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November 25, 2020

Hannes Peer, architetto di nostalgie utopiche

Allegra Baggio Corradi

Architetto e designer altoatesino, Hannes Peer è controricercatore di progetti e oggetti: per non annoiare, per produrre senso, per opporsi all’algoritmo con il supporto della “cultura, cultura, cultura”. Mosso da un sentimento che lui stesso definisce “nostalgia utopica”, Hannes predilige l’eclettismo in quanto crogiolo di strati, di sensi e di stili. Perché tutto è architettura. A lui la parola. 

Partiamo dalle tue radici, Hannes. Tu sei nato in Alto Adige, ma vivi da molto tempo altrove. Che legame hai con la tua terra natale?

Nei confronti dell’Alto Adige ho un fortissimo legame viscerale. Ogni ritorno a casa – perché nonostante i molti anni trascorsi altrove considero ancora l’Alto Adige tale – corrisponde ad un momento di calma interiore. La natura è l’elemento che differenzia il mio luogo di nascita dalla mia casa decisa e adulta che è Milano. Proprio a causa del mio amore per l’Alto Adige, sono anche molto critico della mia Heimat, ma la sua bellezza, nonostante alle volte venga scalfita e abusata, mi convince sempre a farvi ritorno e a portarla con me anche altrove. 

Quindi hai lasciato l’Alto Adige perché eri alla ricerca di qualcosa di diverso? 

Sì, avendo capito già all’età di dodici anni di voler intraprendere la strada dell’architettura, ho voluto seguire un cammino che potesse condurmi esattamente dove desideravo. La mia mamma, Ursula Huber, è artista mentre mio papà era un contabile e amante della natura. A posteriori, credo di poter dire che entrambe le attitudini dei miei genitori sono confluite in me e nella mia professione di architetto, tramite la quale armonizzo l’estro materno con il rigore paterno e la sensibilità per la natura.

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Dunque, da Bolzano ti sei trasferito a Milano per frequentare l’università e poi?

Terminato il liceo scientifico a Bolzano ho frequentato il Politecnico di Milano. Da sempre, amo immensamente la sfida perciò tendo ad andare incontro alle avversità capendo il motivo delle mie scelte durante e in seguito al completamento di certe esperienze. Per questo motivo, durante il quarto anno di università ho deciso di perfezionarmi a Berlino, dove, grazie all’insegnamento di un professore molto saggio, ho imparato ad osservare laddove solitamente il nostro sguardo rifugge. Le periferie, il kitsch e gli interstizi sono, così, entrati a fare parte della geografia non instagrammabile del mio quotidianoHo capito con il tempo che tutto ciò che non è esteticamente piacevole ha molte varianti ed insieme al bello genera l’opposto del monotono e del ripetitivo, dando vita ad una mescolanza molto fruttuosa di contrasti e strati di forme e significati.

Ma la svolta è avvenuta quando ti sei trasferito nei Paesi Bassi…

Senza dubbio. Solitamente gli architetti si sentono sicuri della loro pratica in una fase abbastanza avanzata della loro carriera, ma personalmente ho deciso di voler lavorare per il migliore sin da subito. È così che all’età di venticinque anni mi sono trasferito a Rotterdam per lavorare insieme a Rem Koolhaas. La mia esperienza biennale presso il suo studio è paragonabile ad una stratificazione perché tutti gli insegnamenti che ho tratto sono stati il risultato di giacenze di conoscenza che si sono sedimentate in maniera non univoca. Rem è un uomo che si annoia molto facilmente perciò ero alla costante ricerca di nuovi stimoli per soddisfare questa sua e, di conseguenza nostra, fame. Quando incontro i miei colleghi dell’epoca siamo in grado di ridere dei tempi di Rotterdam, ma la realtà è che l’esperienza era sì prolifica, ma anche traumatica. Gli standard di produttività richiesti erano a dir poco incredibili tanto che non di rado ho trascorso la notte in studio. È con estrema nostalgia che io e i miei colleghi evochiamo la brandina vicino alla macchinetta delle merendine al piano terra, sulla quale è capitato a tutti noi di dover dormire almeno una volta. 

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Che caratura ha acquisito la tua pratica di architetto presso Koolhaas?

Prima di tutto, ho imparato l’importanza della non univocità. Non essere noioso e ripetitivo è il mio massimo obiettivo poiché standardizzare e uniformare significa rinunciare alla personalità. 
In secondo luogo, la necessità per ogni architetto di non essere aleatorio o utopico, ma di optare per la concretezza e la funzionalità. Certo è che stabilire una connessione con il mondo del fare, ovvero con l’artigianalità, è alquanto complesso oggigiorno. Per ovviare a ciò, cerco di non rinunciare mai ad una componente artigianale nel mio lavoro, sia nella scelta dei materiali in ambito di decorazione d’interni che nella costruzione di render, plastici e prototipi in fase progettuale. Ahimè, i render non sono degli spazi, ma delle proiezioni che parlano di tutto fuorché di abitabilità e di coerenza. 

Questo ci porta al terzo punto ovvero la contro-ricerca. Per evitare di produrre simulacri identici a mille altri che passano ogni giorno di fronte ai nostri occhi su Instagram e altre piattaforme – e questo è uno degli insegnamenti principali che cerco di trasmettere ai miei studenti in NABA – è necessario fregare l’algoritmo. Nonostante la mia iniziale avversità, Instagram è ad oggi uno strumento molto importante per la mia ricerca. Tuttavia, gli algoritmi sono prepotenti e tentano di soffocarci, perciò, al fine di evitare di produrre dei luoghi rosa pallido, verdino e pastello, è necessario fare della contro-ricerca. Invece di proiettare un’estetica bisogna produrla, ovvero farla. In questo senso, mi è d’aiuto Joseph Beuys con la sua “cultura del fare”. Come figura, quella di Beuys è di grandissima ispirazione per me perché il suo operato è il contrario esatto del mercantilismo; il che ci porta all’ultimo punto, ovvero l’architettura come scultura sociale.

Non si può fare architettura senza prendere in considerazione il contesto. Paradossalmente, Koolhaas è noto per il suo motto “fuck the context” perché è sempre stato convinto di poter costruire senza curarsi di ciò che stava intorno ai suoi edifici. All’età di 70 anni ha dimostrato tutta la sua grandezza quando, avendo intrapreso dei progetti in Italia, ha ammesso il fallimento del suo diktat. Un ripensamento tale può avvenire solamente se vi è una grandissima consapevolezza culturale alle spalle, tale da provocare un sentimento di nostalgia alimentato da un’umiltà di fondo. 

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 Soffermiamoci proprio su questo punto, la nostalgia. Sul tuo account Instagram utilizzi spesso il binomio nostalgic utopia. Ci puoi spiegare cosa significa questo accostamento di concetti per la tua pratica di architetto?

L’hashtag #nostalgicutopia è il mio modo di suggellare l’idea che l’architettura non può essere un’utopia folkloristica. Il contesto è, in questo senso, centrale poiché solo maturando una frastagliata consapevolezza del contesto geografico e culturale all’interno del quale si inserisce tanto un’architettura quanto un oggetto, è possibile realizzare progetti dotati di senso. Nei paesi in cui i dubbi identitari sono molto pronunciati oppure laddove non vi è un senso di appartenenza marcato, l’architettura si fa espressione di un pensiero debole che sfocia nel folklore.

L’utopia nostalgica vuole, però, anche essere un invito ad abbracciare un certo eclettismo postmoderno in chiave culturale piuttosto che modaiola. Di recente mi è capitato di ascoltare un’intervista di Raf Simons e Miuccia Prada. Alla domanda “Di che cosa hanno bisogno gli artisti del futuro oggi per diventare come lei?”, Miuccia Prada ha risposto senza alcuna esitazione: “Cultura, cultura, cultura”. È tempo di lasciare da parte quell’Angst freudiana che inibisce la contaminazione a favore del purismo per iniziare a costruire nuove utopie guidati dalla nostalgica consapevolezza di ciò che è stato.

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E questo ci porta alla moda, un’industria per la quale hai lavorato frequentemente. 

Lavorando per la moda ho imparato a non aver paura. Abbandonando ogni remora e gettandomi in acque sconosciute, ho capito in che modo valorizzare i contrasti. I miei progetti di architettura con finalità retail facilitano l’immersione del cliente in un contesto che è al servizio del prodotto, non un monumento dello stesso. Lavorando a Roma, a Tokyo, a Milano e in altre capitali ho appreso l’importanza del rispetto per la storia del luogo. Confrontandomi con il neoclassico, il barocco, il rinascimentale non ho potuto fare a meno di venirne influenzato. Anche se sono un architetto, non sono mica fatto di calcestruzzo! 

Per il negozio del marchio italiano N°21 a Cheongdam in Corea del Sud, ad esempio, ho progettato uno spazio di 313 mq distribuiti su due piani. Il luogo è stato pensato come un magnete in quanto la facciata esterna interamente nera è inglobata organicamente nel contesto esterno, ma la sua energia è tale da attrarre necessariamente l’attenzione di chi vi gravita intorno. La simmetria del luogo dona ritmicità alla struttura, interpunta dalla presenza di oggetti sapientemente coreografati all’interno degli ambienti commerciali. I contrasti dominano: luce e ombra, moderno e storico, vetro e cemento, concretezza e barlume.

N°21 a Cheongdam è un esempio di come il mio lavoro cerchi di non essere autoreferenziale, ma il risultato di un dialogo tra me e il cliente che porta alla realizzazione di una scultura sociale. Solo attraverso la “cultura, cultura, cultura” si possono raggiungere simili traguardi poiché il qualunquismo, anche in architettura, si sconfigge solo con la consapevolezza del luogo e della funzione del progetto al suo interno.

OLYMPUS DIGITAL CAMERADando per scontato che ci sono delle differenze tra progetti a fini commerciali e altri con una destinazione d’uso privata, quali sono le discrepanze più evidenti tra la necessità di progettare uno spazio estro-verso che crei un’illusione di abitabilità e uno introspettivo destinato ad essere abitato?

Per rispondere a questa domanda mi vorrei riferire al progetto espositivo che ho curato per AD Interieurs l’anno scorso a Parigi. Il progetto intitolato “La Galerie Italienne” racchiude la forma e il contenuto del mio operato in quanto architetto, quasi fosse un manifesto incarnato, un’ipostatizzazione del mio pensiero reso fruibile ai sensi. Lo spazio per AD era scandito in tre ambienti, ognuno dei quali contribuiva in egual misura ad una riflessione sul rapporto tra architettura, decorazione e dettaglio. 

La stanza metafisica era goticamente stretta e alta. Un torso romano del II secolo a.C. in conversazione con un’opera di Ursula Huber, delle colonne di calcestruzzo, il soffitto color terracotta e il pavimento colorato sul quale si proiettavano le ombre dell’illuminazione disegnata da Max Ingrand per FontanaArte davano vita ad un ambiente pieno di pathos.

Dal vestibolo metafisico si era invitati a proseguire nella stanza veneziana, la cui altezza era la metà di quella precedente. Due sedie cinesi di fine Ottocento, una console in resina rossa e due lampade a guisa di petalo disegnate da me per SEM facevano da contraltare alle teste di vetro di Murano e il tappeto Art Deco di Nichols.

L’apice del percorso era contenuto nella stanza eclettica, scultorea e architetturale che si faceva scala, muro ricurvo e contenitore dello stile internazionale, soprattutto di ispirazione americana, che caratterizzò l’architettura e il design italiani nel dopoguerra. L’impronta di BBPR, il concetto spaziale di Arturo Vermi e Lucio Fontana, il divano di Valdimir Kagan, i totem di Jean Touret e la poltrona “Nuvola” designata da me per SEM popolavano un luogo di profonda intimità. Un basso rilievo del Partenone che richiamava il busto della prima stanza donava circolarità al percorso. 

Dunque, per rispondere alla domanda, direi che un progetto come quello per AD dimostra la possibilità per un’architettura pensata di coniugare elementi apparentemente distinti in chiave eclettica. Lungi dal pot-pourri o dal pastiche, la mia visione dell’eclettismo è radicata nel binomio nostalgic utopia e supportata dalla triade “cultura, cultura, cultura”. Di conseguenza, i legami forti che si possono forgiare in uno spazio destinato ad un uso privato sono gli stessi che si possono stabilire in un contesto commerciale. L’attenzione al dettaglio, le luci, la scenografia, l’installazione sono presente in ambe due, nonostante le finalità del luogo siano radicalmente divergenti. E questo perché tutto è architettura.

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Se è così, allora sono architettura anche i tuoi oggetti di design…

Assolutamente sì! Una delle domande che prediligo quando mostro un progetto ad un cliente è “Di che epoca è questo oggetto?”. Mi affascina lo spaesamento che le persone provano di fronte ad un oggetto che non ha epoca. In questo senso, mi piace operare come Frank Llyod Wright, cominciando da un punto focale intorno al quale costruire un intero ambiente piuttosto che il contrario.  

Quando vengo scelto in qualità di designer invece che come architetto è per la mia capacità di non creare oggetti carini quanto piuttosto dei depositi relazionali nello e con lo spazio. Sono abbastanza critico nei confronti del design contemporaneo in quanto nutro un’avversione per gli oggetti autoreferenziali, ombelicali e congestionanti. Avendo riscontrato più volte la carenza sul mercato di oggetti che si inserissero all’interno di ambienti da me progettati come architetto ho deciso di iniziare a disegnarli io stesso. Anche in questo senso sono molto breuyeriano poiché la mia pratica di designer muove da una necessità piuttosto che da un desiderio. 

Al momento collaboro con due aziende che come me, prediligono la contestualizzazione degli oggetti nello spazio e li rendono fruibili a costi accessibili. Insieme a La Chance e SEM disegno oggetti che non sono fini a sé stessi, ma sono in grado di abitare l’architettura e divenire tale essi stessi. Mi piace molto lavorare su aperture che rimangono traslucide così come amo collaborare con gli abilissimi artigiani italiani per conoscere i loro infiniti modi di modellare il marmo, la ceramica, il vetro e il legno. Affascinato dall’idea di poter penetrare la materia oltre che di declinarla, ho anche studiato falegnameria, potendo, così, costruire alcuni prototipi io stesso.

OLYMPUS DIGITAL CAMERACome ne La Galerie Italienne, per concludere torniamo all’inizio. Se l’ideale della tua Heimat è un Alto Adige che si nutre di “cultura, cultura, cultura”, quale è il tuo ideale di casa?

Senza alcuna esitazione, la mia casa-studio. Il mio appartamento-atelier è il mio rifugio, ma anche la sede di molti incontri. Ho cercato questo luogo per più di tre anni. Quando l’ho visto per la prima volta era suddiviso in più di venti stanze separate da moltissimi muri. Avendo letto tra le righe dello spazio sin da subito, ho abbattuto più di 50 pareti per dare vita ad un’abitazione su due piani, ariosa e luminosa. A partire da questa tabula rasa ho poi sviluppato uno spazio multifunzionale che incarnasse il concetto e la pratica dell’architettura che vado concretizzando nel mio lavoro.

La pianta della casa è un rettangolo diviso internamente in sei sezioni: un vestibolo, un salotto, un atelier, uno studio, una cucina e una camera padronale. I principi fondamentali del modernismo internazionale percolano l’ambiente, denotato da spazi aperti, soffitto piano, pareti in cemento, strutture a vista e alte vetrate. La decorazione d’interni è scandita in chiave coreografica, senza rinunciare all’intimità. Il cuore dell’abitazione è l’area comunicante tra atelier e studio. Da dietro il mio computer nello studio, posso sempre vedere il grande tavolo in legno al centro dell’atelier, eredità del mio nonno altoatesino. Organicamente, l’utopia nostalgica della quale nutro la mia pratica di architetto è concretamente presente all’interno dello spazio che abito e nel quale lavoro. La coerenza della cultura è foriera di senso e figlia del contesto.

 

Immagini: 
1. Ritratto di Hannes Peer, foto di Marco Bertolini
2. Hannes Peer per Nilufar, Milano, foto di Daniele Iodice
3. Hannes Peer per SEM, Poltrona “Nuvola”, foto di Delfino Sisto Legnani
4. Galerie Italienne, AD France, foto di Giulio Ghirardi
5. N°21 Cheongdam, Corea del Sud, credits Hannes Peer
6. Galerie Italienne, AD France, foto di Giulio Ghirardi
7. Hannes Peer per SEM, Milano, foto di Delfino Sisto Legnani
8. Atelier Apartment di Hannes Peer, Milano, foto di Giulio Ghirardi

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