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February 4, 2019
Herbert Schönweger: artisticamente utile, generosamente bello
Mauro Sperandio
Da un sessantennio Herbert Schönweger impiega abilmente i modi e i linguaggi dell’arte con le necessità dell’abitare, del lavorare, dello stare e dell’intrattenersi. Ristoranti, alberghi, fabbricati industriali, musei, municipi, banche, scuole, case di riposo, edifici religiosi e ospedali in tutto l’Alto Adige, grazie al suo lavoro, si presentano al pubblico nelle loro funzioni con immagini vivide, che fanno intuire e ricordare, che invitano, indicano e invogliano.
Lo studio della natura e della storia dell’arte locale offrono ad Herbert Schönweger la consapevolezza del contesto in cui il suo lavoro si inserisce. La semiotica rende i suoi “messaggi” efficaci. La vis artistica dona al suo lavoro piacevolezza ed efficacia che, come per tutto ciò che è bello, sfugge a misurazione.
La pubblicazione Herbert Schönweger Farbdesign, presentata recentemente al Kunst Merano Arte, aiuta il lettore ha ricomporre il diversificato mosaico di questo prolifico “designer del colore”.
Il suo lavoro sposa l’utile e il dilettevole, l’arte e la funzionalità, soddisfacendo la necessità di creare ambienti funzionali e piacevoli, abbellendo e fornendo informazioni. Si sente più designer o artista?
La questione è, direi, filosofica, perché implica la domanda “cosa significa lavorare in campo artistico?”. All’artista, secondo l’espressione l’art pour l’art, non deve importare nulla di ciò che lo circonda. Nel mio caso, però, ho scelto di lavorare in un’altra direzione, mettendo a servizio l’arte per far sentire bene le persone; per permettere loro di orientarsi; per infondere ad un certo pubblico determinate sensazioni, come può accadere nel caso dei ristorante, che deve avere delle caratteristiche che lo rendano accogliente e invogliano a ritornare. Desidero inserire l’elemento artistico, il bello, nel quotidiano della gente e non me ne frega niente se qualche artista può storcere il naso pensando alle mie intenzioni.
I suoi genitori avevano un’impresa di dipinture e questo le ha permesso di avere sin da bambino un rapporto stretto con il colore. Crede di poter identificare, un po’ come si farebbe con il “piatto della domenica”, un colore di famiglia, di casa?
Ciò che lei mi chiede è una cosa personale, un pensiero che devo tenere lontano dal mio lavoro, perché lo potrebbe influenzare pericolosamente. Cerco sempre di differenziare le mie creazioni, tenendo in disparte le preferenze personali e badando a soddisfare le necessità degli ambienti in cui opero, anche a discapito della possibilità di rendere il mio lavoro riconoscibile. Tuttavia, dicono che la mia mano si intuisca sempre: questo è sicuramente frutto della mia formazione e delle mie esperienze. Nel laboratorio del mio papà e della mia mamma i miei fratelli ed io abbiamo sempre avuto la possibilità di sperimentare con i colori, sviluppando una certa attitudine a creare tramite il colore e la forma. Tra le varie cose, ricordo, dipingemmo un cavallo di legno.
La parte artistica del suo lavoro ha sicuramente una componente emotiva, che può essere messa alla prova da contesti che non le sono affini. Come affronta i lavori meno “piacevoli”?
Sono incuriosito dalle situazioni che non mi appartengono. Dover lavorare per un ristorante ultramoderno e con una cucina asettica è per me una sfida interessante. Altrettanto interessante è lavorare per un banca, anche se questi “templi dei numeri” non sono tra i luoghi che preferisco. Poche volte è successo che non abbia raggiunto i risultati che mi ero prefisso, ma questo è derivato non da un’incapacità tecnica, ma dal fatto che non si era creata col committente la “chimica” giusta.
Sono numerose le facciate di edifici pubblici e privati che portano la sua firma e che si possono quindi incontrare viaggiando per l’Alto Adige. Che rapporto ha con i suoi lavori?
Qualche volta, trovandomi davanti ad una mia opera, la guardo e mi saluto: “Ciao, Herbert! È da un po’ che non ci vediamo!”. Si tratta di un rapporto che non finisce mai e per quanto riguarda i lavori più vecchi, li accetto per come sono stati fatti all’epoca, anche se ora li farei magari un po’ diversamente.
Nel suo curriculum figurano anche delle scenografie per il teatro e la televisione. Occuparsi del design di un ambiente pubblico quali punti in comune presenta con il lavoro per lo spettacolo?
Svariati. Io mi occupo di creare degli spazi per vivere, sia che si tratti di ristoranti, case di cura, scuole o ospedali. In quest’ultimo caso cercherò di aiutare la gente che sta male, nel primo rendendo alla clientela del ristorante il pasto più piacevole. Per fare questo mi devo immaginare delle scene, che solo nel momento in cui vengono vissute dal pubblico riesco a vedere in tutta la loro potenzialità. Parlando di alberghi, mi immagino la scena di qualcuno che mi viene incontro con un bel mazzo di fiori, accogliendomi con un bel sorriso. Con il mio lavoro cerco di ricreare queste sensazioni, utilizzando pitture, tessuti e luci. L’aspetto psicologico è fondamentale in ciò che faccio.
Che rapporto riesce ad intrattenere con gli architetti con cui si confronta?
Loro hanno un’altra filosofia, con cui a volte mi scontro, che bada più alla plasticità e alla funzionalità degli ambienti e un po’ meno alla loro anima. Raramente è capitato che l’architetto si volesse confrontare con me durante la progettazione; più spesso entro in campo in un secondo momento. È poi frequente che siano i clienti ad invitare al confronto me e l’architetto del caso.
Mi scusi se approfitto delle sue conoscenze di designer ed esperto di colore per farle una domanda un po’ sciocca. Per quale motivo, secondo lei, sono così numerosi gli architetti e i suoi colleghi che si vestono in nero?
(ride n.d.r.) Perché i preti si vestono di nero? Perché i giudici si vestono di nero? Perché sia loro riconosciuto il ruolo di autorità. Spesso chi si veste di nero cerca di vedersi tributata una certa autorevolezza e teme che il proprio lavoro non sia perfetto. Il nero, come il bianco, sono colori assoluti che non lasciano spazio al dubbio, ma nemmeno alla vita.
La sua conoscenza dei colori è solida e profonda. Se potesse con una sinestesia mangiare, annusare, ascoltare o toccare una delle tante sfumature che le sono note, quale sceglierebbe?
Le rispondo al contrario: durante una degustazione organizzata da Othmar Kiem, giornalista e grande esperto di vini, ci è stato chiesto di descrivere un particolare vino, elencando i sapori e i profumi che eravamo in grado di riconoscere. Io cominciai ad annotare: “è come un vecchio armadio rinascimentale, dipinto di vari colori e con delle parti dorate”. Quei colori avevano il gusto del vino che stavo assaggiando.
Mi capita poi di vedere dei colori in movimento quando ascolto la musica e trovo che sia una bella esperienza.
Queste esperienze riescono ad ispirare il suo lavoro?
Non lo so. Dietro a ciò che sappiamo e riconosciamo consapevolmente c’è un mondo con una sua logica e delle regole che non sono esprimibili e descrivibili. Ci sono delle dinamiche interne al nostro pensiero che è meglio vivere, senza analizzarle o volerle incasellarle.
Terminato il suo lavoro di “artista utile”, le resta del tempo per dedicarsi all’arte per l’arte?
Certo, è un’attività per me molto importante. Lo faccio per me stesso, senza vendere le mie opere, perché mi farebbe incazzare vedere che la gente acquisti i miei quadri perché c’è scritto “Herbert Schönweger” e non perché li amano. Ho regalato o prestato alcuni dipinti ad amici che so che li avrebbero accolti in una certa maniera, perché ogni quadro rappresenta una parte molto personale della mia vita.
Foto ©: Herbert Schönweger
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