Culture + Arts > Performing Arts

November 14, 2018

La parabola di Chet Baker raccontata (anche) con la tromba di Paolo Fresu

Claudia Gelati

Eh si, mi erano mancate le poltroncine rosse del Teatro Stabile. Quel brusio gioioso della gente che si incontra nel foyer del teatro. Ebbene, lo ammetto: mi sento sempre un po’ più speciale, un po’ più brillante, ma si dai un po’ più glamour a teatro… anche se, alla fine, indosso sempre lo stesso cappotto dell’anno scorso ed esco in compagnia di io, me e me stessa.
C’è qualcosa di vibrante, nell’attesa del fantomatico momento in cui si entra in sala. La stagione teatrale per me è anche un po’ sinonimo del tepore autunnale e del raccoglimento dell’inverno che verrà: sarebbe certamente molto strano immaginarsi a teatro con le Birkenstock, simbolo per antonomasia dell’estate atesina, o un’audace bikini, no?

Teatro Stabile di BolzanoIl protagonista di questo primo spettacolo della stagione teatrale 2018/19, è il jazz in tutta la sua maestosità… no, non quella robaccia che vi rifilano agli aperitivi fighetti, un po’ lounge (che poi cosa vuol dire?!), tra una hit e l’altra, o peggio ancora le musichette da ascensore.
Il jazz quello autentico, una musica vissuta –nel bene e nel male– sulla pelle, feroce più di una storia di Gangster, con i quei suoi standard che mi/ti/ci/vi riempiono il cuore e sanno raccontare tutta la felicità, la delusione, la tristezza, la nostalgia, la malinconia, la rabbia di questo nostra benedetta vita, da piccoli esseri umani. Quella musica che è stata composta nel grande secolo, ma che risuona ancora oggi, sul piatto del giradischi (o su Spotify), più autentica che mai.
Il jazz, dicevamo, è il protagonista. Ma di quale spettacolo, insomma? Ah sì, giusto… Signori e signore: “Tempo di CHET: la versione di Chet Baker” –scritto a due mani da Leo Muscato e Laura Perini– è la frammentata narrazione della vita di Chet Baker, forse uno tra i più controversi jazzer del ‘900, uno di quelli che è morto e rinato almeno mille volte attraverso (e con) la sua musica.
Il sipario si apre: non siamo più a Bolzano, ne sono certa! Sembra proprio di essere stati catapultati dentro uno di quei jazz club americani: il bancone da bar, gli sgabelli alti, il tavolino e la luce elettrica e fredda delle insegne a neon a sedurci. A completare la scena –opera di Andrea Belli– è una poltrona rossa sul lato sinistro del palco: una sorta di confessionale dove, nel corso della narrazione, gli amici, le amanti, i nemici o i conoscenti raccontano Chet Baker e ricostruiscono così la sua vita travagliata. Charlie Parker, i colleghi/amici/nemici Bob Withlock, Dick Twardzik, Peter Littman, il discografico/impresario Dick Bock, l’amante-amata Carol Jackson… a tutti tocca, prima o poi, sedersi su quella poltrona per raccontare, per raccontarsi.
Laggiù il piano rialzato occupato dall’orchestrina, che forse tanto -ina non è: Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso accompagnano la tromba di Paolo Fresu, una delle punte di diamante del jazz italiano.

La prima volta che ho sentito Paolo Fresu dal vivo, è stato diversi anni fa, nella mia piatta pianura, insieme al fisarmonicista Richard Galliano. Ero una ragazzina, sì una ragazzina con la musica in testa e la chitarra in mano. Fresu, con quel suo modo di muoversi e dondolarsi sulla sedia mentre suonava, mi era sembrato così umile e autentico. Una fonte di ispirazione, per me che –nonostante tutto– mi sono sempre rifiutata categoricamente di pensare alla musica come ad un passatempo adolescenziale. Avevo, poi, letto “Come il jazz può cambiarti la vita” di Wynton Marsalis e non passò molto tempo a quando decisi di perdermi tra le pagine di “Musica dentro” di Fresu (appunto): una narrazione fluida e senza fronzoli, condita talvolta con lo slang sardo. E’ stato bello ed emozionante ritrovarlo nella “mia” Bolzano.

Teatro Stabile di BolzanoQuel Fresu che, con quel suo modo di dondolarsi sulla sedia mentre suona, è sia attore che spettatore della scena. Autore, inoltre, della colonna sonora di questo lungo viaggio di parole, tormenti e musica.
Di Chet Baker i giornali dell’epoca scrissero molto. Scrissero di quel jazzer con la “faccia d’angelo e il cuore di demonio”. Scrissero di quell’ex-bambino prodigio figlio d’arte, nato nell’anno del giovedì nero di Wall Street e (forse) già segnato da un padre che annacquava il peso del fallimento con l’alcool. Scrissero di quel giovane irrequieto, che a vent’anni o giù di lì viene ingaggiato persino da Bird (aka il grande Charlie Parker). Scrissero di quel talento puro, devastato dalla droga, continuamente in fuga dai suoi fantasmi. Scrissero del musicista decaduto, in fuga dall’illusione del sogno americano, verso la più promettente Europa. Scrissero di Chet e dei suoi giorni buoni in Italia, dove bazzicò per parecchio tempo e tentò di aprire un locale, prima di ripiombare nel baratro. Scrissero di quel Chet Baker espulso via via da ogni angolo d’Europa.
Scrissero del Chet Baker che conobbe giovanissimo la luce abbagliante del successo e appena dieci anni dopo, a soli 35 anni, destinato all’oblio.
Scrissero, poi, di del drogato pestato a sangue per un regolamento di conti, con la mandibola fracassata e senza più un dente in bocca.
Scrissero poi di quel fantasma di Chet Baker, libero ma ridotto alla fame, commesso in una pompa di benzina. Scrissero anche però, di quell’uomo che con una serie di denti finti in bocca, imparò, necessariamente, a suonare da capo. Scrissero di tutto ma, alla fine, ciò che resta è la musica: quel dolore ancestrale e quel disordine, che Chet Baker sapeva tradurre in note fluide e rigorose.

“Tempo di Chet: la versione di Chet Baker” mi ha emozionato molto. Sapete perchè?
Perchè è uno spettacolo onesto, senza fronzoli, crudo e utentico. Uno spettacolo che non ha voglia di nascondersi tra le fila del perbenismo e racconta le luci ma anche –e sopratutto– le ombre eterne del musicista, dell’uomo. Uno spettacolo che mi rimarrà nel cuore perchè io, come mi piace dire, senza musica non-so-stare. Uno spettacolo davvero corale, in costante equilibro tra drammaturgia e musica, sorretto dalla maestria degli attori in scena e dalla musica di quel gigante di Paolo Fresu. E’ il caso di dire: “grazie TSB”, decisamente!

Il Jazz è quello che sei. Se sei il nulla, suoni il nulla.”  
Chet Baker

 

Foto credits: Teatro Stabile di Bolzano 

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.