?

CP: L’unica esperienza sportiva della mia infanzia poco sportiva, si riconnette ai picnic di famiglia sulle montagne, e le scalate con mio padre. Sono sempre stata appassionata dalla relazione con la materialità del paesaggio, il contatto fisico, come, quando ti arrampichi a quattro zampe e metti le mani sulla roccia coperta di licheni. Ma c’è anche la dimensione meditativa, e soprattutto quella sperimentale della creazione di un metalinguaggio che ci connette in un modo innovativo con il territorio. 

MP: Per me la relazione con le montagne è sempre stata mediata dalla bicicletta e dagli sci in inverno. Mi piace andare dove non c’è nessuno. Allora, se devo scegliere un ricordo, è forse la sensazione che ho avuto, quando, in biciletta a un certo punto ho raggiunto quel livello di confidenza e allenamento per cui ero veramente libero di scavalcare montagne, continuare… questa sensazione di libertà che ti assale nel momento in cui scavalchi un passo, cambi valle, e non devi preoccuparti di tornare indietro ma vai, ne scavalchi un’altra e poi un’altra e poi eventualmente torni indietro, e allo stesso tempo sai che in ogni caso la montagna è sempre più grande di te… 

CP: C’è un elemento secondo me interessante delle Alpi: anche se vengono soprattutto associate al naturale, in realtà sono molto antropizzate. E sicuramente le tracce dei passaggi e degli insediamenti umani, le stratificazioni della storia delle popolazioni che hanno abitato e abitano queste zone, aggiungeva una suggestione in più alle mie esplorazioni giovanili delle montagne. E questa dimensione mi fa venire in mente un altro aneddoto. Spesso andiamo a camminare anche con i nostri figli. Il nostro figlio maschio è sempre  molto calmo e può camminare senza interruzione se gli parli e quindi io durante le escursioni, non smetto di  raccontargli le storie di mio nonno che era partigiano, ed era scappato sulle Alpi. Un giorno arriviamo su una cima, e c’è un piccolo bunker, e di nuovo mi lancio nel mio racconto. Ma mi interrompo perché vedo che mio figlio piange. Gli chiedo – “Che succede?” “C’è la guerra!” risponde – “Andiamo via! C’è la guerra!”. La montagna d’improvviso, nel riemergere di queste storie antiche ma non dimenticate, gli era apparse non solo come un fondale naturale ma come il fronte di una guerra ancora in corso. 

MP: Si può dire in effetti, che le Alpi presentano un paesaggio “sintetico” – nel senso che definiscono un’intersezione naturale e artificiale, una stratificazione tra ecosistemi naturali e tracce dell’umano. 


Cosa vi hanno insegnato le Alpi?

CP: Per me, la cosa più importante è questa relazione allo stesso tempo fisica e meditativa che camminare in certi tipi di paesaggipermette di raggiungere. Questa percezione permette poi di sviluppare una comprensione del paesaggio, che va al di là di ciò che si apprende tramite l’analisi di dati scientifici o l’apprendimento logico.

MP: Per quanto mi riguarda, penso che mi abbiano insegnato in un certo senso la capacità di arrivare ai limiti delle capacità fisiche ma anche mentali. Mantenere un equilibrio quando ti esponi a dei luoghi o delle situazioni estreme, permette di scoprire delle risorse personali che sono altrimenti impossibili da verificare, da materializzare.

Cosa ci insegnano le Alpi?

CP: C’è un’altra dimensione molto importante, relazionata alla storia, alla suddivisione politica dell’Italia, con i grandi feudi del sud, le piccole aristocrazie al centro e un nord con una tradizione illuminista, con una rete di piccole città e villaggi interconnessi, una trama relazionale. Quando ero bambina queste connessioni tra villaggi erano ancora visibili – nei posti tra cui mia nonna si spostava a piedi, in una relazione che era di coltivazione condivisa del territorio ma che si interseca ad una dimensione rituale ed estetica che definiva la vita degli individui e del cluster urbano. Questa dimensione relazionale si è persa, sostituita da un altro tipo di organizzazione dell’abitato. Molti di questi antichi cluster urbani interconnessi sono oggi delle rovine. Ma questa dimensione relazionale costituisce un esempio fondamentale per l’urbanistica odierna, che troppo spesso quando parla di produzione ne parla in modo scollegato sia da una dimensione estetica che sociale/politica. In sostanza questo tipo di interconnessione, che è tipica del contesto alpino, suggerisce una forma di conurbazione che va rivalutata.  

MP: Questo modello è alla base del concetto su cui lavoriamo, di synthetic landscape, che si attualizza nel mondo dell’era digitale, nell’era della computazione diffusa… 

2019-04-10_Spheres & Flowlines Matthis Vinatzer Drone Ecologies Supervisors Prof Claudia Pasquero with Maria KuptsovaCome definite il synthetic landscape

CPSynthetic landscape è l’idea di un paesaggio (landscape) che interfaccia i sistemi naturali/artificiali, senza soluzione di continuità. Si tratta di un sistema produttivo in cui biotecnologia, intelligenza artificiale e innovazione si integrano, ma non come una semplice convergenza di tecnologie separate dal contesto architettonico urbano, ma come un tutt’uno interconnesso. 

EQ: L’idea è di pensare l’ambiente come una sintesi di naturale e artificiale?  

CP: Esatto. Non è più possibile distinguere ciò che è naturale da ciò che é artificiale. Ma non perché lo proponiamo noi ma perché, se osserviamo il case study delle Alpi, è già così: non puoi distinguere esattamente quali tracce siano naturali e spontanee e quali altri sono state create a causa di guerre, migrazioni e altri movimenti umani.

Come nasce Synthetic crystallisationAlpine glaciers as Architectures of Change – allo stesso tempo corso e progetto di ricerca che state sviluppando all’Università di Innsbruck ? 

MP: Il progetto implementa la visione del synthetic lanscape nel contesto dei ghiacciai. L’idea di lavorare sui ghiacciai è nata dal tentativo di contestualizzare gli studi sulle Alpi nell’ambito più globale della crisi ecologica. In questo caso, la nozione di sintesi si estende alla scala globale di quella che noi chiamiamo la urban sphere, la biosfera che a causa di quelle che sono state le trasformazioni dell’antropocene, imposte dall’impatto dell’azione umana sul pianeta, diventa di fatto urbana - diventa cioè un sistema ormai definitivamente alterato dai flussi e dalle infrastrutture che supportano la nostra società attuale, che è una società fondamentalmente urbanizzata, anche quando si estende al di là della città in senso proprio. I terminali del sistema città sono ovunque ormai. In questo contesto, i ghiacciai costituiscono dei riferimenti simbolici: da un lato c’è il processo oggi davanti agli occhi di tutti, dello scioglimento progressivo, che implica una trasformazione molto rapida dell’ecosistema, e questo processo é un simbolo dell’effetto del cambiamento climatico; dall’altro lato, ci sembrava importante sovvertire l’immagine delle Alpi, con i ghiacciai eterni, come idea di un paesaggio incontaminato, esclusivamente naturale. Volevamo mostrare che l’idea della natura come la definiamo tradizionalmente non esiste più, e forse non è mai esistita. Ci sembra che ci sia la necessità di redefinire il paesaggio nella sua complessità, e come designer, anche dal punto di vista del design. Synthetic crystallisation nasce quindi come un caso di studio per cercare di ridefinire il paesaggio dei ghiacciai, utilizzando gli strumenti forniti dalle tecnologie digitali, dal monitoraggio satellitare agli algoritmi. Inizialmente abbiamo creato delle rappresentazioni dei ghiacciai e dei processi di scioglimento e di trasformazione, che creassero un’immagine completamente diversa, più astratta e digitale, come delle stratificazioni di dati. Successivamente con questi accumulo di milioni di righe algoritmiche abbiamo tentato di creare una nuova materialità, di creare un nuovo senso della materialità in cui il design non è pura visualizzazione o analisi, ma acquisisce una dimensione ulteriore, progettuale. 

CP: Il progetto, che stiamo sviluppando all’Università di Innsbruck, è strutturato su vari livelli: ad un primo livello abbiamo iniziato a lavorare sul sistema di mappatura ma anche su un processo di cristallizzazione partendo dall’idea che, appunto, il cambiamento non si può fermare, il cambiamento è sempre in corso. Ma è importante cercare di capire da un lato come questo cambiamento avviene, e dall’altra come la cristallizzazione, ovvero la formazione dei ghiacci, possa essere manipolata tramite tecniche che permettono di controllare o influenzare direttamente la formazione di cristalli.

Quindi abbiamo proposto queste architetture di cristallizazione sintetica che favoriscono la cristallizzazione negli ecosistemi vicino al ghiacciaio.

Ad un secondo livello abbiamo iniziato a lavorare sull’influenza che il ghiacciaio ha anche a scala territoriale sul resto del contesto ambientale, per esempio su dei territori che franano e colpiscono villaggi che poi sono abbandonati. Per esempio stiamo riflettendo su come il mycelium, le radici profonde, sotterranee dei funghi,  si insediano in un territorio quando è abbandonato dall’uomo. I miceli possono essere utilizzati come consolidamento del terreno e la creazione di nuovi spazi abitabili ma possono anche interfacciarsi ad alcuni di questi villaggi abbandonati proponendo una riqualificazione in cui in questi ambienti umidi possano essere create delle mushroom farm, ricostruendo nella parte alta degli edifici dei micro-sistemi abitativi. Abbiamo anche iniziato a lavorare con la coltivazione in altura delle micro alghe della specie Nivalis, che crescono autoctone nei pressi dei ghiacciai quando iniziano a sciogliersi. Sono estremamente pregiate per il loro valore proteico e per i tipi di minerali che contengono, utili all’industria farmaceutica. 

L’idea è quindi di riscoprire e rifondare l’ecosistema antropizzato in questo territorio ma da una prospettiva non antropocentrica. 

MP: Non solo, ma questo ecosistema tende ad avere delle proprietà molto interessanti proprio per le condizioni estreme all’interno del quale gli organismi che lo abitano si sviluppano. Queste proprietà possono essere studiate e diventare modelli utili anche per altri organismi, per la vita sulle montagne, ma anche altrove. Se guardiamo la natura da questa prospettiva nuova, si aprono tutta una serie di opportunità. L’esempio dell’ecosistema unico delle Alpi può anche condurci non solo alla definizione di nuovi modi di interfacciare tecnologia e sviluppo naturale, ma anche alla creazione di nuovi sistemi economici e di sostentamento. In sostanza, si offre a noi la possibilità di ri-metabolizzare dei sistemi che sono spariti, o sono in fase di abbandono.

Johannes Luksch_Rhone Glacier_MicroscaleFaculty Dr Marco Poletto with Maria Kupstova Chair Prof Claudia PasqueroVolevo porvi un’ultima domanda, alla quale in realtà avete già un po’ risposto – come designer cosa vi hanno insegnato le Alpi? 

CP: Nel contesto del design e specialmente nel contesto del design urbano e computazionale nel quale lavoriamo, si parla molto di big data, di flussi di dati. Un synthetic landscape come quello, unico e meraviglioso delle Alpi, insegna che i dati in realtà sono già innervati nella materialità e nel territorio. I ghiacciai sono degli enormi archivi viventi di dati, quando si sciolgono producono formazioni di micro-organismi che forniscono informazioni preziose sulla trasformazione del territorio ma al tempo stesso posso costiture dei micro landscapes, dei biosensori per un inedito design dell’ambiente. 

In breve, quello che ci possono insegnare è che non ci sono semplicemente dati digitali, ma ci sono sistemi computazionali materiali coi quali l’architettura può e deve lavorare in modo più ecologico e trasversale di quello che sta facendo con i dati che ci arrivano dai satelliti e dalle reti informatiche. Un’architettura creata dall’uomo, per la popolazione umana e non-umana e pianificata da una forma di intelligenza che possiamo definire an-umana.

 

Siti : 

http://www.ecologicstudio.com/v2/index.php
https://www.photosynthetica.co.uk
https://urbanmorphogenesislab.com
http://www.ioud.org

 

Visual Design: Studio Babai  

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