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May 9, 2019

Bivacco: dalle Alpi alla Laguna di Venezia

Mauro Sperandio
Dal 10 Maggio al 30 Settembre 2019, l'isola di San Servolo a Venezia, in concomitanza con la 58.Biennale, ospita un'interessante opera collettiva concepita dall'artista Hannes Egger.

Come le Alpi, barriera naturale ma anche zona di scambio, possono essere accostate ad un’isola bagnata dall’Adriatico? Quanto un bivacco, riparo di fortuna per alpinisti, può avere a che spartire con la laguna di Venezia? In che modo la sua essenzialità e la sua funzione possono stimolare l’artista?

Da queste riflessioni e dal valore del bivacco come archetipo ispiratore, l’artista altoatesino Hannes Egger ha concepito Bivacco, opera/contenitore che, con la curatela di Christiane Rekade, vedrà esposte opere, oltre che dello stesso Egger, di Jacopo Candotti, Nicolò Degiorgis, Julia Frank, Simon Perathoner, Leander Schönweger e Maria Walcher.

Alla vigilia dell’inaugurazione, che si terrà nell’isola di San Servolo, a pochi minuti da piazza San Marco, a ridosso dell’apertura della 58. Biennale d’Arte di Venezia, incontriamo Hannes Egger.

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Dalla montagna alla laguna veneziana: al di là del contrasto, quali sono le affinità tra le due ambientazioni?

Geologicamente si condizionano a vicenda, il Mediterraneo e le Alpi sono collegate in modo stretto, anche in senso storico, sopratutto se ci riferiamo al Medioevo. Oggi sono tutti e due luoghi di transito, dove persone si incontrano, ma anche dove si dicono addio.

Quale contributo porteranno i sette artisti?

I sette artisti portano lavori che sono sono molto diversi tra di loro, tutti svelano aspetti particolari del concetto di base, qualcuno lo scavalca anche, cosa che ritengo molto positiva. Maria Walcher, per esempio, porta delle pesanti coperte sulle quali sono rappresentate le tratte transfrontaliere della transumanza attraverso le Alpi, ma anche i percorsi principali degli migranti. Jacopo Candotti invece ha creato una maniglia, simbolo della porta di passaggio, con monete euro fuse. Con questo suo lavoro Jacopo ci fa vedere e anche “toccare con mano” un’Europa sempre più fragile, con ideali comuni in affievolimento. L’Euro, infatti, appare rimanere purtroppo una delle poche forze trainanti e transfrontaliere. C’è poi la scultura di Leander Schönweger, che riprende il bivacco come modello e lo trasforma in una struttura metafisica, proponendolo come chiesetta.

HAnnes Egger Bivacco foto©Flyle

Il bivacco, con la sua funzione di rifugio in ambienti estremi, porta con sé un’immagine ben precisa. Quanto è importante l’idea di protezione in questo lavoro? Quali invece sono i rischi a cui espone gli artisti?

I rischi sono molto evidenti, visto che il bivacco non deve perdere la sua funzione di rifugio. Dovendo ovviamente rimanere aperto – un rifugio chiuso sarebbe una contraddizione – anche le opere non sono protette, a differenza delle mostre convenzionali. I lavori sono inseriti in uno spazio poco illuminato e angusto. Il bivacco ha una superficie di circa 7 m², le pareti non sono bianche, ma grigie, con dei letti ad esse fissati.
Credo che l’idea di protezione sia molto importante, soprattutto in ambienti e tempi estremi. Credo ancora che Ralph Rugoff abbia inteso più o meno questo scegliendo il detto cinese “May You Live in Interesting Times“ per la 58esima Biennale. Si badi però che questo detto cinese va inteso come minaccia e non come augurio.
La struttura che verrà ospitata nell’isola di San Servolo è intitolata a Günther Messner, fratello del famoso Reinhold e morto sul Nanga Parabat. In che modo questa storia trova rilievo?

Julia Frank si dedica proprio a questa storia. Nel 2000 è stato trovato sul Nangat Parbat un reperto osseo, che l’esame del Dna ha permesso di attribuire a Günther Messner. Frank ha lavorato con i dati del DNA, creando una sorta di ghirlanda di corde colorate che ricorda le bandiere tibetane, che ormai spesso anche nelle Alpi si trovano legate alle croci di vetta o ai bivacchi.

HAnnes Egger Bivacco foto©Flyle

Tra i mali dell’arte contemporanea figura un certo amore per i confortevoli salotti, sia in senso stretto che metaforico. Credi che contesti e ambientazioni “scomode” possano essere un modo per risvegliare il fuore artistico?

A questa domanda posso rispondere solo in modo personale: A me non mi interessa il confortevole nell’arte, mi affascina molto di più il rischioso, quello che può andare male. Lo scontato è noioso e non credo che ci porti da nessuna parte. L’arte di per se è una “safe room”, un circuito protetto slegato dalla vita quotidiana, dove nessuno (o quasi nessuno) rischia la propria vita, non è come salire su un gommone di notte in Libia, o di scalare una parete senza corda.

Foto©: 1,2,4 Flyle; 3 from „Tautology“ by Simon Perathoner

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