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January 26, 2021

Tobia Zambotti: il design dal wow al vero

Allegra Baggio Corradi

Pergine, Venezia, Milano, Shanghai, Reykjavík. La parabola di Tobia Zambotti nel mondo del design si estende dalla sostenibilità all’innovazione. Formalità e razionalità organicamente fuse in un approccio narrativo ad oggetti e contesti abitabili che intrecciano storie contemporanee di impegno ecologico, acume progettuale e sensibilità estetica. Il minimal incontra il pop tracciando un nitido percorso dal wow al vero.

Ciao Tobia, raccontaci di te.

Sono nato a Pergine Valsugana e dopo il liceo Vittoria di Trento ho frequentato la facoltà di architettura all’università di Venezia. Mi sono poi specializzato in design d’interni presso il Politecnico di Milano. Subito dopo la laurea sono partito per Shanghai dove ho lavorato con Alberto Caiola. In Cina la mia crescita professionale e la passione per il design d’interni sono cresciute in maniera esponenziale. 

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Cosa significa essere un designer in Cina?

A Shanghai il fattore principale di una committenza è l’effetto ‘wow’. I brief dei clienti ruotano intorno al desiderio di produrre architetture in grado di stupire il maggior numero di persone possibile e di superare in grandezza e platealità ciò che è stato realizzato in precedenza dai concorrenti. Non viene dato molto peso alla natura effimera delle costruzioni poiché, fintanto che l’impatto e l’approvazione dell’opera realizzata sono positivi, il resto è secondario. Essere un designer in Cina significa giocare al rialzo e realizzare nel minor tempo possibile progetti ‘instagrammabili’ che possano godere di un ampio consenso, soprattutto a livello estetico.

Da qualche tempo ti sei trasferito in Islanda. Cosa ti ha spinto ad allontanarti dalla Cina? 

I motivi sono due. Innanzitutto, ho deciso di raggiungere la mia compagna che abitava già da tempo a Reykjavík. Poi, dopo aver vissuto in Cina, non disdegnavo un cambio radicale di scenario e di stile di vita. Lo shock del trasferimento è stato notevole, ma in positivo direi!

Quali sono le differenze più eclatanti tra lo stile di vita cinese e islandese?

Credo che la sensazione più caratteristica che mi sono lasciato alle spalle andandomene dalla Cina sia stata quella di essere un ingranaggio minuscolo in un macchinario gigantesco. Oltre a questo, la fretta che caratterizza tutte le attività a discapito dell’attenzione e della riflessione e l’ossessione con la tecnologia e la connettività. Qui in Islanda ho riscoperto la possibilità di avere una privacy e un’intimità contornate da una sana lentezza che non sacrifica mai la produttività, ma la accompagna più dolcemente.

C’è un equilibrio maggiore tra la vita e il lavoro in Islanda al quale mi sto abituando e dal quale sto cercando di trarre il meglio. La creatività in Islanda è anche uno strumento di sopravvivenza ai mesi di buio trascorsi all’interno delle proprie abitazioni durante l’inverno. In proporzione alla popolazione, pari a circa 300.000 persone, l’incidenza artistica è davvero molto alta così come il crescente turismo che prima della pandemia si aggirava intorno ai 3 milioni di visitatori l’anno. Il governo supporta l’attività culturale in maniera sistematica e ciò si riflette nel numero di artisti attivi anche internazionalmente, soprattutto in ambito musicale. Infine, la natura offre degli spunti davvero impareggiabili e questa è una differenza davvero sostanziale rispetto alla Cina.

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Quali, invece, le differenze più significative tra la Cina e l’Islanda a livello lavorativo?

Dal punto di vista lavorativo, un designer di base a Shanghai ha moltissime possibilità in quanto, soprattutto il design d’interni, è un settore ben sviluppato e in continua espansione. I ritmi di lavoro sono molto serrati per gli standard europei ai quali siamo abituati, ma le committenze non vengono mai meno perciò le difficoltà sono legate ai ritmi e all’etica sociale piuttosto che alla pratica in sé. In Islanda, ovviamente, i clienti hanno una visione meno cosmopolita: sono più calmi e riflessivi, quindi, ponderano diversamente sui progetti che vengono loro proposti. Le domande che scaturiscono dal confronto con i committenti riguardano soprattutto la sostenibilità dei materiali e l’abitabilità dei luoghi. Essendo quasi tutto importato via nave in Islanda, questo è un fattore molto rilevante.

 

A proposito di sostenibilità, ci credi veramente o è una moda?

Nella sostenibilità credo davvero. Lo stile di vita cinese al quale mi ero abituato è insostenibile. In Islanda, come ovunque del resto, il tema della sostenibilità è sicuramente una moda, ma si pratica anche quello che si professa. Nell’ambito del design d’interni il discorso è piuttosto complesso perché molti problemi non sono di facile risoluzione. Come dicevo prima, quasi tutto è importato, perciò, nel fare una scelta sostenibile a livello di materiali bisogna considerare che la scelta implica necessariamente il trasporto via nave che è altamente inquinante. Bisogna tenere anche conto della lavorazione del materiale in sé, dell’utilizzo di colle per il fissaggio e di molti altri passaggi cruciali che spesso non hanno una soluzione sostenibile. Per comprendere il concetto di sostenibilità è necessario accettarne la complessità. L’alternativa più logica è sicuramente quella di utilizzare e valorizzare i materiali che la natura islandese offre in abbondanza o di riutilizzare in modo creativo materiali e oggetti già presenti sul territorio.

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Oltre che su committenza lavori anche a progetti più sperimentali. Ci puoi fare degli esempi? 

Attualmente sto lavorando a diversi progetti. Recuperando i seggiolini da stadio che vengono solitamente gettati ho disegnato una linea di sgabelli e sedie chiamata ‘The Fan Chair’. Il progetto ruota intorno al concetto di sostenibilità e contribuisce al riutilizzo creativo di una parte del 79% della plastica mondiale che non può essere riciclata in alcun modo. Sto adottando lo stesso approccio nella realizzazione di nuovi progetti che prevedono il riutilizzo creativo di salvagenti inutilizzati del porto di Reykjavík e delle mascherine monouso recuperate dalle strade di Pergine Valsugana e Trento. Mi piace dare valore alle risorse già presenti sul territorio che nessun altro vede come tali.

Nonostante il cambio di rotta, scrivi sul tuo sito che desideri realizzare progetti ‘instagrammabili’. È un retaggio cinese?

L’esempio più significativo è quello della gelateria che ho progettato per il museo Perlan di Reykjavík. Lo scopo dell’intervento era quello di attrarre un pubblico più numeroso e di pubblicizzare l’istituzione tramite la condivisione di fotografie sulle piattaforme social. Oltre all’attrattività estetica del luogo, gli elementi strutturali hanno delle funzioni specifiche. L’installazione immersiva del soffitto che ricorda le stalattiti di una grotta di ghiaccio, è costituita da una schiuma fonoassorbente che riduce il rumore dei frigoriferi. Muovendosi all’interno della gelateria, i pattern sul soffitto cambiano, generando una sensazione caleidoscopica dello spazio che dona dinamicità all’esperienza del visitatore. La geometricità delle stalattiti bianche e blu direziona lo sguardo verso le vaschette del gelato portando l’attenzione del cliente al prodotto in vendita. Il progetto unisce organicamente soluzioni razionali ed estetiche che echeggiano la missione celebrativa del museo nei confronti del paesaggio islandese, consentendo alla natura e alla tecnologia di fondersi in una sola dimensione.

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Che rapporto intrattieni con la tua terra d’origine, il Trentino? 

Sono ormai dieci anni che non vivo più in Trentino. Tutte le volte che torno riesco a vedere tutti i pregi del luogo, ma non riesco a non vederne anche i difetti che mi hanno spinto ad andarmene: assenza di elasticità mentale e visione internazionale fra tutte. A livello lavorativo mi riesce difficile immaginare di poter portare avanti la mia visione e il mio modo di comunicarla all’interno dei confini trentini. La provincialità mi spaventa. Spero che qualcosa possa cambiare, ovviamente, e continuo ad ammirare chi crede fermamente nelle potenzialità del territorio combattendo per le proprie idee rimanendo qui. Certo è che un legame con il Trentino continuo ad intrattenerlo. Collaboro da tempo con la falegnameria Caldini Luca di Pietramurata per i progetti che svolgo in Italia e non solo. Mi piacerebbe molto poter continuare ad incrementare l’assiduità dei lavori in Trentino, soprattutto date le competenze della mano d’opera locale e delle potenzialità inespresse della regione, soprattutto a livello creativo. Se c’è bisogno ancora di tempo, io sono pronto ad aspettare!

 

Photo Credits

1. Ritratto di Tobia Zambotti
2. “Nyx” by Alberto Caiola Studio
3. “Gummi Apartment” by Tobia Zambotti
4. “The Fan Chair” by Tobia Zambotti
5. “Perlan Ice Cream” by Tobia Zambotti

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