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December 18, 2020

Cronacamminata 07_Camminare verso una meta

Allegra Baggio Corradi
Dieci passeggiate di due ore ciascuna divise ognuna in quattro attività di trenta minuti. Un totale di 10,000 passi per tappa, 100,000 nel complesso, 20 ore in tutto. L’atto del camminare è al centro della cronacamminata a tappe di Erling Kagge, piedandante norvegese che si com-muove, cambia, ringrazia e re-agisce attraversando la natura, le città, il sé, l’arte, i libri e il mondo, con e senza una meta, da Oslo a Bolzano.

StampaI verbi norvegesi røre sig e bevege sig all’attivo significano “muoversi”, mentre al passivo (bli rørt e bli beveget) “commuoversi”.

Come andrà la giornata lo si può prevedere già prima di uscire dalla tenda la mattina. E Probabilmente ancora prima di iniziare la spedizione. “Se ce la farete, la gente crederà che il merito sia del bel tempo”, fu l’ultima cosa che l’artista Jakob Weidemann, il principale sponsor della spedizione al Polo Nord, disse a me, Geir e Borge prima della partenza. In quel momento non feci caso più di tanto alle sue parole, ma mi vennero in mente quando, di ritorno dal Polo Nord, tutti ci chiesero se avevamo avuto fortuna con il tempo. Weidemann era un uomo saggio. (cit. “Tutto quello che non ho imparato a scuola”, p. 92).

Mi sono convinto con il passare del tempo che le mete che ci prefiggiamo di raggiungere ci portano oltre il traguardo stabilito. Quando ho completato con successo la mia spedizione al Polo Nord, in realtà, non ho conquistato un primato, né ho raggiunto uno dei poli terrestri. Ho trasformato un’abitudine in un’anomalia camminando. Ho capito con il tempo che l’idea romantica della creazione senza schemi è pura utopia, almeno lo è per me. Le conquiste maggiori richiedono tempo, impegno, sforzo e costanza. Senza un continuo esercizio e una sostenuta ripetitività, nemmeno il genio è libero di creare. La conquista non giunge per caso o senza che la nostra mente se ne avveda mentre accade. Quando pensiamo che le intuizioni migliori giungano all’improvviso e si concretizzino ex nihilo, erriamo. Quando alleniamo la nostra mente e il nostro corpo ad una schematicità seriale e maniacale, camminiamo. Camminare è un atto sovversivo e in quanto tale, proprio perché monotono e cadenzato, conduce all’anomalia. È all’interno dei limiti che si invera l’inusuale. È così nell’arte, ad esempio, perché essere scapigliati non significa essere geniali né rivoluzionari mentre essere abitudinari conduce molto spesso al delirio della ragione, il più incomprensibile e il più fecondo.

Gli artisti più straordinari sono quelli che, come tutti i comuni mortali, seguono delle routine, almeno nei periodi in cui creano delle opere d’arte, anche se in modo un po’ diverso da ciò che faccio io quando parto per una spedizione. Lo stereotipo secondo cui gli artisti sono romantici ubriaconi o anime dedite al consumo di droghe, assolutamente privi di disciplina e capacità di adattamento, ha qualche riscontro nella realtà, ma non è così comune come crediamo. E per quanto mi è dato di vedere, raramente creano capolavori nei loro periodi “scapigliati”. L’artista danese-olandese Olafur Eliasson va ogni giorno nel suo atelier più o meno alla stessa ora, verso le 8.30. Per una mezz’ora si dedica al tiro con l’arco, poi lavora con la massima concentrazione per l’intera giornata. L’energia che gli deriva dall’essere così sistematico la trasfonde nelle sue opere d’arte. (cit. “Tutto quello che non ho imparato a scuola”, pp. 86-87).

StampaAffinché ciò che ci circonda non si limiti a essere bello ma venga elevato alla dimensione del sublime, deve avvenire un cambiamento nella nostra testa.

Da quando faccio l’editore sono decisamente meno irrequieto di quanto non fossi quando ero un esploratore ed è così perché sono diventato metodico. La mia routine segue dei ritmi regolari. Metto i miei piedi uno di fronte all’altro duemila volte ogni mattina, muovendo da casa mia alla mia casa editrice. La meticolosità, il camminare verso una meta precisa quotidianamente, mi consente di stabilire connessioni con il mondo che mi sta intorno e collegamenti tra i pensieri che già abitano la mia mente in maniera del tutto rizomatica. L’energia che deriva da questa mia autoimposta disciplina genera sovversione.

Prima di partire per le mie spedizioni cercavo di definire, in maniera quasi “hegeliana”, il maggior numero di cose da fare. Per me ovviamente si trattava di una questione non tanto filosofica, quanto pratica; per dare una struttura al quotidiano era fondamentale avere un quadro d’insieme dei propri “impegni”. Quando sono in montagna o in mezzo ai ghiacci ci sono così tante decisioni da prendere in una giornata che meno intoppi devo affrontare, meglio è. Come ho detto prima, mettevo la sveglia alla stessa ora e sbrigavo una serie di compiti in un periodo di tempo predefinito. Infine, dopo aver smontato la tenda, mi giravo un’ultima volta a controllare se avessi dimenticato qualcosa. Visto che dovevo risparmiare sul peso e praticamente non avevo provviste – solo 1256 grammi di attrezzi e nemmeno un paio extra di guanti – non potevo permettermi il lusso di dimenticare niente. Quest’abitudine me la sono portata anche nella vita normale. Ogni volta che sono in procinto di partire ed esco dalla mia camera, mi giro automaticamente per essere certo di non aver scordato nulla. Durante le spedizioni, dopo aver smontato la tenda, camminavo per un paio d’ore e facevo una pausa di dieci minuti; già al nono mi preparavo a ripartire così da non riposare troppo. Concludevo poi la giornata a un orario prestabilito. Spazzavo via la neve e l’umidità dai vestiti e m’infilavo dentro la tenda. Dopo aver mangiato e letto qualcosa, andavo a dormire sempre alla stessa ora. (cit. “Tutto quello che non ho imparato a scuola”, pp. 86-87).

StampaQuando si abbandona un bivacco, ricordarsi di lasciare sul posto due cose. La prima: niente. La seconda: i ringraziamenti.

Quando ero giovane credevo che l’anzianità portasse con sé monotonia e torpore. Ora che sono trascorsi più di trent’anni dal picco della mia forma fisica come esploratore, mi rendo conto di quanto errato fosse il mio pensare. Quella che credevo essere ‘monotonia’ la definirei ora consapevolezza. E quello che immaginavo fosse torpore lo chiamerei allo stato attuale ‘equilibrio’. È camminando ripetitivamente verso una meta precisa con rigore e dedizione che ho raggiunto questi due stadi del mio divenire. Perciò, non posso che ringraziarmi per aver compreso che la baldanza giovanile non conduce che all’insofferenza e alla prurigine. Ebbene sì, alla prurigine perché ogni qualvolta desideriamo qualcosa che non si realizza insorge come un vento caldo che sale dai piedi alla testa percorrendo la schiena e il collo, coinvolgendo gli arti e infiammando il petto. È uno scalpitio figlio della frustrazione e del timore della stasi. Ovviamente, non vi è cosa peggiore per un esploratore che sentirsi bloccato in un luogo senza uscita. Eppure, ora che sono più fermo rispetto a prima, sento di potermi spostare di più e con più energia. È l’abitudine che mi consente di apprezzare il sapore dell’anomalia.

StampaUna camminata può durare una vita intera. Puoi anche andare in una direzione, per poi tornare dov’eri partito.

Leggere in questo pezzo di terra le sue leggi, scorgere la necessità della sua conformazione e della sua vegetazione, cogliere il legame che l’unisce alla storia, all’indole, all’architettura, alla lingua e ai costumi degli abitanti: tutto ciò esige amore, dedizione, esercizio. Ma ne vale la pena. In un paese che con zelo e amore ti sei reso familiare e si è fatto tuo, ogni prato, ogni roccia sulla quale hai sostato ti rivela tutti i loro segreti e ti infonde l’energia che ad altri non è concessa. Voi dite che non tutti possono studiare come geologi, storici, dialettologi, botanici ed economisti il pezzo di terra su cui si è scelto di trascorrere una settimana. Naturalmente no. Si tratta di sentire, non di conoscere dei nomi. La scienza non ha ancora reso beato nessuno. Ma chi sente la necessità di non camminare a vuoto, di sentirsi vivere costantemente nel tutto ed essere parte integrante del tessuto del mondo, apre ovunque spontaneamente gli occhi su ciò che è peculiare, autentico, legato alla terra. (cit. Herman Hesse, “Camminare”)

Tanto mi sono abituato a percorrere a passo spedito il percorso più efficiente che ogni mattina mi porta da casa al lavoro che mi capita di leggere mentre cammino. L’ho visto fare spesso nelle grandi città europee, da persone che alienate dal loro ritmo lavorativo si perdevano nelle pagine di un qualsiasi libro, intrattenendosi a singhiozzo mentre la metropolitana conduceva i loro corpi da un punto all’altro della città. Non credevo ne sarei mai stato capace, ma una volta che i miei piedi hanno imparato a memoria il percorso, le mente è stata libera di viaggiare su un binario parallelo. Ed è così che l’altro giorno ho letto questo brano di Herman Hesse che insisteva proprio sulla necessità di non camminare a vuoto. L’amore, la dedizione, l’esercizio riversato in quella lettura si sono estesi senza che me ne avvedessi, in tutte le attività che svolsi quel giorno. È così che camminando verso una meta la meticolosità si è ammutinata. È nata, sovversivamente, la spontaneità.

 

***
Per entrare ancora più a fondo nell’universo poliedrico di Erling Kagge, potrete visitare – appena il museo riaprirà – la mostra “Walking. Movements North of Bolzano” al Museion di Bolzano (fino al 14 febbraio 2021), nella quale Kagge – curatore e collezionista – ha selezionato oltre 60 opere di 30 artisti e artiste del Nord Europa. 

Graphic design by Paula Boldrin

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