Culture + Arts > Literature

March 12, 2021

Tiziana Lo Porto: l’ingenuità emotiva della traduzione

Allegra Baggio Corradi

Dentro la cassetta delle lettere, per le strade di Roma alla ricerca di un posteggio, sulle colonne de La Repubblica, al New Museum di New York, a un concerto di Patti Smith, nella testa di Bukowski, in Alabama con Zelda bambina, nel telefono di James Franco, nel soggiorno di Jim Carroll: Tiziana Lo Porto gode del dono dell’ubiquità. Traduttrice e scrittrice, non potrebbe essere altrimenti poiché non solo trasla, ma vive nella testa degli altri tanto quanto nella sua. Con la materia viva del linguaggio, Tiziana intrattiene un rapporto fisico. L’ingenuità emotiva della prima lettura è la sua traduzione di senso e dissenso. Gli autori per lei sono come costellazioni, lontani nello spazio, ma raggiungibili nel tempo. Bolzanina di nascita e cresciuta tra Algeri, Palermo e Roma, Tiziana è un animale pop-punk approdata alla poesia tramite la musica. Ascoltiamola.

Ciao Tiziana, dato che vivi dentro la testa degli altri come traduttrice, ci fai entrare nella tua? La prima volta che ti ho letta è stata qualche settimana fa, quando ho ricevuto la lettera che hai scritto alla città di New York per il progetto APRI. Ci porti alla scoperta della tua grande mela? 

La prima volta che ho dormito da te è stato in una stanza del Chelsea Hotel. Una stanza troppo grande per due persone. Aveva le pareti viola e gli specchi con grandi cornici dorate. Una notte c’è stata una fuga di gas ma non è morto nessuno. Poi sono andata a spasso e per i musei. Ho camminato per tre giorni, mi sono innamorata di te e poi ti ho lasciata. Ma non per sempre, non ti lascio mai per sempre. Vado via e poi ritorno.”

Il progetto APRI è un’iniziativa di racconti per corrispondenza inaugurata ormai quasi un anno fa da Marzia Grillo e Lorenzo Ghetti. Ogni mese gli abbonati ricevono una busta con un racconto epistolare scritto da un autore o un’autrice diversi, corredato da materiale accessorio che trasporta la narrazione oltre la parola tramite biglietti, scarabocchi, cartoline, foglietti e simili.

Le città sono come delle persone, quindi, quando sono stata invitata a partecipare al progetto non ho avuto alcun dubbio nello scegliere di scrivere una lettera a New York. Ho recuperato polaroid, adesivi, taccuini e oggetti raccolti durante i miei soggiorni passati, fantasticando sui posti che avevo visitato e le persone che avevo incontrato. 

Come già ai tempi di Pavese, la letteratura americana non ha nulla a che fare con l’American dream. Gli Stati Uniti sono per me, come per altri, meta di pellegrinaggi che mi permettono di visitare i luoghi descritti nei libri, nei film, nella musica. Andarci è pellegrinaggio e verifica. Fare un viaggio fisico a New York è vedere di persona dove Woody Allen ha girato Manhattan, per esempio. 

Sono stata per la prima volta negli Stati Uniti quando avevo già 30 anni e per me è stata davvero la scoperta dell’America. Ero a New York per tre giorni con un amico, che mi ha subito portata al bar del Four Seasons, in omaggio ad American Psycho, e ho ordinato il cocktail preferito di Scott e Zelda Fitzgerald, il “Gin Ricky”. Il cameriere mi ha guardata incredulo dicendo che era dal 1935 che nessuno lo ordinava. Dopo quei tre giorni, a New York ho continuato a tornarci a intervalli regolari, per starci due, tre, sei mesi, spero almeno un anno appena si potrà tornare a viaggiare. Mi sento più a casa lì che altrove.

b0d3d09a-a6bb-43e5-9b7a-ac5232534c8dQuindi tutti i biglietti all’interno della busta di APRI sono effettivamente dei ricordi di viaggio?

Sono biglietti di spettacoli o mostre viste durante i miei viaggi a New York, sì. Ad esempio, c’è il biglietto della mostra “NYC 1993: Experimental Jet Set, Trash and No Star” curata da Massimiliano Gioni e che ho visto nel 2013 al New Museum - il titolo riprende l’omonimo album dei Sonic Youth. Quella mostra mi ha fatto rivivere la mia educazione sentimentale, vedendola ho capito che quello che prima era solo un bene di consumo che apparteneva alla cultura punk può essere legittimato in maniera totalmente diversa nel suo passaggio dalla strada al museo. 

Raccontaci di più del punk…

Il punk non l’ho vissuto personalmente, ci sono arrivata più attraverso la musica di Richard Hell o di Patti Smith che hanno sdoganato letteratura a pubblici insospettabili, citando Rimbaud, Blake, Baudelaire, Garcia Llorca. Non ho una formazione letteraria classica, e ho scoperto certi autori e certi romanzi grazie alla musica. Ai romanzi di Graham Greene ci sono arrivata grazie al punk inglese. Bertold Brecht e Robert Graves li ho letti la prima volta solo perché li leggeva Bob Dylan. Oggi può essere difficile capire meccanismi del genere perché internet dà accesso a ogni cosa, ma negli anni ottanta e nei novanta scoprire cose nuove era più complicato, richiedeva più passaggi.

La traduzione: come, quando, dove?

Le poesie di Charles Bukowski sono state la mia prima traduzione. Poi sono arrivati Joseph Conrad, Jacques Derrida, Tom Wolfe, James Franco, Jim Carroll e Patti Smith, che amo come scrittrice oltre che come musicista. Quando ho sentito che avrebbe cambiato casa editrice italiana mi sono subito proposta al nuovo editore, Bompiani, e hanno accettato. L’avevo intervistata sei mesi prima e senza sapere che l’avrei tradotta abbiamo parlato di tutto quello che poi traducendo ho trovato nel libro, dai romanzi di Roberto Bolano a “The Killing” la serie tv. Come dice George Harrison: quello che l’Occidente si ostina a chiamare coincidenze, di fatto è solo vita.

Ho iniziato a tradurre grazie a Martina Testa e Marco Cassini di Minimum fax, e a Marta Bertolini, che all’epoca era il loro ufficio stampa. Sapevano che amavo le poesie di Bukowski e mi hanno proposto di fare una prova di traduzione. Non mi era mai venuto in mente che nella vita avrei potuto tradurre, ma traducendo Bukowski ho subito capito che la mia mente matematica, a volte anche rigida, si addice ai meccanismi del processo. Quando leggo un vocabolo penso subito a tutti i sinonimi. Nella traduzione è utile perché evitando le scorciatoie evito anche che il testo diventi mio, faccio in modo che rimanga dell’autore. Per me tradurre significa passare alcune ore al giorno nella testa di qualcun altro, e prendermi una tregua da me stessa. Durante le quarantene passate continuare a tradurre è stata la mia salvezza perché stare dentro la testa di un’altra persona mi ha protetto dalle mie ossessioni. 

Tradurre è anche traslare l’ingenuità emotiva della prima lettura di un testo. Quando approccio un nuovo testo, non leggo mai prima tutto il libro per poi tornare indietro a tradurre, ma leggo mentre traduco. All’inizio lo facevo istintivamente, o forse per non annoiarmi, con il tempo ho capito che così non rischiavo di perdere la suspense, la tensione, la meraviglia o qualsiasi altro sentimento si prova leggendo un testo per la prima volta. Kerouac sosteneva che scrivendo lo scrittore cerca di intrappolare nella pagina l’emozione che prova in quel momento per fare in modo che la provi il lettore. Traducendo cerco di mantenere intatta quell’emozione. 

0502612a-71b8-49a8-8034-238e4b9b5335

C’è una differenza tra il tradurre un autore morto e uno vivo quando si ha la possibilità di incontrarlo?

La vera differenza è se l’autore sa o meno l’italiano. Quando non sa l’italiano, ovvero quasi sempre, puoi chiedergli di chiarire qualcosa se non sei certo di avere capito, ma sei sempre tu a scegliere la migliore delle possibilità infinite che hai davanti traducendo, a decidere il termine migliore, quello che in italiano suona meglio, o restituisce meglio il senso. Sei tu in controllo della traduzione. 

E anche se un autore è morto puoi empatizzare comunque. Mi viene in mente Patti Smith, che ha sempre trattato allo stesso modo autori del passato e autori contemporanei, artisti o poeti morti prima che nascesse o suoi amici musicisti con cui suona regolarmente. Quando la senti parlare di Garcia Lorca, o di Rimbaud, è come se parlasse di persone che ha conosciuto veramente, con cui è andata a cena il giorno prima, e questo perché sa che la poesia, la musica, l’arte, è tutta materia viva. Per lei Garcia Lorca o Robert Mapplethorpe sono come stelle di costellazioni irraggiungibili perché sono morti, ma perfettamente reali perché esistono e quindi consentono di stabilire delle relazioni reali. I miei pellegrinaggi in America, li faccio seguendo proprio questa stessa logica della materia viva e incandescente. 

Capita anche che parlare con l’autore diventa necessario. Quando ho iniziato a tradurre James Franco a un certo punto l’ho chiamato al telefono per capire come risolvere la questione del ‘tu’ e del ‘lei’ tra due personaggi di un suo racconto. Il “lei” semplicemente non esiste in inglese, e stava a lui decidere il momento esatto in cui i due personaggi sarebbero passati dal lei formale al tu confidenziale. Tradurre è un atto fisico perché ci si cala nei panni dell’altro, autore o personaggio che sia, cercando di capirlo. In quanto attore Franco credo capisca perfettamente la dimensione fisica inerente alla traduzione. Ora siamo amici e continuiamo a sentirci per consigliarci libri. Ultimamente abbiamo letto per caso lo stesso libro, un bellissimo true crime americano che si chiama We Keep the Dead Close, l’autrice è Becky Cooper (tra le altre cose amerei tradurla, ha anche scritto un meraviglioso libro su New York pieno di mappe e disegni), e ci siamo ritrovati a scriverci per consigliarcelo contemporaneamente, ignorando che stavamo leggendo la stessa cosa. Quando con l’autore che traduci succede una cosa del genere, capisci che George Harrison ha ragione a dire che le coincidenze semplicemente non esistono.

Oltre che traduttrice, sei anche autrice. Ci parli di “Superzelda”, la graphic novel che hai dedicato a Zelda Fitzgerald?

Il progetto è nato da una rubrica di recensioni a fumetti che tenevo su D della Repubblica insieme a Daniele Marotta, fumettista bravissimo e anche mio cugino (mia madre e sua madre sono sorelle, e noi abbiamo più o meno la stessa età). Io scrivevo i testi e lui faceva i disegni. E uno dei libri che abbiamo recensito era una biografia romanzata di Zelda, “Alabama Song”. Avevo letto tutto Fitzgerald, ma non mi ero mai resa conto di come Zelda fosse in tutti i suoi romanzi, e in generale sapevo pochissimo di lei. Così mi sono messa a studiare e mi sono confrontata con due versioni della storia: la prima era quella di Hemingway il quale sosteneva che Zelda fosse una palla al piede per Scott che le aveva impedito di diventare un grande scrittore, e la seconda era quella femminista secondo cui Zelda era stata plagiata dal marito Scott che le aveva impedito di diventare una grande scrittrice. Entrambe le versioni mi parevano lontane dalla realtà, così ho continuato a indagare. L’idea che mi sono fatta è che Zelda abbia sposato Scott proprio perché era in grado di raccontarla, di trasformarla in un’eroina da romanzo (dopo averlo rifiutato, si è decisa a sposarlo dopo che lui nel primo romanzo ha creato un’eroina a sua immagine e somiglianza). 

L’unico libro che Zelda ha scritto e pubblicato si chiama “Lasciami l’ultimo valzer” e lo ha scritto in pochi mesi durante il suo primo ricovero psichiatrico, più per noia che per altro. Nella prima stesura aveva anche plagiato Scott, riscrivendo “Tenera è la notte” che aveva letto in bozza prima del ricovero e che non era ancora stato pubblicato, per poi spedirlo all’editore di Scott senza farne parola al marito. Probabilmente, nella monotonia della vita in clinica, voleva azzuffarsi con Scott e animare la faccenda. E di fatto è andata così: hanno litigato, hanno fatto pace, hanno editato insieme il romanzo, e il risultato è questo “Lasciami l’ultimo valzer” di Zelda che racconta sempre e comunque la sua storia pur essendo diversissimo da “Tenera è la notte”, ed è una meraviglia di romanzo. Nella graphic novel Superzelda abbiamo voluto rendere giustizia a entrambe le loro figure, celebrando il loro modo di amarsi e la loro capacità di mettere la loro opera prima di qualsiasi altra cosa.97032d78-98db-4b03-9974-15944b89f3c4

Per concludere, toto testo. Il libro che incarna gli anni Novanta?

“Fight Club” di Chuck Palahniuk.

Il romanzo che in realtà è una poesia?

“Bohémien minori” di Eimear McBride, considerata la nuova Joyce, complicatissima da tradurre, ogni giorno, prima di mettermi davanti al computer a tradurre, leggevo ad alta voce trenta pagine di Emily Dickinson. Cercavo il suono, alla fine l’ho trovato.

Il libro punk?

“Jim entra nel campo di basket” di Jim Carrol.

Il libro per chi si deve ricredere sull’importanza del dialetto? 

“Ragazzi di vita” di Pasolini.

Il libro che avresti voluto scrivere tu?

“Don Chisciotte” di Cervantes. 

 

Immagini  @ Tiziana Lo Porto

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.

Related Articles