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November 30, 2020

Siamo matte, se vi pare: la malattia mentale raccontata da otto donne trentine

Stefania Santoni

Il 25 novembre è stata la giornata mondiale per lʼeliminazione della violenza contro le donne. Ma questa data dovrebbe essere ogni giorno: per agire concretamente a tale fenomeno sono necessari interventi e attività di sensibilizzazione quotidiani. Ed è proprio allʼinterno di questo contesto che nasce un libro: una nuova pubblicazione contro lo stigma relativo al disagio psichico e al mondo femminile, il cui ricavato sarà infatti interamente destinato alla realizzazione di progetti di prevenzione alla violenza di genere. 

Siamo matte, se vi pare, volume fresco di stampa edito da Erickson, è frutto del lavoro integrato di due menti che ho avuto modo di intervistare lʼaltro giorno: si tratta di Katia DellʼEva, giornalista pubblicista e professionista nella comunicazione, e Jacopo Tomasi, giornalista e già autore di due libri sullʼargomento. 

Come nasce questo libro?

Katia DellʼEva: Il libro si inserisce allʼinterno della rassegna di Associazione AnDROmeda «Le.180 etichette del sé», un percorso culturale volto a raccontare lʼargomento ambivalente della malattia mentale e della violenza di genere. Lʼidea di chiamarmi ed invitarmi a scrivere intorno a questo tema deriva da un mio lavoro precedente: la mia tesi di laurea magistrale ha visto la produzione di un elaborato dedicato ai quarantʼanni che hanno fatto seguito alla Legge Basaglia. 

Jacopo Tomasi: Anche io ho un percorso simile. In passato ho avuto modo di scrivere altri due libri sul tema (nel 2012 e nel 2017) con De Stefani, medico psichiatra, ma non solo. Assieme ad un fotografo, Alessio Coser, ho girato tutta lʼItalia per vedere come la Legge Basaglia aveva modificato i vari contesti psichiatrici. È così che è nata una mostra fotografica. In questo spazio espositivo sono entrato in contatto con Katia e insieme abbiamo pensato ad un nuovo progetto da realizzare, sempre dedicato alla salute mentale, ma questa volta declinato al femminile. Abbiamo quindi iniziato a raccogliere delle testimonianze, attingendole sia in maniera indiretta (cioè dallʼarchivio storico) che in maniera diretta, intervistando delle donne che avevano personalmente vissuto allʼinterno di realtà manicomiali da utenti o in qualità di operatrici. 

Cʼè una storia cui siete particolarmente legati?

Katia DellʼEva: Onestamente è molto difficile sceglierne una, perché tutte le donne che ho intervistato mi hanno lasciato punti di vista davvero interessanti. Forse ad una più di tutte sono legata: è la storia di Valentina, utente e paziente con disturbo bipolare che ha scelto di mettersi in gioco con nome e cognome, atto decisamente coraggioso. Quando ci siamo date appuntamento, ci siamo incontrate in un bar affollato (lʼintervista risale a prima del Covid19): qui, mentre parlava con me, Valentina ha incontrato dei conoscenti che però non le hanno impedito di mettersi a nudo e di aprirsi. Mi ha davvero colpita la sua narrazione così sincera e autentica rivolta a me, una perfetta estranea. Valentina ha cercato di spiegarmi quanto è faticoso accettare socialmente una patologia come la sua: ad una diabetica, ad esempio, nessuno direbbe mai di smettere di prendere farmaci, mentre per chi soffre di disturbi psichici si creano sempre circostanze di tipo sociale, che tendono a condannare, giudicare, etichettare, come se fosse necessario ed obbligatorio giustificarsi e vergognarsi. La salute mentale è un diritto, quanto quella fisica. Per questo la consapevolezza di questa donna, insieme alla sua tenacia e determinazione a non demordere, ha lasciato dentro di me una traccia indelebile.

Jacopo Tomasi: Sicuramente la storia di Ida Dalser, compagna e moglie di Benito Mussolini, rinchiusa al manicomio di Pergine e morta a Venezia, è stata molto interessante da un punto di vista storico. Il lavoro dʼarchivio si è rivelato decisamente prezioso perché mi ha consentito di approfondire le dinamiche della segregazione del totalitarismo, dove la figura della donna appare completamente svantaggiata e subalterna. Ma anche la storia di Laura mi ha toccato nel profondo: mentre studiava allʼuniversità, ha vissuto una forte crisi di depressione che lʼha portata a lasciare tutto, arrivando a non uscire più di casa. A questa difficoltà Laura ha trovato la forza di rispondere: grazie ad una grandissima forza di volontà e alla capacità di chiedere aiuto, ne è uscita più forte di prima, riuscendo anche a terminare il suo percorso di studi in farmacia. La storia di Laura ci aiuta quindi a capire che la follia non è qualcosa di così lontano, come invece si tende a pensare: è un problema che ci può colpire molto da vicino ed inaspettatamente.  

foto 5Quali sono gli obiettivi del libro?

Katia DellʼEva: Narrare il tutto in maniera chiara così da essere fruibile da un ampio pubblico. Non volevamo realizzare un tomo difficile da comprendere e da interpretare, destinato ad un ambiente di nicchia. Siamo matte, se vi pareti lascia domande, punti di vista, voglia di approfondire e di non fermarsi alla superficie. Non a caso nella copertina, realizzata da Giuseppe Lenzone, è rappresentata una donna vista attraverso uno specchio rotto: tutti sappiamo il significato dello specchio nellʼimmaginario collettivo. 

Jacopo Tomasi: Il disagio mentale è un tema sul quale i riflettori si posano poco e male, anche se si tratta di una questione che andrebbe sviscerata e compresa nel profondo. Questo purtroppo non accade, perché lʼinformazione e la comunicazione sono spesso incompleti e deformanti, producendo di fatto una fotografia parziale e sfuocata della malattia mentale. Il nostro obiettivo è stato quindi quello di creare un libro agile, di 80 pagine, per avvicinarsi a questo mondo così complesso e delicato. Inoltre, fine centrale del libro è sicuramente quello di promuovere una visione nuova, non stereotipata, della malattia mentale. 

Quali possono essere i fruitori di Siamo matte, se vi pare? 

Katia DellʼEva: Sicuramente è un libro adatto a ragazzi e ragazze, grazie al linguaggio molto diretto ed immediato. 

Jacopo Tomasi: Mi vengono in mente due categorie: i giornalisti che spesso si trovano a scrivere di questi temi (ragione per cui Paolo Mantovan ha curato la postfazione del libro) e gli insegnanti, che sono il tramite delle nuove generazioni e che hanno il compito di sensibilizzare intorno a questo argomento.

 

Foto Alessio Coser 

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