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December 5, 2018

Dio ride – Nish Koshe:
Moni Ovadia allo Stabile

Mauro Sperandio

Arriverà un punto di questa intervista in cui Moni Ovadia dirà: “credo di essere sostenuto da una fortissima cultura espressiva qual è quella … dell’ebraismo della diaspora centro-est europea”.

Nelle sue parole e nelle sue voci, in lui che canta e che balla, tutto questo è subito chiaro: si colgono frammenti di fanciulle leggiadre, signori con le tiracche e accattoni che ne avrebbero bisogno, ieratici mistici, ossequiosi credenti e cacciatori di pagnotte. Tipi umani che si ritrovano in tutte le culture, ma che, nel caso di Ovadia, parlano una lingua che impasta il tedesco con l’ebraico, le lingue slave e neolatine. Ma non è tutto, perché, oltre allo spettacolo, Moni Ovadia porta a teatro un’acuta e coraggiosa capacità di osservare la realtà contemporanea, confrontandola con i torti e le ragioni del passato.

Dal 6 al 9 dicembre, al Teatro Stabile di Bolzano, Moni Ovadia sarà in scena con  Dio ride – Nish Koshe.

A venticinque anni da Oylem Goylem è oggi a teatro con Dio ride – Nish Koshe. Nel “formato” lo spettacolo sembrerebbe simile. Cosa caratterizza quest’ultima produzione?

Si tratta di uno spettacolo nuovo, che è drammaturgicamente accomunato a Oylem Goylem dal piccolo palcoscenico del cabaret tedesco, dalla presenza dei musicisti e di un narratore cantante, che sono io. Il contenuto è fondato sulla spiritualità umoristica paradossale. C’è però una differenza fondamentale: alle nostre spalle si trova un muro scenografato, quello della Palestina, su cui vengono proiettate immagini dell’ebraismo spirituale, diasporico, sublime. Sotto queste immagini,

La cultura yiddish ci propone dei tipi umani che assumono valore di paradigma. Come si caratterizzano i personaggi che porta in scena?

Sono tipizzazioni di personaggi reali, che sono esistiti ed ancora esistono, come può dimostrare un incontro con un ebreo odessita negli Stati Uniti d’America oppure con un ebreo polacco. Entrambi manifesteranno ancora quei tratti che diventano topos umoristico. Ho conosciuto delle mamme ebree con caratteristiche così pittoresche da diventare “naturalmente” dei caratteri. Lo stesso vale per gli shnorrer (mendicanti) e l’”ebreo arguto”, figure che si fanno facilmente paradigmatiche.

(La voce si fa stentorea, quasi da cine-giornale)
“In occasione della pubblicazione dell’edizione completa dell’opera di William Shakespeare tradotta in yiddish, appare sul giornale la seguente notizia: “Editore di Nogradov annuncia la pubblicazione dell’opera omnia di William Shakespeare, tradotte in yiddish e migliorate dal signor Rabinovich”.

DIO RIDE NISH KOSHE - PH UMBERTO FAVRETTO (16)

Tra i topos legati all’ebraismo figura quello dell’ebreo errante. Tale espressione, in maniera discutibilmente adeguata, descrive una ripetuta condizione che ha caratterizzato il popolo d’Israele. Quali spunti di riflessioni ci offre tuttavia?

L’espressione “ebreo errante” è il risultato di una traduzione scorretta di “Der ewige Jude” ovvero “L’ebreo eterno”. Si tratta di una raffigurazione cristiana, non ebraica, che ha a che fare con l’esilio; concetto con cui l’ebraismo si è sempre confrontato: a partire dall’esilio egiziano, passando per i quarant’anni passati nel deserto, per i circa quattro secoli dell’esilio babilonese e fino all’esilio bimillenario, successivo alla distruzione del secondo tempio di Gerusalemme. La condizione dell’esilio è dunque interiorizzata nell’ebreo. C’è un racconto chassidico nel quale uno dei più grandi maestri del chassidismo, il Maggid di Mezeritch (Rabbi Dov Ber di Mezeritch) dice, vado a braccio: “Ora nell’esilio, la Shekhinah (concetto assimilabile allo Spirito Santo) scende più facilmente tra gli uomini di quanto facesse quando era in piedi il grande tempio di Gerusalemme. Un re fu cacciato dal suo regno e se ne dovette andare ramingo. Se andava in una povera casa dove veniva modestamente alloggiato e nutrito, ma accolto da re, lui si sentiva a casa sua come quando un tempo era nel suo regno con i suoi più intimi. E così, proprio così, fa anche il Santo Benedetto (Dio) da quando è in esilio”.

Questa condizione si fa dunque luogo privo di confini, ma che utile a realizzarsi?

L’esilio è dichiarato come il luogo dello splendore dell’identità più intima dell’essere umano. L’esiliato ha un’anima speciale: obliqua, tormentata, ma anche aperta. Un esiliato guarda un altro uomo non nella carta d’identità o nel passaporto, ma negli occhi, per vedere se ha davanti un’anima con cui si può relazionare. Nell’ebraismo c’è sempre stata questa tensione tra il concetto di esilio e quello della terra. A mio personalissimo parere, desunto da Levitico 25,23, la terra andrebbe vissuta da esuli, non certo in una prospettiva nazionalista. Il nazionalismo è l’idolatria della terra, ovvero la peggiore delle idolatrie. Questo versetto annunzia il giubileo e vede Dio parlare agli ebrei dicendo “La terra non verrà venduta in perpetuità, perché la terra è mia. Voi ci vivrete come forestieri e ospiti insieme allo straniero, che godrà dei tuoi stessi statuti”. Dice ancora il Levitico: “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”.
La Terra Santa è quindi tale perché ci si vive da stranieri tra gli stranieri. È questa l’unica condizione che può garantire la pace su questa terra. In un interessantissimo libro del Talmud, i Pirkei Avot (Massime dei Padri), alcuni maestri si chiedono perché il libro della Genesi affermi che tutti gli uomini discendono da una singola matrice, Adamo. La risposta che si danno è che così è per la pace, affinché nessun essere umano possa dire al suo simile “il tuo progenitore era migliore del mio”. Questo si compirà quando ci sentiremo tutti stranieri tra gli stranieri. Non prima gli italiani, quindi, ma prima gli uomini e prima ancora gli ultimi. Negli ultimi infatti il divino splende più che nei primi.

Nel suo lavoro lo studio disciplinato, l’ironia e l’impegno civile si fondo. Affidandomi alla sua attenta capacità critica, le chiedo: quali poteri riconosce alla risata, anche in tempi così poco ironici e auto-ironici?

Comicità, satira, ironia e umorismo sono espressioni confinanti. L’umorismo, quello ebraico in particolare, mira a creare una situazione imprevista, che si colloca su un piano terzo rispetto ai due piani convenzionalmente contrapposti. Le faccio un esempio:
Un nazista dice ad un ebreo: “Se la Germania va in rovina è tutta colpa degli ebrei”. Al che l’ebreo gli risponde “Sono totalmente d’accordo con te, la colpa è degli ebrei e dei corridori ciclisti.” Il nazista ribatte “Beh! Perché dei corridori ciclisti?!?” E l’ebreo: “Beh”! Perché degli ebrei?!?”.

L’elemento imprevisto ha mozzato la stupidità della contrapposizione.

DIO RIDE NISH KOSHE - PH UMBERTO FAVRETTO (8)

La storia del popolo ebraico è punteggiata da immani tragedie, ma allo stesso tempo ricca di vivacissime manifestazioni nei campi delle arti e della socialità. Ai non ebrei, di frequente, il lato gioioso del popolo d’Israele è pressoché ignoto. Questa visione parziale non crea essa stessa nocumento all’ebraismo?

Sono d’accordo con lei. Il chassidismo, in particolar modo, ha portato nella nostra cultura l’aspetto gioioso, estatico, profondissimo e vertiginoso allo stesso tempo. Per i maestri chassidici Dio si celebra con il canto, la danza, mangiando e bevendo bene e abbondantemente, fumando e fiutando tabacco. L’ebraismo è solo parzialmente una religione, è piuttosto un’ortoprassi, cioè un modello di pensiero e comportamento. Al suo centro c’è la vita, perché in essa tutto è possibile.
La mancata conoscenza del lato gioioso dell’ebraismo non è solo responsabilità di chi l’ebraismo non conosce, ma anche di alcuni ebrei che della memoria della Shoa ha fatto un idolo, ovvero un pensiero ossificato, ossessivo, che domina chi lo coltiva. Ricordare è un dovere, su questo non si discute, ma senza idolatrare il ricordo. Oggi assistiamo ad un fenomeno, messo in atto principalmente dalle autorità di governo e militari israeliane, che vede una terrificante strumentalizzazione della Shoa. La vessazione, la colonizzazione e l’assedio del popolo palestinese non possono trovare giustificazione nei tormenti che gli ebrei hanno patito durante la persecuzione nazifascista. Queste vicende fanno male innanzitutto all’ebraismo stesso; i maestri dell’ebraismo dicono infatti che, per accedere alla dignità di ebreo, devi prima accedere alla dignità di essere umano.

Lei non si definisce né attore né cantante, ma…

…modesto creatore di eventi musical-teatrali. Non vengo da nessuna scuola di recitazione; uso molto la mia voce, che mi dicono essere molto espressiva, ma non sono un cantante in senso classico. Mi capitò di sentir cantare Lucio Dalla, che con grande rammarico conobbi tardivamente, a distanza ravvicinata. Rimasi pietrificato dalla bellezza e dal nitore della sua voce. Quando ci fu l’occasione di parlargli gli chiesi: “Lucio, come fai a cantare in quel modo?”. Lui mi rispose: “Sarà perché non sono un cantante?”. Successivamente, durante le prove di uno spettacolo a cui partecipavamo entrambi, mi sentì cantare una brano che prevedeva una parte di improvvisazione. Lucio mi sentì e rimase stupefatto. Andò in giro per il paese in cui ci trovavamo a dire agli altri artisti che partecipavano all’evento “Non ho mai sentito nessuno cantare così: Moni Ovadia ha la voce più straordinaria che io abbia sentito in questo paese!”. Quando lo venne a dire a me, io gli risposi citandolo: “Sarà perché non sono un cantante?”.
Uso la voce e quel tanto di talento creativo che mi è toccato, ma credo di essere sostenuto da una fortissima cultura espressiva qual è quella della Yiddishkeit, cioè dell’ebraismo della diaspora centro-est europea.

Foto: ©Umberto Favretto

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