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December 6, 2020

Moreness in December. Giorno sei: il richiamo

Maria Quinz
Ora che la montagna è sulla bocca di tutti, noi vorremmo riportarla semplicemente negli occhi e nei pensieri, collezionando osservazioni, riflessioni, appunti, annotazioni, che lei stessa ci ha ispirato. Partendo dai contenuti di Moreness, ma non solo, il nostro "more than Advent Calendar" arriva fino al 31 dicembre, e non è dunque né pre-natalizio né celebrativo, ma piuttosto un compendio corale di 31 brevi lettere d'amore per le nostre Dolomiti.

“Mormorii e rilucere di acqua gelida di ruscello
Pietre che girano sotto i piedi, piccole e dure come le dita
naso freddo che gocciola
cantare dentro
musica di ruscello, musica del cuore,
odore di sole sul greto”. 
Gary Snyder

Ci siamo state più volte lungo quel sentiero. 
Si costeggia il ruscello e poi si sale su, fino alla cascata. 
L’acqua scroscia rumorosa dalla roccia e si raccoglie in un piccolo laghetto scuro.
È così gelida che ti colpisce in testa, se ci infili i piedi dentro.
Lì ci sono correnti d’aria fredda e ombre a qualsiasi ora.
O almeno è così che io ricordo. 

Quel giorno eravamo stufe di abbellire la nostra capanna, adagiata sotto l’albero storto. Giocavamo spesso lì, all’ombra della grande casa gialla.
I fiori che avevamo infilato tra le fessure pendevano flosci e maleodoranti come erbaccia. 
“Tanta fatica per niente” sbuffò mia cugina. “ È brutto qui. Non ho più voglia di giocare.”
“Neanche io” dissi, scrollandomi la terra dalle gambe ossute. 
“Potremmo arrampicarci sulla tettoia del garage e sbirciare dentro?”
“Potremmo dipingere i sassi o saltare all’elastico.”
“Potremmo andare a cercarla…” Rispose lei, guardandomi fisso, con occhi brillanti, mentre rigettava indietro la sua treccia, bionda e sottile. 
“Devi smetterla di avere paura, io ci vado anche da sola”. Aggiunse.
“Questo lo so, non ho paura e voglio andarci, ma non posso. La mamma non vuole”. 
“I grandi non sanno cosa facciamo, basta tornare alla solita ora.”
“Magari non c’è…” insistetti. 
“Lo sai che prima o poi si farà vedere. Siamo amiche”. Disse lei, con sguardo corrucciato.  
Io iniziai a grattarmi un braccio fino a farmi male. 
Facevo così quando non sapevo cosa fare.
“Dai corri, non stare lì come un sasso”. Mi incalzò mia cugina, scrutandomi con severità. Le piaceva fare così ultimamente, anche se era di poco più grande di me.  
Poi – senza mai voltarsi – iniziò a scendere veloce giù per il prato.  La sua lunga treccia ondeggiava leggera dietro di lei. 
“Va bene – risposi tra me, mentre la guardavo – andiamo”. 

Corremmo in fretta verso casa. Non si vedeva nessuno. 
La mamma doveva essere di sopra ad accudire mia sorella. 
Ci dirigemmo saltellando verso l’imbocco buio del sentiero. Era così vicino a casa. 
Ogni estate lo potevo osservare dalla finestra della mia camera, sul retro dell’edificio.
Ci muovemmo in fretta. La strada asfaltata che circondava il gruppetto di case lasciava spazio all’erba, prima rada, poi sempre più fitta e punteggiata di fiorellini. 
Accanto all’ingresso del sentiero si trovava una vecchia cappellina della Via Crucis. 
Non mi piaceva guardare le brutte statue di legno dipinto attraverso le sbarre. 
Il sangue che sgorgava da Gesù era nero e grumoso. Il volto era triste e spaventato. 
Prima di incamminarci tra la fila di alberi che facevano da sipario al viottolo, mi voltai ad osservare il monte alle nostre spalle, quello davanti casa, aldilà della statale. 
Era ampio, familiare e innondato di luce. Poi guardai davanti a me. 
C’era il bosco scuro e verticale che inghiottiva il sentiero, mentre in alto, si disegnavano vette appuntite e seghettate, quasi nere, a fare da fondale contro il cielo azzurro e smisurato, punteggiato di nuvole.
Mia cugina mi afferrò la mano, ridendo e strattonandomi. “Dai andiamo! Non stare impalata. Non dirmi che hai cambiato idea!”
“No – risposi risentita e imbronciata – basta che facciamo in fretta.” 

Da quel momento smettemmo di parlare e ridere. 
Il primo tratto di strada lo avevamo percorso tante volte assieme ai miei genitori e ai miei fratelli, ma ora sembrava diverso. In poche occasioni avevamo raggiunto la cascata. 
La mamma aveva paura di cadere e ad un certo punto, tornavamo indietro.
Ora il sentiero era ben visibile attraverso il boschetto umido. 
Dopo poco iniziava a costeggiare il ruscello, diventando via via più ripido, man mano che si inerpicava sulle rocce, fino a raggiungere la cascata. 
Mia cugina procedeva rapida. Aveva la falcata agile di chi è nato in montagna e non esita a mettere un piede dietro l’altro, trovando l’appiglio giusto a cui ancorare la mano. 
I miei movimenti erano incerti e prudenti. I lacci delle scarpe da ginnastica erano allentati, la suola scivolava sulla pietra bagnata. Ogni tanto mi fermavo ad osservare la montagna davanti a me. 
Ad ogni passo, mi pareva più vicina e grande. La testa, nel gesto di guardare in sù, era pesante. Mi rigettava indietro con una vertigine, quasi avessi un enorme zaino sulle spalle. 
“Ecco, vieni.” Disse mia cugina. Qui è dove ci ha lasciato gli indizi. Ti ricordi? 
Proprio in questo punto abbiamo trovato la piramide di sassi. Là, c’è la freccia. Vedi gli incroci dei rami? Li vedi? È il segnale.”
“Sì che li vedo.” Esclamai.

Vuole che scendiamo giù, che andiamo avanti da quella parte.” 
“Giù dove?” Dissi io, leggermente in allarme.
L’acqua era fragorosa. Schiumava tra i sassi, illuminati a tratti da qualche caldo raggio di sole che si infilava tra le rocce. 
Le pietre scomposte sul greto rilucevano alla luce tersa del pomeriggio.
“Dobbiamo lasciare il sentiero e risalire il torrente.” Rispose lei.
“Ma perché, piagnucolai, ci bagneremo tutte…”
“No, se ci togliamo le scarpe e ci asciughiamo i piedi al sole”.
“Non so… – dissi – l’acqua è troppo fredda e i sassi pungono.”
“Lo sai che brucia solo all’inizio, poi passa.” Disse lei. 
“Sbrigati che ci divertiamo.”
Abbandonammo il sentiero e scendemmo caute verso l’acqua. 
Per non scivolare, a volte mi accucciavo, attaccandomi con le mani ai fili d’erba, quelli più lunghi e robusti. I calzoni, ereditati da mio fratello, mi grattavano sulle cosce. 
La punta delle scarpe era diventata scura e rigida come cartone, i calzini erano bagnati. Dopo poco decidemmo di toglierci le scarpe. 
“Fai come me” disse lei. “Annoda i lacci e metti le scarpe in spalla. Ecco, così. Devi avere le mani libere, se cadi. Poi arrotola i jeans più che puoi. I calzini dentro le scarpe. Sì, ecco… Ora muoviti.” 

Pensavo che non avrei resistito a quel gelo e che il cervello mi sarebbe esploso.
Ci mettemmo a urlare e a ridere come matte. Strillavo e saltellavo, tenendo mia cugina per mano, appoggiandomi a lei per non cadere. I sassi scivolavano svelti sotto le nostre dita dei piedi, arrossate e rigide come rami. Il corpo era scosso da fremiti.
“Che male!”
“Io impazzisco!“ Gridai con le lacrime agli occhi. 
Lei non smetteva di ridere. 

Scarpe e calzini giacevano sui sassi. Asciugavano raggrinziti al sole. 
Via via il gelo era diventato sopportabile, non sentivo più dolore e avevo smesso di trattenere il fiato. Mi acquietai. 
Era piacevole scaldarsi al sole come una lucertola. 
A un certo punto mi sedetti su una lastra di roccia e infilai entrambe le mani nell’acqua. 
Cominciai a schiaffeggiare la superficie di un minuscolo stagno muschioso. 
Era bello: un lago in miniatura. Aveva un fondale circolare, verde e limpido. 
Solo in certi punti era limaccioso. Mi misi a smuovere alcune pietre con cura, aiutandomi con un bastoncino. Volevo vedere se sotto si nascondesse qualche insetto.
Piccole api mi ronzavano attorno, senza infastidirmi. 
Mia cugina si era spostata poco più in là e tirava sassi nell’acqua. 
La vedevo misurare con lo sguardo gli schizzi che colpivano un’alta parete di roccia. 
Sceglieva solo pietre piatte e lisce che si sfregava sui palmi delle mani, prima di lanciarle. 
Lei non mi guardava. 
Non parlava. 
Sembrava essersi dimenticata di me. 

Il sole iniziò a ritirarsi. 
Era passato del tempo. Difficile dire quanto.
“Ehi, vieni fuori!” Iniziai a urlare, esplorando con lo sguardo la montagna scura.
Mia cugina, con un sorriso, si unì al richiamo.
“Bambina!”
“Dai bambina, vieni fuori! Vieni a giocare…”
Non ci furono risposte. 
Attendemmo zitte e in allerta, ascoltando la melodia inarrestabile del ruscello e poi urlammo con maggiore forza, rivolte verso la montagna.
“Bambina, bambina… Siamo qui.”
“Ehi, ehi!” 
Nel silenzio, in attesa di un segnale, ci accorgemmo che un uccello emetteva il suo richiamo. Volteggiava in alto, tra le rocce mute. 
“Oggi non viene… Hai sentito l’aquila? Non è un buon segno.” Disse mia cugina, con occhi improvvisamente seri. 
“No, non verrà – feci eco io – allora andiamo.”
“Dai, aspettiamo. Stiamo ancora un po’…” 

“Magari viene domani e andiamo con lei alla cascata.”
“E forse ci mostrerà la sua casa. Secondo me è da quella parte.” Disse mia cugina indicando con il dito un punto vago sul finire del bosco, ormai completamente scurito dalle ombre, là dove si intravedeva un ghiaione e gli alberi degradavano verso la roccia livida. Diversi anfratti solcavano verticalmente le nude pareti rocciose, erano bui come caverne.
“Sì… domani torniamo.” Aggiunsi io pensosa. 
“E giochiamo insieme a costruire una grande diga con i sassi.”
 “Lei ci insegnerà, visto che vive qui.” 

Lavorammo veloci. Costruimmo una piccola piramide di sassi sopra un grande masso. Spargemmo intorno qualche petalo colorato e minuscole foglioline. Ci muovevamo in sintonia senza parlare, con gesti rapidi e meccanici, scegliendo solo pietre tonde e piatte. 
L’aquila, era ancora sopra di noi. Ci osservava.
Sentivamo il suo verso minaccioso, stridulo, ripetuto e circolare. Dovevamo andare.
“La bambina vedrà i segnali e verrà domani.” Disse mia cugina.
“O forse un’altra volta…” Risposi io. 

La montagna e il ruscello non erano più belli come prima. 
Era sceso il freddo che ci faceva battere i denti.
Infilammo velocemente i calzini e le scarpe irrigidite dall’acqua e ci dirigemmo verso il sentiero, arrampicandoci sui massi. I sassolini franavano in rivoli attorno ai nostri piedi e rimanevano appiccicati alle mani, quando ci aggrappavamo al terreno per non scivolare. 
“La mamma mi starà cercando.” Pensai, con una leggera agitazione, mentre mi allontanavo dal torrente. 
“Sbrighiamoci, facciamo in fretta!” gridai, improvvisamente inquieta. 

Prima di ergermi sugli ultimi ammassi di pietre che mi separavano dal viottolo, gettai un rapido sguardo alla montagna alle mie spalle. 
Alzai il volto verso le vette, quasi con un cenno di saluto. Il sole se n’era andato. 
Soltanto alcuni ritagli di roccia, tra le cime, erano accesi di luce.
Poi, con la forcina, appuntai la lunga frangia castana che mi si era appiccicata alla fronte, assieme a del ghiaino. Mi scrollai la terra dalla maglietta e dai pantaloni e guardai mia cugina che mi aspettava. 
Aveva le guance arrossate, i jeans arrotolati e le mani appoggiate sui fianchi. 

Una volta imboccato il sentiero, iniziammo a canticchiare, saltellando. 
Eravamo a casa.

 

 SUGGESTIONI PER IL GIORNO SEI

La fascinazione per la montagna rivive nei miei ricordi d’infanzia. 

È il luogo magico del selvatico. La montagna è dimensione di libertà e scoperta, contatto con la sostanza mitica della millenaria natura rocciosa, laddove la fantasia ha libero sfogo. Le Dolomiti della mia infanzia sono misteriose, primigenie, abitate da animali e segnate dalla presenza umana, reale e immaginaria. La magia si compie quando si abbandona il sentiero: lì inizia l’avventura – anche se presto o tardi arriverà il momento di fare ritorno a casa. 

Per scrivere queste pagine (di ricordi d’infanzia) mi sono ispirata ad alcune poesie e saggi di un autore poco noto in Italia, lo statunitense Gary Snyder (oggi novantenne): ambientalista, poeta, legato alla Beat Generation, vincitore del premio Pulitzer per la poesia nel 1974, saggista, Buddhista Zen, montanaro, bio-regionalista ed ecologista profondo.

* La pratica del selvatico di Gary Snyder (FioriGialli)
Così scrive Gary Snyder nel libro: Nessuna esperienza è paragonabile a quella di abbandonare il sentiero e dirigersi verso una parte nuova del territorio. Non per la novità in sé, ma per provare la sensazione del ritorno a casa, alla totalità del nostro ambiente. “Fuori dal sentiero” è un altro nome della Via, e nel vagabondare fuori dal sentiero sta la pratica del selvatico. Laddove – paradossalmente – svolgiamo il nostro lavoro migliore. Ma i sentieri e le vie sono necessari e li manterremo sempre. Bisogna prima camminare sul sentiero, per poi svoltare e inoltrarsi nel selvatico.”

“Vivere in una cultura della wilderness è sempre stato un aspetto fondamentale dell’esperienza umana. Per centinaia di migliaia di anni non c’è stata wilderness senza qualche forma di presenza umana. La natura non è un posto da visitare, è casa nostra”.

* Montagne di celluloide, infanzia e nuvole”in Appunti di cinema e montagne” – Carnet di suggestioni (visive e immaginifiche) tra finzione e realtà in MORENESS 01 – Above the Tree Line
Di infanzia e montagne ho scritto anche su Moreness 01, in una riflessione dedicata al regista gardenese Luis Trenker. 

 

Immagine: estratto da Moreness 02 – On Trees and Woods

 

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