Culture + Arts > New Media

February 18, 2020

Le Drifters si raccontano:
tra esplorazioni digitali e reali

Francesca Fattinger

Che bello rincontrare le Drifters (aka le artiste Valentina Miorandi – trentina – e Sandrine Nicoletta) e che bello vedere come i loro progetti si siano rafforzati e trasformati in questi anni. La forte anima che le caratterizza di camminatrici alla deriva, in ascolto di sé e di ciò che le circonda, è stata mantenuta, se non addirittura espansa: quel fuoco che vive in ogni loro progetto, quella voglia di esplorarsi ed esplorare, intrecciare relazioni e conoscere luoghi e persone, guardarle negli occhi, toccarle e farsi toccare attraverso tematiche estremamente attuali ed urgenti, rendendo i loro sguardi i veri protagonisti dei loro processi creativi. In mezzo a una tecnologia che ci offusca la vista, nebbia fitta e ammaliante, le Drifters ci svegliano e ci mostrano come tematiche virtuali e reali siano inscindibilmente intrecciate e necessitino di attenzione e azione. 

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Valentina, Sandrine, i vostri sono progetti sempre a cavallo tra una dimensione di esplorazione personale e una più ampia intrecciata a quella dei luoghi. In questa direzione si sta sviluppando anche la vostra proposta di visitare i luoghi che abitate un po’ da drifters, andando cioè alla deriva in camminate personalizzate fatte su misura. Da dove è nata l’idea, ce ne volete parlare un po’?

L’idea è nata attraversando i templi di Angkor Wat, dove ci siamo incontrate nel 2014. Ancora oggi la maggior parte delle nostre idee nasce quando camminiamo, diciamo che è il nostro momento meditativo e di ispirazione. Drifters nasce dalla voglia di intrecciare percorsi, in primis le nostre due vite, le nostre poetiche, le nostre ricerche. Come quando due isotopi formano una molecola, e questa inizia a muoversi e ad innescare relazioni con luoghi e persone dando vita a composizioni inaspettate.
I nostri percorsi possono essere narrativi ed espositivi in uno spazio ma anche vere e proprie camminate performative. Per esempio il progetto di camminate made-to-measure che facciamo per il nostro pubblico, usa le città in cui viviamo (Londra, Nizza, Trento, Palermo) come laboratorio in cui proponiamo un percorso personalizzato di scoperta e di indagine del luogo, dove la performance, la poesia si alternano a momenti situazionisti affrontando tematiche contemporanee su cui si basa la nostra ricerca artistica.

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Il nostro è un rincontrarci, perché nel 2015 vi abbiamo già intervistate, in occasione della mostra Avventure Alpine Non Euclidee. Ad oggi cosa è cambiato, cosa è rimasto, quali sono i nuovi progetti all’orizzonte?

Tutto cambia, tutto si trasforma e tutto non è qualsiasi cosa…
Nel nostro procedere si sovrappongono sempre più livelli e più realtà. Lavoriamo in analogico e digitale utilizzando vari media. Ci piace anche giocare con il nostro pubblico spingendolo a compiere azioni, esperienze e talvolta coinvolgendolo nella creazione artistica.
Avventure Alpine Non Euclidee è una mostra che racconta del procedere umano, poi abbiamo concepito Klinikè (in greco, porsi verso l’altro per comprenderlo meglio) che esamina attraverso la pelle la sensibilità di esseri umani, androidi e smart cities che ci percepiscono e accarezzano con qualche brivido… Con il nuovo ed inedito progetto Current Status: Sorry, ci stiamo interrogando su che cosa vogliano dire oggi le parole intimità, privacy nel tempo dei social media, new media e della digital security.

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Cos’è per voi fare arte pubblica? Ma esiste davvero un’arte che non sia pubblica?

Da alcuni anni sviluppiamo progetti di cinema-partecipato con diverse comunità. Sono dei progetti cinematografici sperimentali che partono da un canovaccio molto scarno che poi si espande a seconda delle persone che vi partecipano. Procediamo in maniera euristica e creiamo l’opera che è frutto di un percorso vissuto insieme affrontando tematiche da noi portate che si intersecano con quelle legate al substrato di appartenenza che ne contiene gli elementi base ma anche le urgenze. Il film viene poi montato da noi sovrapponendo narrazioni, improvvisazioni, mondi virtuali. Ciò che si crea è un’opera corale in cui chi partecipa si sente parte dell’opera d’arte che gli appartiene. I film vengono poi proiettati in grandissime dimensioni nei luoghi stessi dove la comunità abita o lavora, creando un sentimento di partecipazione, condivisione e sorpresa molto forte. Diciamo che è un percorso simile a quello delle nostre camminate ma in un’altra forma.

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Il vostro è un atto di resistenza e di lotta in una società sempre più veloce, più superficiale, più autoreferenziale. Come si fa a lottare senza essere risucchiati da un sistema così vorticoso? C’è nel vostro uso della parola come “protesi”, incorporata e situata, una sorta di tentativo di aprire una strada alla consapevolezza?

Sì, per noi l’arte come i sogni sono delle “protesi”, senza le quali non riusciremmo ad arrivare a percepire certe cose che ci appartengono, che siano fisiche o astratte.
Il tempo, sempre più vorticoso, è decisamente legato all’accelerazionismo tecnologico che ci distrae e inebria gettandoci in pasto a nuove forme di controllo di cui non siamo affatto consapevoli. L’ironia e la natura sono i nostri migliori compagni per mantenere la giusta distanza, che ci permette di rimanere “sveglie” e compiere prolifici atti di disobbedienza.

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Fotos by Drifters 

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