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April 12, 2020

Michele Parisi e la geografia dei ricordi

Francesca Fattinger

I giorni sembrano ripetersi tutti uguali, alla ricerca di uno spiraglio di luce, di nuovi sguardi, di nuovi incontri. L’arte ci aiuta in questo, soprattutto se raccontata con così tanta passione e cura nella scelta delle parole, come in questa conversazione con Michele Parisi. Proseguo nel farvi conoscere artisti trentini che ci rendono orgogliosi in Italia e oltre e che generosamente aprono la porta del loro mondo facendoci toccare la loro “geografia dei ricordi”. Michele ci invita a riflettere assieme a lui e a tuffarci nella sua arte, parlandoci della “pittura come di un malessere che restituisce bellezza”: il suo processo artistico sembra quello di un poeta cacciatore di orme e impronte del reale tra ricordo soffuso e quotidianità. Leggete che cosa ci racconta.

E cercare niente era quello che volevo-ozio_2018-115x180_cm

Passato e presente, oblio e memoria, resistenza e trascendenza sono parole che le tue opere sembrano evocare. Che valore hanno per te e in che termini le vedi associate alla tua estetica?

Bisogna fare delle opere che quando te ne vai ti deve dispiacere”. Tra le mie carte, giace ancora questo appunto scritto a matita, assieme a tanti altri. È la sensazione di quello che ricerco con il mio lavoro. Sa di pretenzioso, le opere le dipingi innanzitutto per te stesso, la pittura è ciò che non ti fa dormir la notte, che non ti fa andare in vacanza, che ti rende addirittura scontroso con le persone. Scontroso perché hai fallito con un dipinto. E come fallisci… La pittura ti porta tante volte in sentieri che non volevi percorrere, ti porta a sbagliare in continuazione, a buttare via molte cose. Questo stato di ansia lo senti ancor prima di iniziare, prima ancora di avere le idee chiare. Di quello che cerchi sai molto poco, ma sei spinto dal desiderio, dalla “febbrilità” del lavoro, per avvicinarsi, e mai raggiungere, quella sensazione di dispiacere quando ti chiudi la porta alle spalle per tornartene a casa, mentre l’opera rimane in studio. Come mi è capitato di affermare in una precedente conversazione “la pittura è un malessere che restituisce bellezza”. Sono molto legato alla parola “restituzione”.
Negli anni ho sentito la necessità di sostare tra vecchie biblioteche, tra chiostri e giardini, tra stanze assopite e luoghi assolati. Tutti luoghi trasudanti di antiche memorie e abbandono, luoghi che, a malapena, sopportano i nostri sguardi. Ho iniziato a disegnare e a scrivere, cercando di cogliere qualche essenza nascosta, qualcosa che mi era da sempre sfuggito. Forse influenzato e attirato da opere antiche, da racconti letterari sentivo non ancora esaurite le possibilità della pittura.

Come se chiedessi all'oriente se avesse un mattimo per me-gypsotecha_2019_27x40_

Ho cercato di costruire una sorta di atemporalità nelle mie immagini, volevo qualcosa di “fermo e monumentale”, dove la consequenzialità non esistesse più, dove nessun elemento avrebbe potuto stabilire una cronaca. Non ci sono figure, non c’è attività, solo luci e ombre, come un ricordo confuso. Penso che i miei lavori si possano definire come una sorta di “geografia dei ricordi”. Infatti il lavoro nasce con degli incontri iniziali con il soggetto, con lo studio, sulla tela confluiscono tutti assieme, stratificandosi assieme a letture, pensieri e parole. Di tutte le cose rimane il ricordo, spesso questo si confonde con altri, si sovrappone o addirittura si inventa. Il ricordo è tale fino a quando vive nel ricordo degli altri. Con la pittura tento di esorcizzare questa perdita nell’oblio, come ogni essere umano ha bisogno di una abitudine per sopravvivere.

Tra la scrittura, la fotografia – che è anch’essa una scrittura attraverso la luce – e infine la pittura: la tua arte fonde i linguaggi, li mescola per ottenere un ulteriore personale mezzo espressivo. Ci racconti come lavori?

La pittura è il luogo della memoria, una raffigurazione di un ricordo dove il silenzio non tace. Rappresentare significa sostituire qualcosa di presente a qualcosa di assente e questa sostituzione la ottengo realizzando, con una lastra fotografica, un calco di luce. Il negativo ottenuto è l’impronta della sua immagine, e per avere un’impronta significa che doveva esserci qualcosa a generarla. Tutto questo lo ottengo lavorando in camera oscura, dopo aver fatto le riprese nel posto ovviamente, riprese che possono durare anche molto tempo. La camera oscura è il luogo dell’orma; generando a mano l’immagine, questa subisce le prime trasformazioni e interventi per poi trasferirla sulla tela, che accoglierà la pittura. Ad ogni passaggio l’immagine subisce una metamorfosi, ogni passaggio è accadimento di un intervento, il calco ottenuto è una lieve traccia, una effimera testimonianza del processo: di tutte le cose rimane il ricordo. L’impronta si confonde in seguito con la pittura. La pittura ripercorre l’intera superficie, reinventa parti, inventa luci e atmosfere. Proprio come quando si cerca di rievocare un ricordo lontano, non si ha nella mente un’immagine nitida ma qualcosa di confuso, dai contorni sfumati, e dai colori incerti. Sfuocare con il colore l’immagine per renderla ancora più distante, si avvicina a una frase letta molto tempo, che fa più o meno così: “spesso veniamo a trovarci molto vicino al limite del ricordo, senza tuttavia riuscire a ricordare effettivamente”.

Oblio-Palmira_2016_collVaf-Stiftung_170x330Tra le tue mostre passate ce n’è qualcuna che hai particolarmente a cuore e che ci vuoi raccontare?

Nel 2014 ho realizzato un progetto per la Paolo Maria Deanesi Gallery di Trento. In quell’occasione ho voluto realizzare un’installazione che mostrasse la mia pratica, che spiegasse la costruzione e la genesi di un’immagine. Parlo di questo progetto perché alcuni mesi fa ho sentito la necessità di replicarlo. Si intitolava Impressing lights e ho preso come soggetto la decorazione a stucco del soffitto della galleria. Quattro camere ottiche su piedistallo, direzionate verso la decorazione, catturavano, grazie alla luce, un dettaglio dello stucco, facendoli diventare frammento, immagine latente. Alle pareti una serie di lavori restituivano in chiave pittorica, mediante gelatine fotosensibili e la pittura ad olio, tali frammenti. Il visitatore poteva osservare come il dato reale del soffitto si trasformasse in frammento attraverso la camera ottica, e come questo avesse generato la pittura posta alle pareti.

Impressing Lights 2014 deanesi gallery trento

Questa mostra mi ha permesso di fare i conti con la mia pratica pittorica, concettualizzando maggiormente il mio lavoro, mi ha permesso di confrontarmi con uno spazio fisico, uscendo dall’oggetto quadro e anche di fare un ritorno più consapevole all’immagine. Infatti prima, pur lavorando con gli stessi mezzi e tecniche, avevo un lavoro rivolto verso l’astrazione. Questa mostra è stata anche la prima personale in questa galleria ed è con questo progetto che si è consolidato il mio rapporto con essa.

Ultime domande che ci ricollocano nell’attualità: come stai vivendo la situazione odierna e come passi le tue giornate? Ci sono progetti a cui stai lavorando? Qual è, secondo te, in questo momento difficile, il ruolo dell’arte?

Chi come me ha lo studio fuori casa, si trova ad affrontare le giornate senza poter lavorare, senza poter avere quella distrazione quotidiana della pittura e del lavoro. L’odore dello studio era il miglior incontro quotidiano. Tutto è rimasto là, fermo e immobile, così come sono rimasti fermi i progetti e le mostre, ma non i pensieri. Sto affrontando la quotidianità disegnando molto: nulla dies sine linea come diceva Plinio. Ho anche iniziato a realizzare una cartella di piccole opere su carta, con quel poco di materiale che ho con me. Sono dei lavori che, in qualche modo, narrano di questi giorni. Ho scelto di farlo più per necessità che per qualcosa di concreto. Può essere che non porterò mai a termine queste carte, ma quotidianamente ci dedico del tempo, anche solamente sedendomi sulla sedia per guardarli appesi alla parete.
Per quanto riguarda i progetti, ho inaugurato il mese scorso una mostra collettiva presso l’Area 35 Art Gallery di Milano, una mostra intitolata Grey Street, a cura di Gabriele Salvaterra. La mostra, per motivi che tutti conosciamo, è stata inaugurata virtualmente. E’ visitabile in rete, mediante un portale 3d, che ti permette di percorrere gli spazi e di avvicinarsi alle opere. Avrei inoltre dovuto inaugurare, sempre in quel periodo, una personale alla Deanesi Gallery di Trento, e spero di poterlo fare al più presto. Altri progetti e mostre sono in programma per l’autunno e mi auguro di potermici dedicare almeno durante l’estate. L’arte vive un momento di difficoltà per quanto riguarda il mondo delle gallerie e dei musei: per ovvie ragioni, senza un pubblico, senza le inaugurazioni e gli eventi è un mondo apparentemente bloccato. Musei e gallerie hanno messo a disposizione materiale da consultare, opere da vedere, spazi da percorrere. In rete si possono assistere ad appuntamenti quotidiani con l’arte, insomma, credo che tutti si stiano dando da fare in qualche modo. Manca l’aspetto fisico dell’arte, fatico a continuare a immaginare l’assenza di questo aspetto, ho bisogno ancora di toccare: sento dunque sono, citando Kundera. L’arte si prende cura degli occhi degli altri.
Sono dell’idea che ci sia una gran voglia di ripartire, di tornare a frequentare le mostre, le inaugurazioni, di tornare ad avere scambi: tutte cose di cui, da un po’ di tempo, si percepiva un clima assopito. Colpa credo di uno sguardo assente e indigesto per atrofizzazione da social, da sovraccarico di immagini e stimoli visivi.

Mi piacerebbe concludere questa chiacchierata con una frase di Louis Aragon che dice “io penso che nel mondo delle foglie ci sia, in fin dei conti, abbastanza voglia di scherzare”.

 

Foto courtesy of the artist
Al buio divento parole_2019_81x11
Come se chiedessi all’oriente se avesse un mattimo per me-gypsotecha_2019_27x40_
E cercare niente era quello che volevo-ozio_2018-115x180_cm
Oblio-Palmira_2016_collVaf-Stiftung_170x330
Impressing Lights 2014 deanesi gallery trento

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