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May 18, 2020

Maximilian Pellizzari e il suo sguardo in equilibrio tra i confini

Francesca Fattinger

 (…) das fenster aus dem wohnhaus,
schaut hinaus, durchs fenster hinein ins haus, die tür zur straße zu und zu weit weg,

doch das fenster ist auf der straße.
fenster für licht und luft im inneren,
mach das fenster auf, laß herein was draußen ist, ein bisschen draußen im drinnen. 

Questo estratto dalla poesia “fensterevolution unter quarantäne” dell’artista Thomas Simeaner prende spunto dalla performance di Maximilian Pellizzari “White Flag”, ma descrive molto bene anche lo sguardo dell’artista stesso. Un artista, ma in primo luogo, una persona, che cammina in equilibrio sui limiti, osserva con attenzione oggetti, linguaggi e corpi per indagarli, ripensarli, interrogarli, interrogarsi e interrogarci. Occhi curiosi, sguardo attento, sempre in ascolto di chi entra in relazione con lui, chiunque esso sia, perché questo fa parte di come si rapporta con la vita e con gli altri. Per questo il suo atteggiamento nei confronti di cose e persone entra spontaneamente nella sua pratica artistica come prosecuzione naturale delle sue ricerche quotidiane. Azioni, opere e interventi i suoi sempre di carattere politico, ma di una politica del quotidiano che parte “dal modo che ognuno ha di rielaborare ciò che avviene esternamente e di posizionarsi in un sistema di relazioni che richiede delle scelte ben precise”. Ci siamo confrontati insieme su alcuni suoi lavori ed esaminato a lungo i suoi interessi, qui sotto trovate il risultato di questa discussione.

Una bandiera bianca sventolata a una finestra aperta per 30 minuti, chi la muove ha gli occhi chiusi, un’immagine di resa quotidiana ma anche di necessari ripensamenti. La quarantena causata dall’emergenza covid-19 ci ha messo di fronte a quesiti complessi, su temi come la libertà personale o la natura delle interazioni sociali, sconvolgendo la nostra quotidianità. La tua risposta ha assunto la forma della perfomance White Flag. Molto spesso nei tuoi lavori si assiste alla messa in scena di un confine: in questo caso ti collochi al limite tra spazio pubblico e privato. Vuoi raccontarcene di più?

In questo periodo abbiamo notato come lo spazio pubblico sia diventato agibile esclusivamente per la sussistenza. Questo ha cambiato il nostro modo di rapportarci allo spazio della città come anche allo spazio domestico. L’azione che ho proposto in questa occasione nasce dal desiderio di comunicare e di non arrendersi in silenzio. Ho voluto portare una condizione interiore all’esterno. Vorrei camminare in equilibrio su un limite senza aver paura di sbilanciarmi, ripensando il limite stesso o ciò che consideriamo tale. Alla fine dei 30 minuti gli occhi vengono aperti per altri 5 minuti, ma la bandiera viene tenuta ferma. In questo momento è importante affrontare ciò che abbiamo davanti. Aprire gli occhi e riconsiderare ciò che ci circonda.

2_ButterHouse_2018_MaximilianPellizzari

A proposito di confini o meglio della loro messa in discussione, lo stesso accade anche nel tuo utilizzo di diversi linguaggi, che si mescolano, amalgamano e compenetrano, a cavallo tra fotografia, scultura e performance. A tale proposito risulta interessante il caso di Butter House (2018) e di Bright (2018). Due lavori che si sfiorano e che mettono in luce la tua idea di pelle come membrana permeabile, in cui le esperienze vengono impresse e trattenute. Hai voglia di raccontarci un po’ di più di questi due progetti?

In entrambi i casi ho scelto di utilizzare materiali effimeri, alimenti che vengono incorporati dall’uomo. In questi solidi vedo una memoria del minimalismo, ma sono anche materiali che hanno delle implicazioni, storiche come culturali. La pelle porta le tracce del nostro operare, trattiene, espelle, mostra i segni del passare del tempo e delle esperienze vissute. Attraverso la pelle ci rapportiamo al mondo. Mi piace pensare che quando due dita si toccano, in realtà si respingono. Ciò che sentiamo è la forza che ci respinge l’uno dall’altro.

6_Bright_2018_detail_MaximilianPellizzari

Tra i tuoi nuclei di interesse più forti, indichi in particolare l’arte relazionale e la pittura. Mi piacerebbe parlare di alcuni tuoi lavori video, The Smell of Cold (2017), Closed Eyes (2017), Bench (2019), dove solleciti interazioni e risposte, non trascurando una dimensione quasi pittorica. In che misura per te è importante riflettere sulla natura e la struttura delle relazioni tra individui e in che modo questo si collega alla dimensione politica dei tuoi lavori?

Mi interessano momenti di surrealismo, interazioni inaspettate e confronti tra diversi sistemi, naturali come sociali e tecnologici. Il politico per me ha origine nel quotidiano, dell’agire confrontandoci con l’ambiente nel quale viviamo. Vedo una forma di politica che parte dall’individuo, dal modo che ognuno ha di rielaborare ciò che avviene esternamente e di posizionarsi in un sistema di relazioni che richiede delle scelte ben precise. Come scegliamo, come agiamo e come ci rapportiamo alle nostre azioni e alla concezione del mondo può avere effetti sostanziali nel rapporto con gli altri. In termini di libertà individuale questo può comportare attriti, ma sono forse necessari per continuare a ristabilire il nostro coesistere e riposizionarci nel grande sistema di relazioni nel quale abitiamo. Il concetto di habitus, coniato da Bourdieu, è un termine che descrive comportamenti e idee che si ripresentano negli individui in società. Riconsiderare i nostri pattern di pensiero e di azione per stimolare una crescita collettiva in questo momento storico è fondamentale. Perchè ci siamo resi conto che abitare uno spazio richiede delle azioni e delle responsabilità, dunque è politico. Con Bench (2019) per la prima volta ho diretto una performance non annunciata nello spazio pubblico. La documentazione video è stata realizzata dal sesto piano di un edificio, in modo da evitare la presenza della videocamera nel raggio visivo dei passanti. Mi ha poi fatto riflettere sulla sorveglianza, sullo spazio pubblico che è anche uno spazio del controllo, sulla domesticazione della natura nello spazio urbano e sulle modalità della comunicazione tra persone.

3_Bench_2019_MaximilianPellizzari

C’è nel tuo sguardo anche un interesse particolare per gli oggetti nelle loro caratteristiche più archetipiche. In che termini?

Di questi mi interessano le forme e le rispettive funzioni, non come indagine esteriore, ma per indagare le loro strutture. Spesso gli oggetti sono delle idee, che esistono in termini astratti prima di essere concreti. Nella banalità di queste forme, trovo una chiarezza assoluta e provare ad analizzarle attraverso degli spostamenti di senso e di funzione può portarci a capire quali sono le forme che abbiamo interiorizzato. Gli oggetti ci parlano, indicandoci come rapportarci ad essi. Si legano al nostro corpo organicamente e ci permettono di agire in un determinato modo, un concetto che Gibson chiamò affordance. Un esempio di questo “invito all’uso” può essere la maniglia, che ci indica come afferrare una tazza e come aprire una finestra. Se proviamo a cambiare le modalità, anche fisiche, entro le quali ci rapportiamo agli oggetti e dunque allo spazio, possiamo creare delle nuove forme di interazione tra persone.

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Infine, sotteso a molti dei tuoi progetti c’è un interesse rivolto alle modalità di comunicazione e a sondarne limiti e capacità nell’utilizzo di diversi linguaggi tra il corporeo, il tecnologico e il visivo. In questo senso potremmo concludere l’intervista con un accenno all’opera Paradiso I (2018).

Paradiso I è l’inizio di un progetto che prosegue da due anni, con un’attenzione rivolta alla proliferazione di immagini nell’era post-internet e alla nostra costante esposizione ad esse. Credo che quella che stiamo vivendo possa essere considerata una vera e propria rivoluzione linguistica, al centro della quale si trova l’immagine. Con quest’opera ho messo a confronto le parole del primo canto del Paradiso di Dante Alighieri con il primo risultato di ciascuna parola cercato su Google Immagini. In questo modo si apre uno spazio sospeso dove i significati delle parole si confrontano con delle immagini spesso fuorvianti, creano dei cortocircuiti di senso che a volte sono delle aperture di significato. Questo tipo di traduzione, confronta da un lato due momenti nello sviluppo della nostra lingua e, dall’altro, propone di mostrare il momento di transizione dalla linearità della scrittura a una spazialità e ad una ipertestualità dell’immagine nel digitale. 

5_ParadisoI_(detail)_2018_MaximilianPellizzari

White Flag, 2020. Photo: Tiberio Sorvillo. courtesy l’artista
Butter House, 2018. courtesy l’artista
Bright, 2018. detail. courtesy l’artista 
Bench, 2019. still from video. 7’22’’. performers: Federico Pontarollo, Daniele Corbari Verzeletti. courtesy l’artista
We Have to Talk, 2019. Foto: Tiberio Sorvillo. Presented during Temporary Lovers, an exhibition and workshop by Parasite 2.0, curated by Emanuele Guidi. ar/ge kunst. courtesy l’artista. 
Paradiso I, 2018. detail. programmer: Romeo Bellon. courtesy l’artista. 

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