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February 23, 2021

Nitzan Cohen: il design tra frizione e finzione

Allegra Baggio Corradi

Nitzan Cohen è preside della Facoltà di Design e Arti dell’Università di Bolzano. Partito dal suono e passato per la scenografia, è approdato al design con il desiderio di progettare prodotti capaci di fornire risposte concrete a domande poste troppo poco spesso. Presso il “Design F(r)iction Lab” dell’Università di Bolzano, Nitzan alimenta lo sviluppo di progetti innovativi che ridefiniscano il rapporto produttore-consumatore e stimolino riflessioni critiche nei confronti del binomio cultura-industria tramite l’implementazione di materiali e tecnologie sostenibili. Tra frizione e finzione.

Ciao Nitzan, partiamo dall’inizio. Come sei giunto al design?

Diciamo che il design non l’ho scelto, ma l’ho scoperto. Se dicessi al Nitzan diciottenne che il design sarebbe stata la sua professione, non credo ci avrebbe creduto. Sono nato e cresciuto in un contesto agricolo, dove il design era quanto di più distante vi fosse. Il mio sogno era di fare musica, perciò, per anni ho suonato ai festival. Dopodiché sono diventato tecnico del suono per la televisione lavorando dietro le quinte, anche a teatro. Ho scoperto un interesse per la scenografia ed è così che ho iniziato ad avvicinarmi al design. All’inizio era un’attività occasionale, ma poi mi sono appassionato davvero. Il mio percorso è iniziato quando mi sono trasferito nei Paesi Bassi dove ho studiato design per cinque anni. 

Dato che hai vissuto in molti paesi diversi, dove collochi la tua ‘Heimat’?

Avendo vissuto lontano dalla mia terra natale per molti anni trovo difficile sentirmi a casa in Israele. Certo, parlo la lingua e conosco la cultura del luogo, ma non credo che la mia identità appartenga più a quel paese. In Israele tutto è sempre polarizzato: gli estremismi e la politica non lasciano molto spazio alla speranza. Per questo ho perfino smesso di ascoltare le notizie che mi rattristano troppo. Oltre ad Israele ho vissuto nei Paesi Bassi e a lungo in Germania, ma nemmeno quella è la mia Heimat. Ora abito a Bolzano da sei anni. A dispetto di tutto, per ora, questa è la mia Heim e il mio zuhause, due condizioni che insieme costituiscono la mia versione di Heimat.

Trials and tryouts-1

In che modo affronti il tuo lavoro nel campo del design? Ti affidi all’intuito oppure alla logica? 

Mi piacerebbe rispondere ‘intuito’, ma la verità è che mi affido prima di tutto alla logica. La magia viscerale dell’intuito è davvero incredibile e porta a risultati che sono geniali, ma il mio metodo di lavoro è piuttosto meticoloso e alle volte complesso e multidimensionale. Tendo a partire da basi logiche e fare fluire l’intuito in una fase più progredita del processo creativo. Questo, però, l’ho imparato con il tempo.

Ormai sei attivo nel design da più di vent’anni. Come fai a trovare tutt’ora delle soluzioni intelligenti per oggetti che possono sembrare ovvi o reinventati già tantissime volte, come le penne o gli appendiabiti?

Grazie per la domanda. Per rispondere parto da una considerazione, ovvero che, a mio parere, il compito del design va oltre il bello. Ovviamente siamo tutti attratti dalle cose esteticamente piacevoli, ma l’aspetto di un oggetto è soltanto una delle sue funzioni. Quindi, la chiave per trovare una soluzione intelligente per un oggetto che può sembrare ovvio è chiedersi quale sia il punto di quello stesso oggetto. È una questione di logica, per tornare alla domanda precedente. Cosa è un appendiabiti? Come lo usiamo? Quanto spesso lo acquistiamo? Dove lo riponiamo? Dove siamo portati solitamente ad appendere? Tendiamo a fare un uso improprio degli appendiabiti? 

Porsi molte domande all’inizio di un processo creativo è fondamentale per dipingere un quadro completo del problema che stiamo affrontando. Dobbiamo fare finta di entrare in contatto con l’oggetto per la prima volta nel tentativo di renderci meno ciechi a causa della nostra sovraesposizione al mondo. Osservare gli altri e le loro abitudini è una parte importante della ricerca perché consente di integrare le risposte alle domande poste all’inizio con l’esperienza pratica della futura vita dell’oggetto nel mondo. Una volta che l’oggetto non ci appartiene più, svolge funzioni completamente diverse da quelle che avevamo progettato per esso. Perciò, osservare gli altri che ne fanno uso ci insegna moltissime cose e rende i nostri progetti futuribili.

L’oggetto, quindi, è per te un punto di partenza oppure di arrivo? 

La mia risposta da designer è che l’oggetto è un punto di arrivo. La mia risposta da ricercatore nel design è che l’oggetto è un punto di partenza. Questo perché ogni oggetto racchiude in sé in potenza tutta la categoria degli oggetti alla quale appartiene e la sua presenza nel mondo dà il la ad una concatenazione di rapporti mediati dal suo utilizzo. In questo senso, l’oggetto è il ricettacolo di un processo di stratificazione relazionale, il deposito della patina mentale che a mano a mano si va depositando su di esso.

Non tutti i progetti vedono la luce. Tu conservi oppure utilizzi in qualche modo quelli ‘falliti’ o rifiutati? 

Grazie di nuovo per la domanda. Sono legato ai progetti falliti, ma non in senso melancolico. Ovviamente sono fonte di frustrazione perché sono delle potenzialità piuttosto che dei lavori che vivono autonomamente nel mondo. Tuttavia, proprio perché non realizzati, richiedono uno sforzo supplementare, non solo per trovare nuove soluzioni all’irrisolto, ma anche per imparare da essi mantenendosi concentrati e con la mente affilata perché alle prese con la risoluzione di un problema ancora irrisolto. Perciò, non esistono veramente dei progetti ‘falliti’, ma solo delle idee e delle ricerche che necessitano ancora di essere sviluppate.

SSP_Speculative model_self sustaining heater

Ci puoi parlare del tuo lavoro presso l’Università di Bolzano dove sei preside della Facoltà di Design e Arti?

Quando sono arrivato a Bolzano provenivo da una lunga esperienza in Germania, dove i professori, al contrario di quanto accade in Italia, sono incoraggiati ad avere uno studio proprio al di fuori dell’ateneo. Nel rispetto delle leggi locali, trasferendomi in Alto Adige ho dovuto chiudere il mio studio, integrandolo localmente all’interno del contesto universitario. È così che è nato “Design Friction Lab” presso l’Università di Bolzano nel quale sviluppiamo progetti che riflettono su questioni tutt’altro che utopiche o possibili. All’interno di questo contesto concettuale non creiamo finzioni, ma proposte concrete che rispondono a necessità reali dell’oggi, stimolate dalla necessità stringente di escogitare soluzioni sostenibili. Alcuni dei nostri progetti vengono commercializzati, mentre altri rimangono degli esperimenti, delle sfide che lanciamo al mercato o a dei settori particolari dell’industria. Lo facciamo per creare delle frizioni, ovvero, per scuotere e alimentare il dibattito critico intorno a problemi reali del presente, per mostrare che ci sono più modi di fare le cose, per formare i designer di domani, ma anche per fare capire alle persone che nel design non lavorano, l’importanza di essere consapevoli di ciò che ci sta intorno e del quale facciamo un uso quotidiano.  

Nel concreto, ci puoi parlare di alcuni progetti attualmente in corso presso il “Design Friction Lab”?

Certo, ci sono tre progetti dei quali mi sto occupando al momento. Il primo è Innocell, una ricerca multidisciplinare della Facoltà di Design e Arti e della Facoltà di Scienze e Tecnologie dell’Università di Bolzano. La collaborazione ha lo scopo di trovare nuove soluzioni per la trasformazione dei rifiuti organici prodotti in Alto Adige in sostanze biodegradabili, in particolare, in una bevanda fermentata e in strati di cellulosa da impiegarsi per la realizzazione di alternative edibili – per esempio integratori alimentari – oppure non edibili che rimpiazzino i corrispettivi ad oggi disponibili sul mercato – ad esempio confezioni di plastica o carta provenienti da fonti rinnovabili. Il progetto adotta un approccio ‘glocal’, ovvero che pone in dialogo il microcosmo locale e il macrocosmo globale attraverso sperimentazioni sinergiche che consentano al grande di imparare dal piccolo e viceversa.

DIY_Bluetooth loudspeaker

Il secondo progetto è DIYR. Il focus della ricerca in questo caso è la ridefinizione del fai da te (DIY). Il nome dell’iniziativa indica proprio questo, DIY con l’aggiunta di una ‘erre’ alla fine che sta per ‘rifare’, ‘reinventare’, ‘ridefinire’. Il movimento del fai da te, con le sue mansioni domenicali di ristrutturazione e i piccoli lavoretti gode al momento di un rinnovato interesse da parte di pubblici diversi, ma un’interpretazione moderna del fenomeno è ancora da delinearsi. Non essendo mai diventato veramente design, ci sono delle grandi potenzialità ancora inesplorate in questo campo che con il progetto DIYR vogliamo sondare. Le domande che ci poniamo sono: quanto è lunga la vita degli oggetti tecnologici che utilizziamo quotidianamente? Siamo in grado di realizzare quegli stessi oggetti senza doverli comprare ogni volta che se ne rompe un piccolo componente? Che conoscenza e che capacità tecniche dobbiamo avere per realizzare degli oggetti che consideriamo di design? 

Il nostro interesse con DIYR è rivolto alla ridefinizione dei rapporti utente-produttore, cultura-industria e globale-locale. Nel concreto, stiamo progettando una serie di oggetti in grado di invertire il processo di stoltificazione promosso dal consumismo globalizzato e dalla commercializzazione di prodotti dall’obsolescenza programmata. Faremo questo con una serie di lampade, delle casse per la musica, dei carica batterie, degli appendiabiti e dei ventilatori che proporremo in diversi stili e versioni e che realizzeremo con materiali di facile reperibilità (addirittura semplicemente acquistati presso OBI o simili negozi) e che ognuno di noi può realizzare oppure riparare presso FabLab, il laboratorio dell’Università di Bolzano. L’idea è quella di far capire che l’enorme e inspiegabile divario tra la reperibilità delle singole componenti della tecnologia che utilizziamo quotidianamente e i prodotti finiti che acquistiamo può essere colmato semplicemente tramite il nostro stesso fare manuale. DIYR sarà tutt’altro che un progetto di design fittizio, in quanto i prodotti verranno commercializzati tramite una piattaforma online dedicata. 

SSP_Speculative model_16bit computers

Il terzo progetto è SSP (Sustainable Smart Parasites), sviluppato in collaborazione con il Sensing Tech Lab dell’Università di Bolzano. L’obiettivo in questo caso è quello di produrre delle tecniche e dei sistemi di simulazione per il design e la fabbricazione di componenti di nanotecnologia che ridefiniscano la nostra visione di oggetti e pratiche comuni. Concretamente, stiamo progettando dei sistemi che fungano da alternativa alle controparti tradizionali come nel caso dei termosifoni o delle stufe elettriche. Pensiamo a quanta energia viene sprecata nel riscaldare una stanza; il calore sale verso l’alto mentre noi siamo magari seduti in un angolo della stanza senza muoverci mai. Sarebbe interessante poter usufruire di fonti di calore localizzate laddove ve ne è una necessità effettiva, ad esempio, tramite grandi fasce riscaldanti da posizionare sotto la nostra sedia oppure sotto il tavolo. Al contrario di DIYR, SSP non ha fini commerciali, ma molti degli obiettivi sono comuni, soprattutto la ricerca di risposte alla domanda: “Cosa possiamo fare per…?”.

Grazie Nitzan, buone future frizioni!

 

Photo credits @ Nitzan Cohen

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