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October 9, 2019
Franz Pichler: arte, visione e impegno civile
Mauro Sperandio
Il cappello a tesa larga, di differente foggia a seconda della stagione, il gilet, il fazzoletto al collo e gli occhiali tondi connotano la riconoscibile immagine di Franz Pichler, scultore (ma non solo) meranese classe 1939. A connotarne il carattere c’è uno spirito rivoluzionario sempre vigile e una parola tagliente, precisa, che definisce in maniera chiara i concetti, come fanno i suoi scalpelli sul legno. Nelle sue opere, anche grafiche, corpi e geometrie si fondono e ricevono immancabili sferzate di rosso. Incontriamo l’artista nel suo studio ospitato nel castello Kallmünz, nel centro di Merano.
Artisti si nasce o si diventa?
Artisti non si nasce, come non si nasce medico o musicista. Sono professioni che si imparano percorrendo una strada che è lunga e faticosa. Da bambini siamo tutti, in un certo modo, artisti e la vita degli esseri umani è un’opera che siamo chiamati a comporre in maniera unica e speciale. I bambini hanno sempre una buona giustificazione per le loro azioni, imparano facendo e hanno il diritto di sbagliare.
Quando ti sei sentito attratto dall’arte?
Mi hanno sempre detto che da piccolo facevo dei lavoretti creativi con il legno, piccoli animali realizzati con i materiali poveri che avevo a disposizione. Eravamo sei figli, due femmine e quattro maschi. Dalla finestra della nostra camera si vedeva un grandissimo noce, osservando i suoi rami vedevo sempre qualcosa di diverso: un cavallo, un elefante e chissà cos’altro. Quando lo dicevo ai miei fratelli loro, però, non vedevano mai nulla.
Quando, invece, hai desiderato che l’arte diventasse il tuo mestiere?
Abitavamo a Scena e mio padre lavorava come guardia forestale. Ogni sabato doveva recarsi a Merano per questioni di lavoro ed io, di tanto in tanto, lo accompagnavo. Mentre lui andava negli uffici del Corpo Forestale io mi trattenevo nei negozi di artigianato della Val Gardena che si trovavano sotto i Portici: guardavo per ore le piccole sculture esposte in vetrina. Quando ebbi l’età giusta, a quattordici anni, chiesi ed ottenni dai miei genitori di recarmi in quella valle per imparare il mestiere dello scultore. Già dal secondo anno fui assunto da un artigiano del posto: lavoravo di giorno e studiavo alla sera, così da riuscire a pagarmi vitto e alloggio.
Non doveva essere una vita facile…
I gardenesi mi dicevano che non avrei mai potuto diventare bravo, perché non ero del posto. Alla fine degli studi, dopo il diploma, cominciai però guadagnare un sacco di soldi, perché me la cavavo piuttosto bene. Non volevo però fare per tutta la vita sempre le stesse rappresentazioni, volevo esprimermi attraverso la scultura. Decisi allora di andare a studiare all’estero e scelsi l’Accademia di Monaco, dove per imparare “dovetti” dimenticare tutto quello che avevo appreso fino a quel momento.
Erano gli anni ‘60, un periodo di grande fermento.
L’Accademia di Monaco, assieme all’università che si trovava a poca distanza, era uno dei centri del movimento studentesco. Più che dedicarci all’arte, facevamo politica. La mia formazione in questo campo e in quello sociale risale proprio a quel tempo.
Che fine ha fatto quella voglia di cambiamento che animava il mondo dell’arte?
Negli anni ’70, assieme a Jacob De Chirico, Egon Moroder Rusina e vari altri, formavamo un gruppo molto legato, “rivoluzionario” e politicamente impegnato. Oggi, invece, i giovani sono molto impegnati a trovare spazio nelle gallerie e sui giornali e non si sbilanciano per paura di inimicarsi qualcuno. Cinquant’anni fa quelli della CGIL ci chiesero di disegnare dei manifesti, che non vedemmo mai per le strade. Dopo molti anni, in occasione di alcuni lavori nella sede del sindacato, furono ritrovati dietro un armadio. Non erano stati affissi perché troppo “forti” anche per loro. La nostra colpa era di aver messo in discussione la rapida crescita del turismo, che senza un controllo avrebbe potuto avere delle importanti ricadute negative sul territorio.
Un artista politico, almeno a quel tempo, traeva vantaggio dal proprio impegno?
Direi proprio di no. Per non rinunciare alla mia libertà non mi sono mai piegato al mercato dell’arte e alla logica delle gallerie, che avrebbero limitato la mia possibilità di esprimermi. Al giorno d’oggi le cose non sono cambiate e vedo tanti giovani “cauti”. Mi chiedo però: se non lo fanno gli artisti, a chi spetta il compito di alzare la voce? Ai politici no di sicuro, visto che sono i servi delle banche e delle industrie. Agli scrittori, ai pittori, agli scultori e ai musicisti è riconosciuta la capacità di precorrere il futuro, se non si impegnano in questo, mi chiedo cosa sarà.
Mi riferisco agli anni della contestazione, al tuo impegno e a quello di tutta una generazione. Credi che l’effetto di quel movimento si sia esaurito? Che ci sia bisogno di una nuova “scossa”?
Eravamo fortemente animati dai principi etici per i quali non avremmo mai fatto fisicamente del male a nessuno. Della funzione e delle scelte politiche della nostra controparte, però, non avevamo avuto nessun riguardo. Nessuna violenza, ma lingua tagliente. Oggi i giovani godono di grandissima libertà, non hanno bisogno di gridare per farsi sentire e di pestare i piedi per avere spazio. Godono di una libertà conquistata allora e non sono più allenati alla conquista. Noi dovevamo darci da fare. Egon Rusina, Jakob De Chirico, Manfred Mureda ed io, ancora oggi, non compariamo in nessun museo altoatesino. Museion, che tante opere ha acquistato, da noi non ha mai comprato nulla: ancora oggi siamo considerati dei “cattivi ragazzi”. Ultimamente, a ottant’anni suonati, si sono fatti vivi, ma ormai non me ne frega più nulla. Quando avevo quattro figli piccoli da crescere, lo dico con sincerità, mi avrebbe fatto comodo.
All’inizio di quest’anno è mancata tua moglie Solveig. In che modo ti ha sostenuto nel tuo lavoro?
Da giovane, come credo tutti, aspiravo ad un riconoscimento internazionale. Gilbert, del duo artistico Gilbert & George, era mio compagno di studi all’Accademia, oltre che amico. Mi invitò ad andare a Londra, ma io, che avevo all’epoca già due figli, dovetti rinunciare. Iniziai ad insegnare e smisi di seguire il sogno della fama, schifato dall’idea di dover scendere a compromessi. Solveig, che si prodigava tanto per farmi conoscere, ad un certo punto capì e comincio a sostenere la mia scelta. Per tutta la vita lei è stata la mia più forte critica, la mia musa e sostenitrice.
Nella città di Merano tua moglie è ricordata con grande affetto e ammirazione, grazie al suo impegno nel campo dell’istruzione e della promozione culturale rivolta in particolare modo ai più giovani. Sei stato anche tu un sostegno per Solveig?
Dietro a ogni artista c’è sempre una figura femminile forte e importante, disposta spesso a farsi da parte per non distogliere l’attenzione dal proprio compagno. Spesso queste figure, col tempo, trovano il riconoscimento che meritano. Alla morte di mia moglie abbiamo trovato un mucchio di appunti e progetti da realizzare. L’ho sempre sostenuta nei suoi lavori, ma ignoravo quanto di più avrebbe voluto fare. Col senno di poi, mi sento un po’ in colpa per non aver saputo cogliere, ad esempio, la sua grande forza artistica.
Assieme vi siete dedicati ad un progetto familiare particolare: quello di acquistare e gestire una tenuta nelle Marche, dove producete del vino. Un ritorno al contesto rurale in cui sei cresciuto?
La gente inorridisce a pensare che nel medioevo i bambini venissero venduti come lavoratori, ignorando che anche noi, per la stagione estiva, venivamo ceduti ai contadini dei masi per il lavoro nelle malghe. L’”affare” veniva concluso dalle famiglie a gennaio, durante il mercato del bestiame di Scena, e prevedeva che, in cambio di vitto e alloggio, ci occupassimo del pascolo del bestiame. Non era il mio caso, ma la magra paga andava di solito ai genitori, senza che i bambini vedessero il becco di un quattrino. A Natale, se andava ben, come premio per il lavoro estivo i “padroni” mi chiamavano a casa loro, dicendo che Gesù Bambino aveva lasciato per me un regalo. Nulla di sensazionale, spesso un semplice grembiule blu da contadino o un paio di calze di lana fatte a ferri.
Imparai dunque a mungere, a falciare e a fare tutti quei lavori che si fanno in una malga, cose che da piccolo non amavo ma che con il tempo ho incominciato ad apprezzare. Mia moglie ed io volevano dare ai nostri figli la possibilità di vivere a contatto con la natura; in Alto Adige una casa con del terreno costava troppo, ma ne trovammo una a prezzo accessibile nelle Marche, dove ancora oggi produciamo vino.
Cosa ti diverte alla tua età?
Il mio lavoro. Credo che invecchiando ho imparato a vedere meglio, sviluppando una maggiore sensibilità nell’osservare i fatti e le persone, prestando maggiore attenzione al loro vissuto e a ciò che sta dietro le lor espressioni. Cosa essenziale nel mio lavoro.
Quali temi credi doveroso trattare in questo momento?
La natura e lo sviluppo sostenibile sono temi che ho sempre ritenuto importanti, e lo sono tutt’oggi. Per non dire dell’inquinamento, che colpisce aria, acqua e terra, del surriscaldamento globale, delle questioni alimentari e delle monoculture. Sono questi i temi che considero oggi di importanza capitale e che come artista devo trattare. Non posso poi dimenticare la questione dei lupi nei nostri boschi e dell’accanimento dell’uomo nei confronti di questi animali che, in fin dei conti, si trovano nel loro ambiente e che rappresentano, a modo loro, una minoranza perseguitata.
Foto: © 1, 4 Hedwig Bledl; © 2, 3, 5 Andreas Marini
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