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July 1, 2019

“Mi piace sporcarmi le mani”: intervista al fotografo Davide Perbellini

Verena Spechtenhauser

Chiunque si occupi o interessi di design e architettura del territorio, sicuramente di recente avrà sentito questo nome:  Davide Perbellini. Il giovane meranese classe1990 – oltre a lavorare in vari altri ambiti narrativi – è infatti sempre più spesso impegnato nel fotografare i lavori di noti studi creativi altoatesini e trentini, tra cui quelli di Harry Thaler, Messner ArchitectsCampomarzio. Uno dei suoi ultimi lavori  è un’incursione nell’atelier vicino a Firenze, del designer di cappelli e scarpe altoatesino Reinhard Plank.  Nell’ intervista ci racconta di più sulla sua passione e i suoi progetti futuri e passati

Davide, recentemente ti abbiamo visto nelle vesti di “fotografo H24″ ad Asfaltart… Ci puoi raccontare qualcosa di più?

Nulla di nuovo in realtà, non un’idea innovativa ma qualcosa di già visto e realizzato. La serialità. Un approccio molto progettuale che trova molteplici riferimenti. I lavori seriali della scuola tedesca, i lavori della fotografa statunitense Vivien Mayer, il lavoro sull’identità e la metamorfosi di Cindy Sherman e il lavoro di Monet sulla cattedrale di Rouen. Possiamo trovare un esatto esempio di progetto fotografico seriale anche all’interno del film Smoke scritto e diretto nel 1995 da Paul Auster e Wayne Wang. Mi sono lanciato in questa “avventura” perché avevo voglia di provare un’esperienza nuova, volevo verificare come sarebbe cambiato quel luogo con tutte le variabili di un’intera giornata. La notte non sono riuscito a dormire neanche un’ora. Per questo motivo superare la giornata non è stato per niente facile. Non nascondo che, sopratutto sotto il caldo del pomeriggio, l’idea di mollare mi è passata più volte per la testa. Alla fine però è stata un’esperienza fantastica e la volontà è quella di rendere il progetto doppiamente seriale e di portarlo in giro per l’Italia e l’Europa.

Davide Perbellini

Da dove nasce la tua passione per la fotografia? Come hai iniziato e quali sono stati i primi soggetti dei tuoi scatti? 

Non so esattamente da dove nasca la mia passione per la fotografia. Forse da bambino vedevo spesso mio papà con la sua vecchia Olympus OM1 in mano e questo mi deve aver aiutato ad avvicinarmi a questo linguaggio. Spesso sfogliavo le riviste e i giornali dello zio prestando molta attenzione alle immagini che ci trovavo dentro. Alcune poi le ritagliavo e le mettevo da parte. So di aver scattato molto con le usa e getta ma non ricordo esattamente quando ho ricevuto la mia prima macchina fotografica. Ricordo invece benissimo che un giorno, dopo aver sviluppato un rullino scattato durante una gita scolastica, mio papà mi promise di non farmi più portare con me la fotocamera. Il perché? Secondo lui era uno spreco sviluppare rullini dove c’erano solo fotografie di paesaggi e mai una ritratto di suo figlio. A pensarci bene, questa cosa mi fa sorridere ancora oggi. Durante tutta l’adolescenza non ho mai più preso in mano una macchina  fotografica. Mi sono riavvicinato al mezzo fotografico molti anni dopo, solo alle superiori. Durante le ore di economia studiavo fotografia di nascosto. Un paio di volte sono stato anche beccato in flagrante. Ho iniziato a far pratica per strada, dove fotografavo scene di vita quotidiana che mi si presentavano davanti. Erano immagini superficiali, grezze, prive di qualsiasi ricerca, utili solo all’apprendimento del mezzo fotografico.

©DPerbellini_ReinhardPlank-002

Sei particolarmente interessato alla fotografia di architettura. Cosa ti affascina di questo specifico soggetto?

Inizio facendo una premessa, non sono laureato in architettura. Questo ci tengo a precisarlo perché in molti, vedendo quello che faccio, credono che io sia architetto e questo pensa sia dovuto al fatto che la maggior parte dei fotografi di architettura in realtà lo sono. Ho iniziato ad occuparmi di fotografia di architettura qualche anno dopo aver concluso gli studi in fotografia. Un designer meranese mi ha chiesto di fotografargli un interno. Ricordo di aver accettato e subito dopo di essermene pentito. Fino a quel giorno avevo lavorato come fotografo di matrimoni, presso un quotidiano, come fotografo di scena per il cinema ma mai lontanamente mi era passato per la testa di fotografare un progetto di architettura o di design. Il giorno dello shooting mi sono divertito come non mai e al designer le fotografie sono piaciute molto. Da li non mi sono mai più fermato. Ho iniziato a studiare architettura e fotografia di architettura da autodidatta. Mi sono preso un periodo sabbatico, dove ho iniziato a scattare tutti i giorni per poter mettere in pratica quello che stavo studiando sui libri, sulle riviste e sul web. Nel 2016 ho partecipato ad un workshop con il fotografo, diventato poi un caro amico, Marco Introini. Quell’esperienza mi è servita molto perchè ne sono uscito con un’idea più cosciente della fotografia e con un maggior interesse verso l’analisi del territorio naturale e urbano. Non saprei dirti esattamente cosa mi affascina di più dell’architettura o del design. So di esserne attratto da tutto questo e la cosa mi piace moltissimo.

Davide PerbelliniNelle tue immagini, la città di Merano appare sempre più spesso come protagonista. Perché? Cosa significa Merano per te?

Nell’ultimo periodo ho realizzato a Merano tre progetti differenti, ma credo sia del tutto un caso che in così poco tempo io l’abbia resa protagonista, più volte, delle mie immagini. Merano è pur sempre la città in cui vivo ed è forse quindi inevitabile che sia un soggetto a me molto vicino, anche se non mi sembra di prestarle molte attenzioni particolari. Fino a qualche anno fa, sarei voluto solo scappare da questa città. L’ho sempre vissuta come una realtà molto chiusa, all’interno della quale mi sarebbe stato difficile emergere ed esprimermi. Se non avessi conosciuto mia moglie, probabilmente ora, sarei ancora a Milano o in quale altra città in giro per il mondo, ma sicuramente non qui. Per questo non le faccio una colpa, anzi la ringrazio. Non è stato facile ma oggi qui sto bene, ho la mia famiglia, i miei cari, gli amici e sono circondato da un territorio che è in grado di offrire molto, soprattuto ad uno appassionato di arrampicata e sport outdoor. Appena posso però colgo l’occasione per andare via. Che sia per un viaggio di diletto o di lavoro, quando posso spostarmi fuori regione per qualche giorno ne approfitto. 

 Una delle tue serie di foto si intitola “Corso della Libertà”. Puoi dirci qualcosa di più su questo lavoro? 

Corso della Libertà è uno degli accessi principali al centro di Merano. La parte inferiore di questa via, quella che va dalla centrale piazza Teatro alla rotonda di via Rezia per un lungo periodo è stata protagonista di numerose proteste da parte dei cittadini Meranesi. Il suo manto stradale era completamente dissestato e, ogni qualvolta la si doveva percorrere in bici, bisognava fare i conti con le numerose buche che si incontravano lungo il suo percorso. In quel periodo percorrevo la via in bici tutti i giorni per raggiungere il mio atelier in centro città. Il mio voleva essere un lavoro di documentazione dello stato attuale della via e doveva fungere da denuncia. Sono sempre stato affascinato dai lavori di Gabriele Galiberti e in particolare modo dai suoi “mosaici fotografici”. Da qualche tempo avevo iniziato ad utilizzare una fotocamera instantanea per alcune ricerche personali e ho così deciso di utilizzarla per fotografare tutte quelle buche che, quotidianamente, dovevo provare a schivare. Una volta realizzati gli scatti gli ho stesi uno affianco all’altro ed è stata una sorpresa vedere come,  così disposte, queste andavano a ricreare una porzione astratta del manto stradale.

Davide PerbelliniStai lavorando a una nuova serie? Puoi svelarci qualcosa in anteprima?

Da ormai quattro anni circa lavoro ad un progetto di documentazione fotografica dei luoghi di culto, intesi come chiese, in Alto Adige. Mi sono concentrato su tutte le nuove costruzioni, realizzate tra il 1945 e il 1979. Circa un anno fa ho presentato il progetto alla curatrice Sabine Gamper che ha apprezzato da subito il progetto. Assieme abbiamo deciso di coinvolgere anche l’architetto Susanne Waiz che ci sta dando una grande mano nel reperire tutte le informazioni possibili sui progetti che ho deciso di documentare. Assieme stiamo facendo un gran lavoro e ora dovremmo essere agli atti finali. L’idea è quella di presentare il progetto con una mostra e la pubblicazione del libro questo autunno. Sto contando i giorni, non vedo davvero l’ora. Sono una persona molto precisa, un perfezionista, a volte fin troppo, e vorrei che tutto andasse per il meglio. Poi alla fine si tratta pur sempre del mio primo libro e non posso di certo fare una brutta figura.  Oltre a questo sto portando avanti alcune ricerche personali e vorrei continuare a portare in giro il progetto 24×24.

Alcune delle tue foto sono, per così dire, “autonome”. Mi chiedo se ci sono storie o messaggi nascoste dietro queste foto, per esempio nel tuo lavoro “Ivy”?

Difficilmente lavoro con immagini singole e cerco sempre di creare un racconto di almeno tre immagini. Spesso però ho la necessità di creare delle immagini, anche singole, che raccolto in un album degli appunti. Una sorta di quaderno che posso aprire in qualsiasi momento per trarne ispirazione. In questo credo che Instagram sia molto utile. Potrei usarlo anche per pubblicarci selfie fatti in ascensore ma non credo che mi sarebbe molto utile. “Ivy” fa parte di un lavoro più ampio, un lavoro sul terzo paesaggio. Mi interessa documentare come la natura spesso decide di riappropriarsi degli spazi che le vengono sottratti dall’uomo. E’ un lavoro giovane, ancora immaturo, che prossimamente riprenderò sicuramente in mano.

Postproduci le tue foto? Come e perché?

Dipende cosa intendiamo per post produzione. Io preferisco distinguere la post produzione dallo sviluppo del file. Il file raw, il negativo che esce da una macchina fotografica digitale è un file piatto, privo di qualsiasi regolazione e contrasto. E’ un file che necessita inevitabilmente di essere sviluppato. Potremmo quindi dire che tutte le mie fotografie digitali sono sviluppate al computer. Mi limito a poche correzioni della luce, del contrasto e del colore. E’ errato però pensare che questo sia solo un processo legato al digitale. Le correzioni si sono sempre fatte e le si fanno tutt’ora anche in fotografia analogica. La semplice differenza è che da una parte lavori con monitor e un mouse, dall’altra con strumenti più rudimentali, come un pezzo di carta sagomato attaccato ad un filo di ferro. Il termine post produzione per me è legato ad un processo più complesso. Lo definisco fotoritocco specifico e questo mi trovo a farlo su tutte le fotografie più “commerciali”. In questo tipo di immagini, per esigenze del committente, ho spesso la necessità di elaborare le fotografie andando ad eliminare o modificare elementi all’interno della scena per ottenere il risultato richiesto.

Davide PerbelliniHo visto che ti occupi anche di cianotipia. Perché ti interessa questa tecnica „arcaica“?

Mi piace sporcarmi le mani e mi lascio attrarre da tutto ciò che mi permette di farlo. Amo passare il tempo in camera oscura a sviluppare rullini e allo stesso modo mi piace farlo con la cianotipia. Lo trovo un processo estremamente affascinante, semplice da realizzare e molto versatile. In questo periodo infatti, oltre ad organizzare numerosi workshop, sto sperimentando il suo utilizzo su diversi tipi di supporti e materiali. 

Hai appena aperto un tuo studio a Merano…

Sono uno a cui piace cambiare. Lo faccio spesso. Negli ultimi tre anni ho cambiato atelier tre volte. L’ultimo anno l’ho trascorso all’interno di uno spazio fantastico in centro a Merano. Uno di quei posti dove sembra essersi fermato il tempo. Era veramente stupendo. Li dentro abbiamo fatto serate dedicate alla fotografia, workshop e semplici chiacchierate tra amici e colleghi. Mi è dispiaciuto molto doverlo lasciarlo ma per esigenze familiari ho preferito ricavare uno spazio per l’atelier all’interno della nostra nuova abitazione. Ci siamo trasferiti qui a novembre e dopo aver vissuto la casa per alcuni mesi ho capito che apportando alcune modifiche al progetto originale avrei potuto ricavare uno spazio per me senza rubarne a mia moglie e a mia figlia. 

Vedremo anche mostre di tuoi lavori, in questo spazio nuovo?

All’interno abbiamo un muro che, da progetto originale, doveva fungere da parete espositiva. Non è  uno spazio molto ampio ma è comunque in grado di accogliere piccoli lavori. L’idea è quella di poter organizzare anche brevi mostre temporanee, non solo mie, ma aprendo lo spazio anche ad altri artisti. Vorrei che il tutto si tenesse in un clima però sicuramente meno formale e più familiare. All’esterno abbiamo anche un giardino che a me piacerebbe poter utilizzare per organizzare attività  all’aria aperta, come workshop e talk. Da poco abbiamo inaugurato e un pò per gioco e un pò perché comunque il progetto degli architetti era stato nominato “Little Nina” abbiamo deciso di chiamare questo spazio “Casa Nina” in onore della piccola di casa. 

 Davide PerbelliniSe non fossi diventato un fotografo, cosa avresti fatto?

Preferisco non pensarci. A parte gli scherzi, mi sono diplomato all’indirizzo turistico nella scuola alberghiera della mia città. Se un giorno non avessi deciso che questo doveva essere il mio lavoro, probabilmente, a quest’ora sarei dietro alla reception di qualche hotel in giro per l’Italia. A mia moglie dico sempre che se un giorno non dovessi più riuscire a vivere di fotografia, sicuramente non vorrei finire dietro ad una scrivania. Potendo scegliere mi piacerebbe fare un lavoro manuale come l’imbianchino o perché no, il falegname. 

Fotos: Davide Perbellini

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