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March 11, 2019

L’immateriale peso dell’inconscio:
intervista allo scultore Gehard Demetz

Maria Quinz

Gehard Demetz è un’artista della nostra terra. E lo è nel profondo. La sua ricerca si radica sul territorio altoatesino, attingendo all’antica ed eccelsa tradizione della scultura lignea gardenese, ma con tratti personali fortemente contemporanei e un linguaggio forte e viscerale, che sa comunicare ed emozionare a qualsiasi latitudine, arrivando lontano. Nel profondo. 

Nato a Bolzano, Gehard vive e lavora oggi a Selva di Val Gardena dove nella sua bottega/atelier, prendono vita le sue potenti sculture. Ha esposto ovunque in giro per il mondo, sia in mostre collettive che personali, dagli Stati Uniti, alla Spagna, dalla Germania alla Korea. Adesso Gehard ha pronte un paio di mostre, qui da noi in Italia: dal 7 al 23 marzo è alla Galleria Rubin di Milano, mentre dal 4 aprile esporrà le sue sculture in una personale all’interno della scenografica cornice di Palazzo Ducale di Mantova, sotto la direzione di Peter Assmann e la curatela di Marco Tonelli. 

Ne approfittiamo per chiacchierare un po’ con lui. Oltre a lasciar vibrare le sue sculture attraverso le fotografie. Seppur negli stretti confini a due dimensioni delle immagini.

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Gehard, cosa vedremo nelle prossime mostre?

La mostra di Milano espone alcuni miei lavori “in transito” da Torino, dalla Palazzina di caccia di Stupinigi, che andranno poi in esposizione a Mantova, a Palazzo Ducale. A Milano, alla Galleria Rubin, ci sono quattro sculture, mentre dieci saranno i miei lavori in mostra a Mantova. 

Sono contento di portare delle opere nuove, con le quali ho intrapreso un percorso un po’ diverso. Di recente ho acquistato delle sculture tipiche gardenesi di arte sacra e ho scelto di lavorarci come fossero materia grezza. Ho voluto farle mie, modificandole. Nei primi anni, quando lavoravo come artigiano, mi capitava spesso di fare questo genere di scultura tradizionale, fino a non poterne più. Forse, posso dire di “aver superato” questo rifiuto, rimettendoci mano. Ho dato nuova collocazione a una parte della mia storia, usandola come un blocco di legno. Lavoro “dentro” queste sculture e se ho abbastanza materiale, cerco di far uscire da lì una delle mie creature. Una sorta di “ready made” delle opere classiche gardenesi.

Un’altra scultura recente, che esporrò, è realizzata utilizzando dell’altro materiale ligneo preesistente: si tratta di statuine da presepe, che, anche in questo caso, ho acquistato. Le ho usate un po’ come fossero plastilina, materia malleabile con cui ho modellato una forma umana, fatta di soggetti di varia tipologia e foggia: pecore, San Giuseppe, pastori ecc. 

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Questo approccio “ready made” interessa diverse opere in mostra?

Interessa alcuni dei miei lavori, non tutti. A Mantova volevo portare due nuovi progetti, su questa linea, dove cerco di congiungere una figura infantile di otto anni con una figura dell’induismo. Ho usato in un caso il soggetto di Ganesh, nell’altro Shiva. Mi piaceva, nel momento in cui univo queste due personalità, che si perdesse, da una parte, l’idea di religiosità e dall’altra, il carattere infantile. Ciò che si è generato, è per me qualcosa di inaspettato, che non è neanche più figurativo. Ogni figura prende forza dell’altra e ciò che emerge, è cosa nuova. Questo è un tema di riflessione che mi sembra molto stimolante. Lo ritrovo anche nell’attualità dell’Italia, dove ci sono molte commistioni. Si mischiano geni, culture, tradizioni e quel che ne uscirà, è tutto da scoprire. Ci sono però le potenzialità perché possa nascere qualcosa di molto interessante. E in questo la strada è aperta, per cui ognuno può pensare un po’ come vuole. 

Una delle tue sculture si chiama “21 grammi”, come mai?

Sì. Si tratta proprio dell’opera in cui ho lavorato sulla figura di Ganesh. Si chiama così in riferimento agli esperimenti di un medico statunitense (Duncan Mac Dougall), che risalgono agli inizi del Novecento. Tale medico aveva cercato di dimostrare come, al momento della morte, avvenga una diminuzione di peso corporea, stimabile in 21 grammi. Mi ha sempre affascinato il fatto che questo dottore abbia deciso di concentrarsi su una cosa come questa, che a noi può sembrare totalmente astratta, come il peso dell’anima. Questo tema mi ha sempre interessato. È un discorso che seguo già da tanti anni.

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È una riflessione che è presente in altre sculture?

Sì, ritorna spesso, ma con prospettive e spunti diversi. Per esempio, ho sempre trovato interessante gli studi di Rudolf Steiner, nel momento in cui sosteneva che i bambini fino all’ottavo anno di età, hanno la possibilità di sentire l’inconscio. Secondo Steiner, possono sentire “le voci” dei loro avi, gli echi del passato, oltre che del presente, come anche colpe non loro. Superati gli 8 anni – perché, sempre secondo Steiner, abbiamo fasi di passaggio nella vita di 7/8 anni – questa dote andrebbe persa. Anche in questo caso si dava un peso a qualcosa di non visibile. Mi piace pensare che tale aspetto intorno agli otto anni, possa essere tangibile, invece. Per cui questa “dote” svanendo ad un certo punto, possa causare una perdita di peso, mentre un altro peso, di altra natura arrivi ad aggiungersi.

Parte da qui la scelta di scolpire soggetti infantili di quell’età? 

Mi piace dare dei messaggi forti. Se io facessi sculture simili ma con un soggetto adulto, magari con una forbice in mano o con una postura provocatoria, diventerebbe quasi banale. Ma da un bambino non te lo aspetti. Per cui vedo molte persone alle mostre che sembrano disorientate. Probabilmente perché non si aspetterebbero un discorso così forte da un bambino. A me piace spiazzare e creare un dialogo tra lo spettatore e l’opera. Poi se la storia, la riflessione o la trama dei miei ragionamenti varia, non mi piace sempre chiarire quale sia il mio intento per ogni progetto. Mi piace che ognuno si avvicini con il proprio background e la propria storia. Ogni tanto alcune persone ci intravedono dei ragionamenti sulla pedofilia, che sicuramente non erano miei. Ma se qualcuno ha questo tipo di approccio a me sta anche bene. 

Inconscio e spiazzamento, ma anche serietà dei volti infantili. Come mai? 

In molti mi dicono che i volti dei bambini sono sempre così seri… In realtà se guardo e osservo i miei figli quando giocano e sono concentrati sono più spesso seri che sorridenti. Noi adulti andiamo da loro, li abbracciamo e gli chiediamo di sorridere, magari per una foto, ma interrompiamo il più delle volte un momento di gioco in cui sono serissimi e a loro modo, adulti. Li vedi compresi nel loro mondo e spesso fanno delle azioni e dei discorsi molto profondi. Mi capita spesso di chiedermi da dove gli arrivi tutta questa saggezza. E qui ritorno al discorso di prima e agli studi di Steiner. Mi piace perché posso pensare che ci sia in loro qualcosa che viene da lontano. E di conseguenza arrivino a farsi carico di messaggi forti, profondi.

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C’è molto della tua vita nel lavoro che fai?

Nello studio della mia strada espressiva, sì, c’è molto del mio vissuto e dei tempi in cui mi trovo a vivere, oltre al ricercare nella letteratura conferma delle mie riflessioni. Ricordo molto bene il momento in cui mio padre mi ha detto adesso non sei più bambino, certi giochi non si fanno più da adulto. Per cui questo passaggio di crescita è stato da un giorno all’altro. L’ho sentito molto sulla mia pelle, per cui certe cose che erano scusate prima, dopo non le potevi più fare. Sono momenti importanti nella formazione di ogni persona, credo. Sappiamo di poter diventare adulti per cui avremo altre possibilità ma percepiamo, anche inconsciamente, che una parte di noi andrà perduta. 

Quale commistione c’è tra piacere e fatica nel tuo lavoro?

C’è fatica sia psichica che fisica e ci vuole questo impegno da entrambi i punti di vista. Ogni lavoro è una battaglia. Mia moglie si accorge subito se inizio un progetto nuovo…! Ma penso che sia anche la parte bella di questo lavoro, anche se può far male. Il lavoro diventa più sincero. Porti il tuo stato d’animo del momento. Spesso guardo lavori che ho fatto anni fa e capisco ora perché l’ho fatto in quel modo in quel periodo. Adesso lo farei diversamente. Ho anche la fortuna di poter ascoltare la radio tutto il giorno nel mio studio. Seguo l’attualità e certe notizie mi rimangono impresse, mi toccano. Spesso mi chiedo perché proprio alcune e non altre. Poi ci lavoro su e escono dei lavori nuovi. 

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Ti piace “viaggiare” con le tue sculture?

È una parte molto bella del mio lavoro, soprattutto sapendo che hai una mostra che ti aspetta. Quando ho fatto la mia prima esposizione a New York, durante il viaggio in aereo ero emozionatissimo, pensavo che fosse qualcosa di fantastico. Una soddisfazione incredibile. E poi viaggiando, si fanno incontri e scambi interessanti. Sono molto felice che la mia galleria di New York lavori con diversi artisti afro-americani. Finalmente sono sostenuti e hanno una forte identità di gruppo. Mi piace moltissimo il loro modo di lavorare. Trovo che noi altoatesini, essendo gente di confine – anche se non possiamo dire che sia esattamente la stessa cosa – abbiamo diverse similitudini e affinità con loro. Sento molto vicine le problematiche che portano avanti nei progetti artistici e ho la grande fortuna di confrontarmi direttamente con loro. Anche questo per me, è qualcosa di fantastico.

 

 

Foto Egon Dejori 
Courtesy Jack Shainman Gallery

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