Food

November 12, 2019

Merano Wine Festival 2019: strade nuovissime, strade sicure

Mauro Sperandio
Vino di qualità e sostenibile. Alta cucina che sperimenta e riscopre. Il lato pionieristico del Merano Wine Festival.

Il Merano Wine Festival è ormai da tempo un evento imperdibile per tutti quelli che per professione, passione o piacere, sono interessati al mondo del vino. Occasione elegante, sempre più ricercata e articolata, che offre oggi ampio spazio anche alla gastronomia del Bel Paese.
Se la manifestazione è di acclarata rilevanza per la sua capacità di selezionare e presentare solide eccellenze, di crescente importanza sono le realtà emergenti nei settori vinicolo e culinario che in questa grande festa trovano (mai troppo) ampio spazio.

In tale segno si mantiene sempre particolarmente interessante la giornata del venerdì, che quest’anno ha visto riservata ampia parte del Kurhaus ai produttori di “vini alternativi”, ovvero a chi dedica i propri sforzi a produzioni biologiche, biodinamiche, orange e con uve PIWI. Tante le cantine presenti a questa edizione del Wine Festival, oltre cento, e due volte tanto le etichette: una panoramica ampia, che merita visibilità, dato che rappresenta sicuramente il futuro dei nostri brindisi.

Di particolare interesse il simposio NATURAE ET PURAE – Nel segno di Zierock, curato dal poliedrico Angelo Carrillo e dedicato alla monumentale figura di Rainer Zierock. Enologo viscerale, umanista ingordo, romantico a dispetto del tempo, rivoluzionario mai domo, istrione e accentratore, uomo di grande cuore e predatore di attenzioni: Zierock è stato ricordato, oltre che da Carrillo e dal patron Helmuth Köcher, dai professori Attilio Scienza e Marco Stefanini, dal giornalista Nereo Pederzolli, da Mario Pojer e da Joseph Reiterer, produttori gli ultimi due che hanno incrociato le loro vite professionali e umane con questa figura meritevole di essere studiata e conosciuta non solo in campo enologico, ma anche letterario, nello stile di Rebelais ed anche di Grimmelshausen.

Sofisticata, ma non per questo meno godibile, proiettata verso il futuro, ma consapevole della tradizione si è presentata l’edizione 2019 di  WILD COOKING, quest’anno sottotitolata “Muffe, spore e batteri – The Italian Gran Tour”.  Firme note ed emergenti della cucina italiana “di ricerca”, quali Terry Giacomello, Mattia Baroni, Peter Brunnel, Alberto Sparacino, Davide Caranchini e Theodor Falser, durante i loro show cooking hanno presentato al pubblico piatti molto diversi tra loro – dal limone ammuffito di Giacomello alla trota semi-marinata di Falser – talvolta borderline nella preparazione o nell’aspetto, ma sicuramente pionieristici e anticipatori di nuovi e più diffusi sapori e di ri-scoperte conoscenze.

merano wine festival

Abbiamo incontrato alcuni di questi protagonisti per scoprire di più sulla loro visione:

Terry Giacomello, Ristorante Inkiostro, Parma

La tua è una cucina ricca di sperimentazioni, anche ardite, ma senza compromessi in tema di qualità e sicurezza. Ci sono dei limiti che ti sei posto?
In cucina non ci sono limiti, perché la creatività non ha limiti.

I piatti che al primo tentativo non vengono affatto bene…
…capita che siano dei punti di partenza per belle e inattese scoperte.

A quale esigenza personale risponde la particolare cucina che proponi ai tuoi clienti?
Se non facessi quello che faccio, mi annoierei.

Creare per vivere?
La creatività è un modo di vivere, un esercizio quotidiano che viene ispirato dai luoghi  e dai fenomeni più diversi.

Qual è il compito di un ristoratore?
Dare emozioni ai tuoi clienti, offrire loro un ricordo.

Nella tua modernissima cucina che spazio c’è per la tradizione?
Io parto sempre dai piatti della tradizione e li sviluppo, senza tralasciare nessuna preparazione e nessun ingrediente. Al Ristorante Inkiostro, attualmente, abbiamo nel menu un piatto che impiega il midollo ricavato dall’osso del prosciutto di Parma: un ingrediente povero, che solitamente si butta, ma che siamo riusciti a sfruttare e valorizzare in maniera sorprendente.

Un piatto “del cuore”?
Non ho piatti del cuore, ovvero preferiti in assoluto, ma ne ricordo alcuni con affetto, come il tiramisù, l’agnello e la besciamella bruciata della mia mamma. Piatti che possono trovare nuova interpretazione, come nel caso della besciamella fatta attaccare apposta al fondo della pentola, usata da me per fare un gelato. Partendo sempre da un ricordo d’infanzia feci un sorbetto alle Big Babol, memore dei palloni che mi divertivo a fare con questi chewingum.

Quello che cerchi quando il cliente sei tu?
Il piatto più strano del menù o qualcosa che non conosco.

Alberto Sparacino, Cum Quibus, San Gimignano (SI)

Geometra di formazione e cuoco per passione. Trovi delle analogie tra le due professioni?
Non immediate, anche se la logica del costruire si ritrova tanto negli edifici quanto nei piatti. In entrambi i casi, poi, lo scopo è di arrivare ad un equilibrio finale che da geometra ti direi essere la sicurezza della struttura e da cuoco la piacevolezza e l’equilibrio del piatto. Non sono un estremista e cerco l’armonia, anche se uso ingredienti dal carattere molto deciso, com’è quello dei fermentati.

La cucina toscana è di rustiche soddisfazioni. A quale piatto sei particolarmente legato?
Al cibreo (pietanza a base di rigaglie di pollo n.d.r.), perché sono un patito di frattaglie. È un piatto secondo me perfetto, che non cambierei di una virgola e che rappresenta un equilibrio ideale di acidità, grassezza e rotondità.

Che rapporto hai con il tempo?
Se ci fossero giornate da trentasei ore le userei sicuramente tutte. Nel mio lavoro l’organizzazione è un fattore fondamentale e ha a che fare strettamente con il tempo. Per quanto riguarda il tempo e la velocità con cui cambiano le mode in cucina, devo dire che si tratta di qualcosa lontano dalle mie preoccupazioni. Un piatto mi deve piacere perché è buono, non perché è alla moda. Le influenze cicliche che provengono dalle varie cucine del mondo o dall’uso di tecniche quali ad esempio la fermentazione, le considero occasioni per aprire i miei orizzonti, non mode da seguire. Possibilità, non necessità.

Tra i vari scaffali della tua dispensa, quale offre terreno più fertile alla tua creatività?
Direi che i vegetali mi permettono la più libera espressione e le più numerose possibilità interpretative. Anche i carboidrati, in tutte le varie declinazioni, sono un campo decisamente interessante.

Credi che tra i piatti da te creati ce ne sia uno particolarmente divertente, quasi in senso finemente umoristico?
Sono dell’idea che un piatto solo possa far ridere (in senso buono) l’ospite, ma per godere del vero divertimento ci vuole una cena intera, che offre un emozione completa, stimolante, che si ricorda.

Davide Caranchini, Materia, Cernobbio (CO)

É la gola un peccato?
Assolutamente sì.

Tu, per quale cibo ti faresti condannare alla dannazione?
Quante ore può durare questa intervista?

Sono a disposizione.
Sintetizzando in modo estremo, posso dire di non essere un goloso di dolci e cose del genere. Mi piacciono i sapori un po’ “spigolosi”. Dovendo citare un piatto semplice, ma che mi fa impazzire, direi la polena uncia, ovvero unta: polenta taragna, formaggi a volontà e metà del peso della polenta in burro  fritto con salvia e aglio. Un piatto tipico della mia terra, che sa di casa e conforto.

Essendo cresciuto con una cucina così solida e dedicandoti ad una cucina sofisticata, quanto è difficile mantenere spontaneità e godibilità in ogni piatto?
Il nostro è un lavoro complesso, che deve offrire all’ospite semplicità, anche se solo apparente. Tutta la fatica che c’è dietro un piatto non deve apparire. La tecnica è a servizio del gusto, e basta. Non ci sono esercizi fine a se stessi o fatti per compiacere l’ego del cuoco. Andiamo poi per sottrazione, togliendo ciò che nel piatto non serve e gli inutili orpelli.

Sei un giovane ma apprezzatissimo cuoco e il tuo successo è frutto di grande impegno. C’è però un fattore speciale che credi ti renda così bravo?
Al di là della retorica sulla passione e il sacrificio, che ci mettono tutti i cuochi, credo sia una questione di competitività. Non nei confronti degli altri, ma di me stesso. Ogni mattina mi sveglio con l’obiettivo di superare il me stesso del giorno prima. Questa è la benzina che mi porta avanti.

Con un presente radioso, cosa ti auguri per il futuro?
Vedere diventare il Lago di Como una tappa gastronomica di rilevanza mondiale e non solo un bel posto con le ville dei V.I.P.

Per il vino, giochiamo in casa, parlando con Andrea Moser, Kellermeister della Cantina Kaltern.

Hai imparato di più dai tuoi successi o dai tuoi errori?
Il vino non si progetta, ma parte da un’idea. Un po’ come fa il cuoco quando dice “voglio cucinare una bistecca al sangue, ma con una bella crostina che solo una reazione di Maillard perfettamente ottenuta mi permette”. A volte riesce e a volte no. Il problema del vino sta nel fatto che hai uno “colpo” all’anno, ovvero una vendemmia sola, e se sbagli sei fregato. Per me sbagliare è fondamentale.

Un metodo sperimentale non privo di rischi.
Le mie esperienze mi hanno visto lavorare in cantine molto piccole, per poi approdare ad una grande realtà altoatesina (Haas n.d.r.) nella quale ho lavorato nove anni e dove ho imparato quanto sia fondamentale dedicarsi ad una ricerca senza interruzioni.

L’attività della ricerca ti è possibile anche in una cantina grande come quella di Caldaro?
Nonostante la Cantina Kaltern raccolga uve da quattrocentocinquanta ettari di vigneti e riunisca seicentocinquanta soci, ho sempre dedicato molto tempo alla sperimentazione, anche nel timore di diventare produttivamente cieco, ovvero assaggiatore ed estimatore dei soli miei vini: bastante a me stesso e quindi fossilizzato. In questo solco ho deciso di dedicarmi ai vini cosiddetti “naturali”, anche se è un termine che non mi piace, visto che in natura il vino non esiste.

Ti riferisci ai vini del Project XXX?
Esatto. Proprio uno di questi esperimenti, sfociato in uno dei primi vini del Project  XXX del 2016, mi ha dato la possibilità di ampliare i mie orizzonti professionali. Pensavo infatti di aver sbagliato in maniera grossolana, visto che dopo la macerazione sulle bucce il mio Sauvignon puzzava da morire. Deciso a portare l’esperimento alle sue più estreme conseguenze, lo feci trasferire in un tonneau e non ebbi coraggio di assaggiarlo più per un anno e mezzo. Passato questo periodo, sorprendentemente, mi ritrovai con un grande vino. Capii così come alcuni vini chiedono tempo per rivelarsi ed essere capiti. Gli XXX assolvono proprio a questi due scopi: conoscere e far conoscere nuove frontiere di fare vino.

Foto: Merano Wine Festival 

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