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December 29, 2020

Moreness in December. Giorno ventinove: una montagna di ricordi

Claudia Gelati
Ora che la montagna è sulla bocca di tutti, noi vorremmo riportarla semplicemente negli occhi e nei pensieri, collezionando osservazioni, riflessioni, appunti, annotazioni, che lei stessa ci ha ispirato. Partendo dai contenuti di Moreness, ma non solo, il nostro "more than Advent Calendar" arriva fino al 31 dicembre, e non è dunque né pre-natalizio né celebrativo, ma piuttosto un compendio corale di 30 brevi lettere d'amore per le nostre Dolomiti.

Sono nata e cresciuta in provincia di Mantova in uno dei tanti paesi che punteggiano la Pianura Padana, forse la cosa più piatta che si possa concepire al mondo. Piatta come quelle sterminate praterie rosse americane che si vedono nei road movie, nei western e così via. 

Ecco, sostituite i ranch con gli allevamenti di maiali e mucche, lo slang americano col dialetto, togliete tutto il fascino del mito americano e siete in Pianura Padana. 

Capirete anche voi che crescendo in un posto dove l’orizzonte è una riga lontana che separa il cielo bianco afa dal verdone del granoturco, dove d’estate ci sono più zanzare che persone fuori prima delle otto di sera e la nebbia è un must dell’autunno-inverno, la montagna e tutto l’immaginario ad essa connesso, rappresentano assolutamente qualcosa di esotico, vacanziero. 

Mentre tutti gli altri bambini, al fantomatico drindella campanella che segnava l’inizio libertà estiva, avevano già in mano il costumino e gli immancabili gonfiabili dalle forme più variegate…io no. Da che mi ricordo, infatti, le mie vacanze estive sono quasi sempre state in qualche località montana, con l’eccezione di quella volta a Marina Romea, dove per arrivare alla spiaggia si attraversa una rigogliosa e profumata pineta. Tutto molto suggestivo se non fosse per il fatto che, da asmatica quale sono, ho rischiato di non vederlo proprio il mare. 

Per molti anni, andare in montagna per me significava andare in Trentino, quasi sempre dalle parti di Folgaria che, per la bambina di sette anni che ero, era il centro del mondo, una sorta di Las Vegas, dove c’era tutto quello che mi serviva. Tanti sono i ricordi e gli aneddoti di quelle estati, intrappolati nella mia mente o nelle foto ancora su pellicola: la panchina più lunga del mondo (o almeno così c’era scritto) davanti alla chiesa, la casetta del gelato e il minigolf a Costa, le caprette golose di noccioline, la libreria Tre Pini con i libri sempre a metà prezzo, raggiungere il caseificio attraversando i prati, la casa bianca con le imposte rosse su a Colpi vicino al santuario dove avrei voluto vivere da grande, dicevo. A Folgaria, poi, c’era un parco giochi con una grande giostra a forma di nave per la quale io avevo perso semplicemente la testa. Credetemi non facevo i capricci, ma tutte le mattine dovevo andare a controllare che la mia personale nave pirata fosse ancora lì, ormeggiata tra i monti. 

Mia mamma, anche in gita e in vacanza, era l’addetta alla spesa. Pranzavamo spesso al sacco perché si sa, è una verità universalmente riconosciuta, che il pane e il formaggio e persino il prosciutto hanno tutto un altro sapore in montagna. Siamo stati tante volte al Lago di Lavarone, che alla bambina che ero sembrava proprio il posto più bello del mondo e le montagne attorno mi sembrano altissime. La mia partner in crime di allora (ma di sempre, in realtà) era mia sorella che con una pazienza tra premio nobel, inventava giochi assurdi che ancora ci divertiamo a commentare, e alla quale rubavo puntualmente la stuoia di paglia. Durante le passeggiate, mio papà raccoglieva alcuni rami di terra, li incideva con l’immancabile coltellino e li usava come bastoni da passeggio. Li teniamo ancora nel portaombrelli. 

Qualche tempo dopo, andare in montagna significava andare in Val Rendena, dove era mio papà snocciolava i ricordi e gli aneddoti pazzi delle sue vacanze estive da bambino nella Strembo degli anni sessanta. 

Le Cascate Nardis in Val di Genova sono state le prime che ho visto da vivo. Più o meno di fronte alle cascate c’era un chiosco di panini: si poteva mangiare direttamente sul prato e godersi la vista. L’addetto alla griglia, tra salsicce e würstel, aveva una folta chioma bionda, qualche tatuaggio e, se non ricordo male, i baffi a manubrio. Per molti anni, anche quando salivamo a Pinzolo solo per il fine settimana, per noi lui è sempre stato il Vichingo della Val di Genovae non mancavamo mai al nostro appuntamento dell’ora di pranzo. Quando per strada sui tornanti più ripidi incontravamo qualche ciclista in solitaria, il ritornello cult che ripetevamo sempre è una frase in dialetto mantovano che credo derivi da qualche canzone, ma che ormai è entrata nel gergo comune: “Cücia Pino ch’andomain salida” (tradotto: “spingi Pino che andiamo in salita!”

Per qualche tempo, andare in montagna significava attraversare i valichi; ci piaceva l’idea di salire più in alto possibile, come centauri pazzi ma su quattro ruote. Tornante dopo tornante, salivamo in cima, scendevamo dalla macchina per assaporare il panorama e poi ci rimettevamo in viaggio. Passo Rolle. Passo Pordoi. Passo del Tonale. Passo Gardena. Il più spettacolare di tutti? Passo di Gavia, da Santa Caterina Valfurva a Ponte di Legno, 2.6621 metri di altitudine a metà tra due province e una strada che nemmeno l’impavido Google Maps ti segnala. L’ultimo che abbiamo attraversato è stato il Colle del Monginevro nel 2016, nel viaggio di ritorno dall’Irlanda, quasi per caso per trovare un’alternativa al Traforo del Frejus, tra Francia e Italia. 

Qualche tempo dopo andare in montagna significava Val Pusteria, che abbiamo girato in lungo e in largo prima che Terence Hill arrivasse a colonizzare Braies (o almeno, il suo cartonato), ma soprattutto con il nostro modo non convenzionale di vivere la montagna. Brunico è stato il primo angolo di Alto Adige che ho visto e da subito mi è sembrato così moderno e speciale. 

Per qualche scherzo del destino poi, sono finita a studiare design a Bolzano e allora, negli ultimi anni, andare montagna significa anche tornare nella città che per il momento chiamo casa mia. 

Forse per motivi di carattere e di salute ho sempre vissuto la montagna in maniera diversa, alternativa, senza mai sentirmi sbagliata. Non sono una fan della neve né tanto meno ho mai imparato a sciare. Non sono mai stata in un rifugio. Non mi interessano gli sport estremi anche perché, si sa, che io e lo sport non avremo mai una relazione duratura. Non ho mai comprato abbigliamento tecnico, bastoncini da nordic walking, borracce, strani zaini fosforescenti, pile termici a forma di pecora decisamente di dubbio gusto, sacchi a pelo e chi più ne ha ne metta. Continuerò a fare le mie lunghe passeggiate senza gli stivaletti appropriati, ma con le mie solite Vans. Continuerò a pranzare al sacco, perché si sa, è una verità universalmente riconosciuta, che il pane e il formaggio e persino il prosciutto hanno tutto un altro sapore in montagna. Continuerò a subire il fascino dei valichi, delle terre perennemente al confine, dei ricamini e dei ninnoli tirolesi. 

La mia montagna è sinonimo di estate. La mia montagna è sinonimo di libertà, pace, silenzio. La mia montagna è quella sensazione ambivalente di infinito e allo stesso tempo sentirsi minuscoli davanti a tanta imponente magnificenza. La mia montagna è uno stato d’animo. La mia montagna è fatta di ricordi e aneddoti, ancora così vividi che mi sembrano accaduti ieri. 

  claudia 98

SUGGESTIONI PER IL GIORNO VENTINOVE:

*  foto di famiglia — Colpi di Folgaria (TN), 1998 

*Vento di passioni, Edward Zwick, 1994
Un film che in famiglia conosciamo più o meno a memoria ma che non ci stanchiamo mai di vedere. All’inizio del film, c’è una frase che mi è sempre rimasta ben impressa in mente: “Voleva perdere la pazzia tra le montagne e ricominciare tutto da capo.” 

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