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January 24, 2020

Rinchiusa – Come Agnes Schwienbacher ha ripreso in mano la propria vita

Mauro Sperandio

Un’attività a cui tutti siamo più che allenati è quella del giudicare. Camminando per la strada, dopo un rapido sguardo, dispensiamo a chi ci viene incontro inappellabili etichette: bella, brutta, poco curato, elegante, simpatico, indisponente. Giudichiamo le nostre conoscenze, con più facilità quando le qualità sono negative, spesso semplificando le questioni che le riguardano. Di ciò che sta dietro il disagio altrui non sempre ci importa.  In una realtà che la politica, la religione e la pseudo-morale hanno reso sempre più manichea, affondiamo il coltello che divide il buono dal cattivo, il giusto dall’ingiusto e il bello dal brutto.
La storia di Agnes Schwienbacher è quella di una donna che entra nella spirale della tossicodipendenza, finisce in carcere e ritorna alla vita di tutti i giorni nuovamente padrona del suo destino. Il suo Rinchiusa, uscito da pochi giorni per i tipi di Raetia, editore che non risparmia certo energie su temi importanti, offre al lettore un racconto coinvolgente, lucido e profondo, ma allo stesso tempo pratico, d’azione, come la stessa Agnes. Tra immagini di profonda umanità e solidarietà, non mancano le giuste riflessioni su un sistema carcerario che è ancora lontano dall’assolvere pienamente la sua funzione rieducativa.
Un libro da leggere senza preconcetti, non per ricavare certezze, ma per scoprire alcune importanti sfumature della vita.

Incontriamo Agnes Schwienbacher per parlare della sua esperienza:

Spesso siamo tentati di semplificare la realtà. Il tossicodipendente è brutto e cattivo, qualcuno che se la è cercata. Tu che hai vissuto questa realtà di persona, cosa puoi raccontare?

È un tema delicato. Io posso raccontare della mia vita e di quell’esperienza pietosa che sono stati i miei tre anni da tossicodipendente di tre anni, un abisso. L’espressione “brutta e cattiva” non mi piace. Io non mi sono sentita cosi. Ho fatto male a me stessa. “Uno se l’è cercata”, mi sembra una frase troppo comoda e semplice da dire. Le cause e le colpe che possono far cadere una persona nella tossicodipendenza possono essere tante e diverse. Di solito c’è discrezione nel parlare di dipendenza dagli stupefacenti, a meno che una persona non ne parli in prima persona.

L’inizio della tua tossicodipendenza risale ai tuoi quarant’anni, quando avevi già quattro figli, un lavoro e una certa serenità. Cosa cercavi nella droga?

Più che la ricerca di qualcosa in particolare, tutto è nato per aver sottovalutato un grande pericolo. Ero convinta di poter provare quest’esperienza, venendone fuori quando volevo. Ho conosciuto un ragazzo tossicodipendente, per mantenersi venne anche a lavorare nel maso che gestivo all’epoca. Cercai di aiutarlo e, un po’ per sfida e un po’ per curiosità, volli provare. Non avrei fatto male a nessuno, mi dicevo, e per questo ero libera di farlo. Lui e i suoi amici, di cui feci la conoscenza, cercarono di dissuadermi, ma io credevo di essere più forte e diversa dagli altri. Sbagliavo. Diventai presto dipendente.

Penso alla tua passione per la musica, per l’arte, per la natura, per i più differenti lavori manuali, alla voglia di imparare che si nota leggendo le pagine del tuo Rinchiusa. Senza assolutamente giustificare questa tua “parentesi-tossica”, possiamo dire che tu sia curiosa della vita, in tutte le sue anche spiacevoli sfumature?

Direi di no. È stato un inciampo, non credevo di finire in un abisso così profondo quale quello in cui mi ha gettato l’eroina. Sono stata davvero incosciente a volerla provare. Nella vita mi sono trovata ad affrontare molte situazioni difficili e, a posteriori, mi sono sempre goduta il momento in cui sono riuscita a superare questi ostacoli. Stupidamente, pensavo che la volontà sarebbe bastata a chiudere questo assurdo “esperimento” con la droga.

Agnes_Schwienbacher

Come mai hai deciso di pubblicare proprio ora questo tuo libro?

L’idea di scrivere un libro sulla mia esperienza l’avevo già ai tempi della prigione, tanto da prendere appunti e tenere una sorta di diario. Tornata libera, il caro Peter Oberdorfer mi diede un grande incoraggiamento e aiuto nel riordinare le mie idee. Dopo la sua morte, il materiale restò fermo per due anni. Sentivo però di dover fare qualcosa e trovai in Sepp Innerhofer uno sprone. Lui mi indirizzò all’editore Raetia, che ha pubblicato il mio Rinchiusa.

Dopo una vicenda come la tua credo che le strade siano due: scegliere l’anonimato e “nascondersi”, oppure rendere la propria storia pubblica, sperando di dare un insegnamento utile ad altri. Cosa ti ha portato a scegliere di esporti?

Mentre scrivevo, varie volte, mi è venuta l’idea di bruciare tutto e non pensarci più. Leggere i miei appunti e ripensare ai giorni difficili del carcere era un po’ come ritornare in cella. In cuor mio, però, avevo la soddisfazione di aver superato quei momenti bui. Al mio ritorno in Val d’Ultimo sono stata accolta con grande affetto, ma con gli anni ho visto come non mancassero nei miei confronti anche diffidenza e qualche diceria infondata. Volevo dunque dire, una volta per tutte, come sono andate le cose, riconoscendo le colpe che ho avuto, ma precisando ciò che non avevo fatto.

Oltre alla tua esperienza personale, il tuo libro è molto deciso e civilmente impegnato nel denunciare la situazione delle carceri italiane.

Questa questione è stata uno dei motivi per cui ho voluto pubblicare Rinchiusa. Il carcerato è una persona che si trova esclusa dalla società, lontana dalla famiglia, che si trova a scontare anch’essa una pena parallela fuori dal carcere. Le carceri, oltre ad ambienti sovraffollati e spesso malsani, offrono scarse occasioni di rieducazione. Per affrontare le interminabili giornate in cella – ho ancora ben impresse nella mente queste immagini – si fa abbondante uso di farmaci che permettano di non impazzire. Un sistema come questo non può sicuramente offrire a donne e uomini che hanno sbagliato un futuro migliore dopo la scarcerazione. Peggio che in prigione, nel libro lo scrivo chiaramente, mi sono trovata solo in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Dopo che da lì sono tornata in carcere, negli ultimi due anni prima di essere liberata, le cose sono migliorate: alla Dozza, il penitenziario di Bologna in cui mi trovavo, ho avuto la possibilità di riempire tutto il mio tempo impiegandomi nel laboratorio di sartoria, dipingendo e lavorando la ceramica, studiando per dare degli esami all’università, suonando l’armonium in chiesa. Nel tenermi occupata ho potuto ritrovare la mia dignità e far passare il tempo.

Di fronte a quello che racconti, pare che il carcere offra un bivio: uscire peggio di come si è entrati o risalire la china per conquistare una nuova possibilità. Cosa ti ha dato la forza per scegliere la strada più difficile?

Quando sono finita in carcere ho pensato subito che quella fosse la mia occasione per uscire dalla droga. Avevo alle spalle quarant’anni di vita sana e quattro figli, che nei momenti difficili mi ricordavano che dovevo tenere duro. In me era tanta la voglia di darmi da fare, cercando di ricavare il più possibile, anche in carcere, qualcosa di buono per la mia vita. Mi hanno aiutato anche le altre detenute, con le quali c’era un mutuo scambio di aiuto, l’arte-terapeuta Tiziana Tomassetti, la psicologa del carcere, i volontari, le guardie carcerarie e la sovrintendente, che hanno tutti dimostrato grande umanità nei miei confronti. Il contatto con la mia famiglia e i miei amici, per lettera, nelle rare telefonate e durante le visite, mi ha dato un aiuto grandissimo. Durante la mia detenzione loro mi hanno fatto forza, ma è capitato anche che fossi io a motivare loro con le mie lettere.

Non so se sia una mia impressione, magari un abbaglio. Ma da quello che ho percepito, sembra che la tua famiglia e i tuoi amici non abbiano mai e poi mai dubitato che tu ce l’avresti fatta.

Non pensavo che si potesse capire dal libro, ma è vero.

Foto: @1) MSp; 2 Agnes Schwienbacher.

 

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