People + Views > More

July 7, 2020

Zoom_12_Emanuele Masi: nell’Eden in punta di piedi

Cristina Ferretti

Emanuele Masi, nato a Trento, figlio unico e padre di due figli, ha studiato musica al Conservatorio di Trento e frequentato l’Accademia pianistica internazionale di Imola.

Da subito entra nell’organizzazione di festival e teatri fino ad arrivare nel 2002 alla Fondazione Teatro Comunale di Bolzano in occasione delle prime opere. Dal 2011 si occupa del Festival  Bolzano Danza e dal 2013 ne è il direttore artistico. Discreto, ma appassionato ha fatto della danza il suo stile di vita coinvolgendo la cittadinanza ad amarla anche fuori dai teatri. 

Qual è stata la sfida più grande, quando hai preso in mano la direzione del Festival Bolzano Danza?

Il Festival ha già una grande storia in Alto Adige. Non è solo un momento di spettacolo, ma è un periodo dell’anno in cui tutti gli appassionati di questa arte, hanno l’opportunità di divenirne protagonisti con la partecipazione a corsi esclusivi. Da Bolzano sono passati nomi storici, coreografi e ballerini internazionali.

Quel che mancava era trasportare lo spettacolo tra la gente all’interno di spazi inusuali. Come tutti le arti a volte spaventa, ma quando si ha la possibilità di interfacciarsi non si può non amarla. Di questo mi sono occupato all’inizio: della parte Outdoor del Festival. Ho coinvolto il cuore della gente. Abbiamo coinvolto gli anziani e li abbiamo portati sulla scena, con un progetto artistico. Abbiamo reso la danza e Bolzano di nuovo protagonisti.

Festival, danza e Covid, che periodo è stato per te?

Nelle prime settimane del lockdown avevamo chiuso il programma e con ottimismo pensavo di fare il festival come era stato progettato. Con il prolungarsi dell’isolamento invece, abbiamo capito la grande responsabilità che avevamo e che saremmo andati avanti nell’attesa di capire quali pezzi del festival potevamo ancora tenere in piedi. Per me era chiaro che il festival sarebbe rimasto in piedi con i progetti più piccoli e con compagnie che non vengono da lontano. Piccoli spettacoli o duetti fatti da marito e moglie.
All’inizio ideare un progetto culturale di questo tipo sembrava difficile ed anche un controsenso. I limiti Covid sembravano i muri del festival. Poi, ho capito che le limitazioni dettateci dalla pandemia potevano essere la base su cui costruire il nostro progetto: EDEN.

Da alcune settimane ha presentato l’edizione 2020, cosa dobbiamo aspettarci?

Tutti noi conosciamo le regole che dobbiamo seguire in tempi di Covid. Se le leggi la prima volta e lavori nel mondo dell’arte e dello spettacolo ti crolla il mondo addosso. Le limitazioni avevano sempre la parola chiave “distanza” e “singola persona” e da questo abbiamo pensato di dare la possibilità ad uno spettatore vivere da solo questa esperienza nel teatro. Abbiamo esasperato la visione dei limiti: un nuovo incontrarsi tra persone che non si sono viste per tanto tempo. Lo spettatore e il palcoscenico. In una distanza che diventa simbolica, ma anche rappresenta la riappropriazione dello spazio del teatro. E simboleggia la tenacia e la passione che ogni artista porta con sé nella sua professione.

Il festival si condensa in un unico progetto, che diventa estraneamente ristretto, ma infinitamente dilatato. Per 450 volte lo spettacolo si ripete e 450 singoli spettatore ne fruiscono. È un momento poetico: come il primo incontro tra gli esseri umani. La sorpresa di trovare un essere come te. EDEN è stato visto come un rito di passaggio ed un rito del ritorno al ritrovarsi. Abbiamo chiesto ai coreografi di creare un’idea per la necessità che viviamo.  Questo progetto ovviamente è di grande valore fatto adesso, fra sei mesi ci sarà una nuova normalità nella quale potremmo muoverci. Anche per il futuro dobbiamo ancora capire di che cosa ci sarà bisogno e cosa bisogna vedere per poter celebrare la normalità.

Come siete arrivati ad avere l’approvazione delle Istituzioni locali?

Il dialogo con l’istituzione è stato ricco in tutte le direzioni. Abbiamo comunicato tanto con le istituzioni del territorio, oltre che a livello nazionale ed internazionale. Ho partecipato a delle conference call con operatori a livello mondiale per capire ed avere delle idee. Non eravamo giocatori solitari, il mondo digitale ci ha permesso di sentirci parte di un mondo culturale comune. Le complicità nate in questo periodo potranno spero, dare vita a delle collaborazioni future.

Il dolore più grande di questa primavera qual è stato?

Nelle ultime settimane si è sbloccato tutto. Ma nei momenti più bui la cultura e la scuola sembrava fossero superflue e sacrificabili. È una ferita che ci metterà del tempo a chiudersi, è un danno enorme che è stato inflitto a tutta la cultura italiana. Su questo dobbiamo riflettere. 

Come vedi l’Alto Adige?

C’è troppo orgoglio di fare le cose da soli. Voler inventare, essere i primi e snobbare gli altri. Ma molto spesso queste cose ci sono già. Invece bisogna prendersi il tempo di guardare, osservare se altri hanno già avuto l’idea. Capire come hanno fatto e comprendere come poter fare meglio partendo da li.  Vi è una grossa perdita di risorse che si potrebbero investire per fare lo scatto della punta di diamante.

Bilinguismo e cultura, hanno ancora senso?

Ma di quali lingue stiamo parlando? L’inglese è la prima che dobbiamo parlare, quale rappresenta per noi qui la seconda?

Ha ancora senso lo sdoppiamento del nostro sistema? 

Certo, può essere deleterio perché chiude i due gruppi linguistici. D’altra parte, è una risorsa che porta più punti di vista. Il Teatro Stabile fa una bella sintesi tra circuito e promozione nazionale e la creazione di opere originali.  Manca però un coordinamento centralizzato, che forse anche non si è voluto. È al contempo però garanzia di pluralismo. La vera domanda è chi fa le politiche culturali in questo territorio? E chi può farne la sintesi?

Come relazioni lo spettacolo dal vivo e lo sviluppo digitale?

Sto ragionando molto sul digitale. Il digitale ha due declinazioni: uno sono gli strumenti digitali, che sono solo dei mezzi. Quando parlo di sviluppo intendo invece quello del prodotto artistico. Deve corrispondere alle necessità degli artisti e deve aprire un ulteriore parte del teatro nel quale  sperimentare. Che spazio c’è ancora per l’evoluzione digitale che non si collochi solo nell’evoluzione spettacolo, ma si metta a disposizione per essere un’esperienza nuova, come la virtual e sensorial reality? Lì potrebbero nascere delle nuove risorse. 

Che valore ha oggi Bolzano Danza in Alto Adige?

Può sembrare una banalità, ma è un linguaggio che va al di là delle lingue. È stata una delle prime manifestazioni che ha unito le comunità. Questo è ancora oggi una risorsa. La danza è un’arte che permette a chiunque da fuori di portare delle idee diverse. Di venire e contaminare. Qualsiasi buona idea di danza la può mettere a disposizione della comunità: che vengano dall’India, dall’Africa o dal Giappone.

Cosa l’Alto Adige non ha avuto ancora il coraggio di fare?

L’Alto Adige non riuscirà a esprimere le sue potenzialità finché le scuole rimarranno linguisticamente divise. È una grande risorsa non utilizzata. Chiunque venga a Bolzano da qualsiasi altra nazione ci guarda allucinato come se fossimo degli afrikaans degli anni ’80.

Progetti per il futuro?

È un grande sfida. Dopo questa fase iperbolica non so come potremmo organizzarci.

 

Foto Emanuele Masi  

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.