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January 14, 2020
Dentro la scultura:
Intervista a Lois Anvidalfarei
Maria Quinz
La scultura di Lois Anvidalfarei possiede la forza di quegli istanti di vita che vibrano nascosti (solo apparentemente) nel flusso vorticoso di un’esistenza. Istanti vissuti che in realtà – meglio di altri – sanno restituirci l’essenza profonda della natura umana. Attimi in cui l’uomo è solo, in dialogo con il proprio corpo e la propria anima, anche nel momento del trapasso (un istante prima, un istante dopo…).
Il grido che ci trafigge all’interno è silenzioso. L’uomo non ha null’altro che sé stesso. C’è intimità e (con) passione.
Conversare con Lois è molto bello. La sensazione è che ogni parola (mia e sua) non vada persa. C’è una pratica di scavo che emerge anche nello scambio verbale con l’artista, che sa come andare a ricercare le radici nodali delle cose. Non diversamente avviene per la sua scultura…
Nelle sue opere si coglie, a mio avviso, una “necessità viscerale” che anima dal profondo la materia e il linguaggio espressivo della scultura. Quanto è vero questo per lei? E se è vero, dove affonda tale “necessità”?
“Una necessità viscerale…” Sì è qualcosa che sento. Ma cos’è viscerale? Dove sono le viscere, a che profondità? E poi, da quale parte arriva una tale necessità di fare scultura? Effettivamente la necessità di creare è reale, è qui, la sento forte e anima il mio lavoro.
Vorrei proporre qualche pensiero, tratto dal quaderno che ho sempre con me:
(19.II.2019) “Lavorare, sai quanto è difficile? Una volontà di ferro, non solo volerlo fare, ma doverlo fare, intendo come necessità. E si crea una sofferenza profonda nello scrutare l’umanità, qui e ora, in questa testa, scrutare e non capire, vedere e non capire. Operare e sentire che mi sto muovendo nel nulla e per nulla. Tutto si oscura e diventa buio e così nell’oblio provo ad aprire gli occhi e vedo il caos in quello che sto facendo. Il gesso è una forma amorfa che mi fa ricordare di esistere!”
(23.II.209) “(…) Tragico: seduto davanti alla scultura, di fronte a questa testa e come paralizzato non riuscire a toccarla. Avvicinarmi all’abisso dell’esistenza, un piccolo assaggio, è un sapore amaro, non definibile. Ciononostante girargli intorno attratto da questo ciclone che mi risucchia e non mi molla. Per questo motivo io sono qui, ora …”
C’è stato un momento particolare in cui ha capito che la scultura sarebbe stata il suo mezzo espressivo privilegiato?
Sì c’è stato. Mi viene in mente una sera di 37 anni fa: è stato forse nel periodo più difficile della mia vita. Mi trovavo a Bressanone ed era ormai notte. Lì, in un preciso istante ho sentito che la scultura avrebbe segnato il mio percorso di vita.
La scultura è una disciplina artistica di per sé “fisica”, a partire dalla sua pratica realizzativa. “Fisiche” sono anche le sue opere, dove l’uomo è mostrato con la sua corporeità, imperfetta e caduca (seppur sublimata). Da cosa deriva questo per lei?
Penso che la fisicità nella mie sculture derivi dal mio modo di lavorare. Uso più il sentire, il provare a capire una forma con le mani che con l’occhio. La vista spesso inganna e poi è così strettamente legata alla luce. Del tatto invece mi posso fidare. Però posso dire che tutto il corpo, tutti i sensi sono in azione quando lavoro: sentire il mio respiro, sentire l’odore delle forme che si gonfiano e si ritirano e poi i pensieri, la “testa” e la “pancia” è tutto un insieme in azione.
Qual è l’elemento iniziale?
Il punto di partenza è sempre il modello, un corpo, sia che si tratti del mio, oppure di quello di una persona che posi per me. E poi la tecnica che uso. “Dal niente, dall’aria” trova spazio un primo ferro, poi un altro saldato vicino e avanti così fino a creare un telaio sul quale, attraverso il gesso, la scultura prende corpo. Ogni movimento manuale, ogni attrezzo che uso, è come un prolungamento delle mie braccia, delle mie mani. Questo modo di operare mi da la possibilità di diluire il lavoro nel tempo, con una precisione quasi da chirurgo. Mediamente lavoro da sei fino a dodici mesi ad una singola scultura.
Il tempo scorre…come si è evoluto il suo rapporto con la scultura negli anni, della giovinezza alla maturità?
In questi quarant’anni di lavoro sono nate circa una settantina di sculture di varie dimensioni, oltre a parecchi disegni a matita che sempre accompagnano il mio percorso. A distanza di tempo ora si possono riconoscere i periodi, i primi inizi in casa, la scuola d’arte a Ortisei, l’accademia a Vienna e poi il lavoro che prende una sua forma personale particolare. Il processo evolutivo – per ciò che riguarda il mio lavoro – è un percorso lento, direi proprio di scultura in scultura. Parte dalle forme esteriormente più astratte, avvicinandosi alla natura con un’astrazione interiore.
Provo a spiegarmi meglio: in scultura il processo di riduzione è indispensabile, la mia ricerca in tutti questi anni si è basata sulla domanda: fino a che punto riesco ad avvicinarmi alla natura riuscendo con il linguaggio scultoreo a coglierne l’essenza, a capire qualche cosa senza perdermi nel caos dentro al quale la scultura si dissolve? Questo può succedere anche arrivando ad un’astrazione tale che la scultura si rivela vuota, oppure arrivando al naturalismo, con le stesse conseguenze. La scultura deve funzionare per sé stessa, per ciò che rappresenta. Probabilmente un osservatore esterno potrebbe dare una risposta migliore a questa domanda. Io “ci sono dentro” e non possiedo forse la dovuta distanza per cogliere ed analizzare determinate cose.
Quanto si legano i suoi lavori ai luoghi in cui vive o all’”aria del tempo” che si respira in questo periodo storico?
Ho scritto nel mio quaderno:
(25.10.2019) “Impressionante questa situazione idilliaca, il sole, i suoi ultimi raggi in faccia; in questo autunno nel cuore dell’Europa e intorno a me il silenzio e la pace, mentre alla radio parlano di 37.000 Euro pagati per un viaggio senza ritorno dentro ad una cella frigorifera attraverso mezzo mondo per poter arrivare in questo continente. Questa volta il viaggio non è andato bene, i corpi si sono congelati. Nella realtà di questo dramma umano io qui a pensare, dovrei fare una testa rotolante, una testa decollata? Non dovrei, devo farla!”
Lavoro a quest’opera già da tre mesi: è una testa mozzata. Sarà ancora un lavoro lungo e intenso. È un’opera che sto affrontando assieme al parroco di Hall in Tirolo in Austria, un progetto da lui pensato, per ricordare la figura di Franz Reinisch: un sacerdote del Tirolo del Nord, il quale è stato decapitato a Berlino nel 1942 per non aver fatto il giuramento a Hitler.
Prima di questo lavoro ho realizzato una grande testa con la bocca aperta, l’ho chiamata “Mediterraneo”, uno sguardo sulla migrazione (e il suo dramma). Il mio lavoro non vuole essere un racconto o una descrizione dei fatti, ma una presa di posizione come scultore: è la mia riflessione su questa triste realtà.
A cosa sta lavorando oggi? Ha delle esposizioni in programma?
Sto preparando una grande mostra assieme ai responsabili culturali della Fondazione CastelPergine Onlus. Nel castello di Pergine verranno esposte circa sedici mie sculture e quattro gruppi scultorei. La mostra si aprirà il 18 aprile e chiuderà il 2 novembre 2020.
Nel contesto del castello mi sono proposto di porre l’accento sull’uomo, da un punto di vista particolare: l’essere umano in rapporto con ciò che ha costruito e costruisce. La fortificazione data dalle mura, gli accessi al castello, le sue abitazioni, rappresentano una sfida nella storia dell’uomo, la volontà di misurarsi con qualcosa di grande. E poi il tempo, contato ormai nei secoli, che scandisce l’evoluzione dell’essere umano. Tra architettura e tempo il denominatore comune è l’uomo, e così io nel mio tempo, attraverso la mia espressione, posso essere la chiave per continuare questo dialogo. L’aura del castello di Pergine mi ha colpito dal primo momento che l’ho visto, sono rimasto affascinato. Come risposta a quest’incontro e al “carisma” del luogo, vorrei provare a dare forma a una grazia interiore.
Credits: Watzek Foto Hall in Tirol. Foto 1. Mediterraneo – gesso – 2018 – 179 cm x 172 cm x 158 cm; foto 2. Ita Est – bronzo – 2017 – 39 cm x 147 cm x 144 cm; foto 3. Tenacula – bronzo – 2017/19 – 46 cm x 129 cm x 78 cm; foto 4. Caro – bronzo – 2016 – 56 cm x 140 cm x 77 cm; foto 5. Rollender Kopf – gesso – 2019 – 29 cm x 37 cm x 36 cm; foto 6. Ritratto Lois Anvidalfarei.
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