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February 22, 2019

Distant eyes: Irene Fenara a Kunst Merano Arte

Mauro Sperandio
Distant eyes di Irene Fenara apre il 2019 del Kunst Merano Arte. Nella galleria in manutenzione, dal 21 al 24 febbraio, gli scatti "rubati" dell'artista trovano la loro ideale collocazione...

Per i Distant eyes di Irene Fenara non si sarebbe potuta trovare occasione migliore di quella offerta dai lavori di installazione del nuovo sistema di videosorveglianza del Kunst Merano Arte. Il lavoro che l’artista bolognese presenterà nella galleria meranese si compone infatti di scatti fotografici estratti dal flusso di immagini riprese da videocamere di sorveglianza private, poste in luoghi anche molto distanti dallo studio di Fenara.
Incontrando l’artista e osservandone il lavoro si ritrova una curiosa commistione tra l’immagine ieratica di una giovane donna in nero ed una divertita, quasi fumettistica, estetica dei soggetti e delle ambientazioni da immortalare. Il “gioco dello spionaggio informatico”, facendosi arte, offre abbondanti spunti di riflessione sul tema del controllo e dell’umana voyeuristica pulsione.
Facciamoci guidare tra ciò che vedono i Distant eyes dalle parole di Irene Fenara.

Quella dell’osservare è per l’artista un’attività irrinunciabile. Di quale distanza dalle cose hai bisogno per il tuo lavoro?

Non saprei dire con precisione, ma con quest’ultimo lavoro sugli autoritratti realizzati con videocamere di sorveglianza posso dire di aver “accorciato le distanze”. Dopo essermi dedicata per alcuni anni a ciò che le videocamere riprendevano, mi era venuta la voglia di andare di persona nei luoghi che vedevo solo virtualmente nel monitor del mio computer. C’è stato quindi un avvicinamento del mio corpo a queste videocamere lontane. La questione della distanze ritorna spesso nel mio lavoro; tra le mie prime opere ce n’è una dedicata alla prossemica, ovvero allo studio della distanza nella comunicazione non verbale e non verbale.

7. Irene Fenara, Photo from surveillance camera

Come nasce il tuo interesse per questo tipo di impianti tecnologici?

Sono sempre stata interessata al modo in cui le persone osservano le cose e, di conseguenza, anche a come le macchine svolgono questa attività al posto nostro. Il mio interesse per la visione automatizzata mi porta a cercare dispositivi che mi permettano di vedere in maniera nuova. Ho iniziato con la Polaroid, sono passata allo scanner e poi alle videocamere di sorveglianza.

Puoi scegliere tra l’infinità di videocamere che la rete ti mette a disposizione e decidere il momento in cui catturare l’immagine. Tuttavia, parte del tuo lavoro, come il posizionamento delle telecamere, sfugge al tuo controllo. Ti piace l’idea che qualcuno ponga, in un certo modo, dei limiti alla tua libertà d’azione?

Trovo una certa somiglianza tra questo lavoro e la fotografia tradizionale. È vero che la telecamera è fissa, ma sono io a decidere quando catturare l’immagine, esattamente come quando si scatta una fotografia. Le registrazioni video su cui intervengo vanno distrutte dopo ventiquattro ore; salvare un frame piuttosto che un altro è per me fare fotografia. A dire il vero, può capitare che si possa intervenire anche sulla porzione di spazio ripresa, dato che alcune videocamere possono essere orientate a piacere. In un video presentato a Kunst Merano Arte, Strugle for life, si può vedere come sono riuscita a muovere una telecamera di un allevamento danese puntandola verso il cielo. Un certo tempo dopo averla spostata, però, la telecamera ritornava automaticamente nella posizione originale. Nel video si percepisce quindi questa battaglia tra me, che volevo guardare il cielo, e la macchina, che voleva sorvegliare il bestiame. Come a mettere a confronto l’idea di inseguire i grandi sogni, alzando la testa, e la quotidianità.

2. Irene Fenara, 21st Century Bird Watching, 2017, digital video, 7'00'', courtesy the artist and UNA Galleria

Le videocamere di cui stiamo parlando sono destinate al controllo di cose, ma anche di persone…

Certo. Desidero far notare alla gente quanto siano diffusi questi “occhi”, perché si prenda consapevolezza di questo fenomeno.

Non intendo fare nessuna valutazione di ordine morale. Possiamo però dire che il tuo lavoro sia un furto di immagini?

Sì e no. Le immagini che io utilizzo vengono da sistemi di sorveglianza realizzati spesso con telecamere che vengono acquistate nei negozi di fai da te. Al momento di installare questi strumenti,  spesso la gente non cambia i codici di sicurezza, mantenendo quelli di fabbrica. Il mio lavoro si è reso possibile da quando queste videocamere sono state messe nel web, per poter controllare quanto riprendono anche a distanza attraverso computer e cellulari. La legge, devo anche sottolineare, non si esprime in maniera precisa su questa materia.

C’è ma stata consapevolezza da parte dei “derubati”?

In tutti questi anni nessuno si è mai accorto di nulla. Anche quando mi è capitato di spostare qualche videocamera ho notato che, nemmeno a distanza di tempo, nessuno si è occupato di cambiare i codici di accesso. Mi piace essere così, diciamo, silenziosa nel rubare.

Il lavoro dell’artista, forse, è legato tutto all’idea di rubare immagini, scorci, emozioni… riproponendoli al pubblico.

Questo pensiero non mi ha mai ostacolato. In passato ho lavorato con fotografie trovate, appropriandomi di immagini scattate da qualcun altro, ma rielaborandole anche semplicemente con un pensiero.

4. Irene Fenara, Self Portrait from Surveillance Camera, 2018, digital print on Hahnemühle paper, 16x21 cm, courtesy the artist and UNA Galleria

Come ti è venuta l’idea di farti ritrarre da queste videocamere?

Mi interessa essere oggetto consapevole del controllo. Quando vengo ripresa sono sempre vestita allo stesso modo, in maniera da essere sempre il più simile possibile a me stessa in tutte le fotografie, così da trasformare il mio corpo in un’unità di misura. Quando stampo le fotografie determino la loro grandezza sulla base della dimensione della mia figura, che risulta così sempre alta uguale. La mia mia distanza dall’obiettivo influenza la grandezza della fotografia. Se sono molto piccola nell’immagine, la fotografia sarà molto grande e viceversa. Possiamo dire che si tratta di una sorta di performance, che inizia quando esco dal mio studio e si conclude al mio rientro.

Siamo naturalmente più occupati ad osservare, che ad osservarci. La banale occasione di trovarti davanti ad uno specchio – che possiamo dire essere una sorta di auto-videocamera-monitor – che effetto ti fa?

Nulla di particolare, direi. Mi è capitato di scrivere un testo riguardo a questo mio lavoro paragonandolo ai selfie. Le immagini che io creo non sono propriamente degli autoritratti, né dei selfie. Entrambe le tipologie di immagini sono accomunate però da una prospettiva che parte dall’alto e dal fatto che non siamo noi a controllare direttamente la creazione dell’immagine.

Foto©: 1) Irene Fenara, Self Portrait from Surveillance Camera, 2018, digital print on Hahnemühle paper, 58x80cm cm, courtesy the artist and UNA Galleria; 2) Irene Fenara, Photo from surveillance camera; 3) Irene Fenara, 21st Century Bird Watching, 2017, digital video, 7’00”, courtesy the artist and UNA Galleria; 4) Irene Fenara, Self Portrait from Surveillance Camera, 2018, digital print on Hahnemühle paper, 16×21 cm, courtesy the artist and UNA Galleria.

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