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June 4, 2018

Antonio Villa @ 1+1=3 – GAP @ Museion casa Atelier Haus

Mauro Sperandio

Ospitata dalla casa atelier di Museion, ideata in seno alla casa atelier GAP Glurns Art Point di Glorenza e curata da Elisa Barison e Davide Bevilacqua, 1+1=3 o come (de)costruire uno spazio in tre atti presenta al pubblico diverse prospettive artistiche sul tema della convivenza e della strutturazione degli spazi condivisi.

A ciascuno dei venti artisti coinvolti, che in passato hanno vissuto un periodo di residenza al GAP, è stato chiesto di confrontarsi con un aspetto specifico del tema generale. Nel primo dei tre atti di questa mostra gli artisti coinvolti sono Antonio Villa, Jacob Wolff, Franziska Schink, Maria Mathieu, Pascal Lampert, Pierangelo Giacomuzzi. Antonio Villa, scultore frusinate perfezionatosi in Toscana nella scultura del marmo e in Val Gardena in quella del legno, ha affrontato il tema dell’indissolubile legame che ognuno di noi ha con il proprio passato.

Antonio-Villa
Nel bene e nel male, siamo indissolubilmente legati al nostro passato. Che rapporto hai con le tue origini e con la storia della tua famiglia?

Sento molto forte il legame con il mio territorio di origine, sono legato ai luoghi che ho frequentato durante la mia crescita. È infatti da Isola del Liri, in provincia di Frosinone nel Lazio, il paese conosciuto per le cascate naturali nel centro storico, che ho iniziato ad orientarmi verso il mio modo di percepire lo spazio come artista.
Mi piaceva andare nei luoghi abbandonati, come le molte fabbriche che ormai custodivano delle archeologie industriali senza memoria. Luoghi ideali per cercare il silenzio, per ascoltare la solitudine. Le rovine di una struttura, una stanza, un muro, un pavimento, il mosaico di un cemento andato in frantumi, i macchinari arrugginiti catturavano la mia attenzione: non riuscivo a spiegare a me stesso perché ero così attratto da quegli ambienti.
In quel momento ero sintonizzato con il luogo, con il presente nel suo sostare in abbandono e nel continuo passaggio che mi proiettava dentro una storia passata e futura.
Trovavo la mia pace dentro la solitudine di un luogo, il luogo che, nel momento in cui sarei uscito dalla mia stanza emotiva, sarebbe diventato il mio studio.
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Sono questi luoghi il teatro delle tue prime esperienze artistiche?
Ho iniziato spontaneamente a fotografare i tetti crollati delle case abbandonate, che per me erano strane strutture precarie con giochi di equilibri formati da travi e tegole rotte, sempre in bilico sopra la mia testa.
Dentro queste stanze ho recuperato oggetti sepolti nella polvere, dal fango, ho tirato fuori dalla melma e dalla sabbia oggetti e ricordi, ricostruendoli e compattandoli insieme senza sapere perché, seguendo il mio istinto.
Ho ascoltato il fiume e accarezzato i suoi tronchi, ho immaginato il suo tragitto di spinte d’acqua, ho guardato il suo letto pieno di pesci e sedimenti, ho calpestato le alghe e incontrato i suoi animali selvatici.
Ho rovistato sulle sue sponde bianche di sabbia e nere di melma, recuperando oggetti, materiali e idee senza nessun significato iniziale, seguendo semplicemente la pulsione, il desiderio e la complicità. Questa attrazione era frutto di una inconscia elaborazione che mi avrebbe guidato verso la verità delle cose attraverso la risalita degli oggetti contro la corrente, attraverso la lettura della profondità dalla sua superficie. La storia della mia famiglia è strettamente legata al territorio e ha seguito di pari passo lo sviluppo socio/economico del paese. Dalla condizione contadina dei mie bisnonni fino alla generazione operaia di mio nonno e di mio padre, per poi giungere a me. A mia volta, attraverso la rilettura nostalgica degli stessi luoghi da loro frequentati per vivere, come la fabbrica per il lavoro, il fiume per lo svago e la pesca, ho vissuto questi luoghi come spettatore passivo di tutto quello che era stato ed ora non è più.
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Le tue opere sono connotate da uno spiccato realismo. Quali aspetti dell’esistenza umana ti attirano maggiormente?

Nel mio lavoro ho sempre cercato di cogliere gli aspetti che riguardano l’esistenza umana, ovvero ho sempre avuto un’attrazione per tutto ciò che poeticamente mi parla dell’essere ancorato alla propria condizione, alla propria fragile natura. Mi interessa capire e soffermarmi su tutto quello che riguarda l’umanità, il sentimento umano e tutto ciò che si frappone tra loro.
É sublime la bellezza ma lo è maggiormente quando riusciamo ad osservarla e coglierne l’essenza interna. Il mio scopo è restituirla nei tratti essenziali, filtrati, riuscire a delineare i tratti interiori, il percorso, l’evoluzione della forma e il suo disgregarsi che offrono un unico grande quadro.
La bellezza è nella realtà primaria delle cose ed è quella che cercavano Giotto, Caravaggio, Van Gogh e Giacometti dentro e dietro l’apparenza dei loro modelli e significati. È la verità della realtà che si cela dietro la superficie visibile.
Penso che l’apparenza inganni, questo principio l’ho sempre sostenuto e per questo vale la pena di sforzarsi, perché l’essere umano nasconde la propria natura e la società contribuisce ad alterarla continuamente confondendo la realtà in tante altre realtà e condizioni umane che l’uomo non accetta e spesso ignora.
Per questo ho inteso sempre osservare i momenti che affliggono e che caratterizzano la caducità della vita, la linea del tempo, la degradazione della materia e dell’esistenza umana.
La natura umana ed il contesto urbano che abita sono indivisibili e connessi anche nelle loro fragilità, evoluzioni e stratificazioni. Tutto questo è a portata del mio sguardo.
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La tua ricerca artistica ti ha mai portato a desiderare una solitaria e anonima lontananza?

No. Durante il mio percorso artistico non ho mai sentito l’esigenza di un drastico allontanamento, perché per me è fondamentale restare in contatto continuo con tutto ciò che mi circonda e vivere lo scambio culturale e artistico che sono alla base del mio lavoro. Mi piace però avere dei momenti in cui posso isolarmi. Che sia un luogo, uno spazio mentale oppure il mio laboratorio. In questi momenti ottengo la mia anonima lontananza.

Che relazione si instaura tra te e i soggetti da te ritratti e con le loro raffigurazioni?

L’ideazione, tutto il periodo di studio e di esecuzione di un opera, che sia un dipinto, un’istallazione o una scultura, sono il risultato di una condizione che vivo, che sento e che esploro in ogni aspetto.
Si instaura così un rapporto intimo e spirituale, di continuo scambio e scoperta che inevitabilmente mi porta a trovare nuove soluzioni spesso diverse da quelle che cercavo in partenza. La relazione è  quindi sempre personale e soggettiva, in un primo frangente, e poi tende ad estendersi e divenire una relazione aperta a tutti, uno scambio delle vicende, narrazioni emotive e storiche che mi hanno coinvolto. Cerco di restituirle.

Foto: © Antonio Villa

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