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March 26, 2018

Le radici ebraiche di Merano: ne parla Sabine Mayr

Mauro Sperandio

La bella città lungo il Passirio che oggi possiamo ammirare ha radici che si sono abbeverate a culture differenti. Più cosmopolita di tutte le altre città dell’Alto Adige, Merano deve ai suoi cittadini di religione ebraica la costruzione di importanti strutture e un contributo importante alla vita culturale che ancora oggi genera sicuro riverbero. L’ombra della Shoah, con i milioni di morti con cui ha disseminato il “secolo breve”, non ha mancato di oscurare la soleggiata Merano. A fare luce su questa storia colpevolmente dimenticata  hanno provveduto Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, autori di “Quando la patria uccide“. A Mayr chiediamo di raccontarci il senso e il panorama che le loro ricerche sta svelando.

La città di Merano è nota per la sua vivacità culturale, le numerose e importanti realtà produttive e commerciali, le strutture dedicate alla salute e al benessere. Delle radici che così ce la fanno apparire alcune sono state strappate alla vita e forse alla memoria…

A partire dal 1830, Merano incominciò a svilupparsi come luogo di cura, impiegando i poteri curativi del clima, del siero di latte di capra e dell’uva, come spiega il medico Heinrich Kaan nel suo manuale del 1851. Ancora nel 1851 non esistevano né alberghi, pensioni confortevoli, ristoranti o strutture commerciali, e nemmeno un teatro o altre strutture per l’intrattenimento degli ospiti. Il bell’ambiente e la natura seppero però sopperire a tutte queste mancanze, scrive Kaan. Già dalle prime guide turistiche di Merano emerge la forte presenza di un’opposizione da parte del potere conservatore e di un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli ebrei, atteggiamento che dagli anni ‘70 dell’Ottocento cresce rapidamente e diventa la variante clericale tirolese dell’aggressivo antisemitismo politico di Vienna. Fa riflettere come l’antisemitismo tirolese si manifestò ancora dopo il completo annientamento della comunità ebraica di Merano negli anni 1943-1945, dopo l’assassinio quindi degli ultimi ebrei rimasti a Merano nei campi di sterminio.
La comunità multiculturale di Merano nacque nel 1872 con l’istituzione della Fondazione Königswarter che promosse in città la realizzazione di strutture religiose per ospiti ebrei. Gli ebrei meranesi erano molto attivi, animati dal liberalismo democratico, e si impegnarono per la società che li circondava. Tra gli ebrei vi erano imprenditori innovativi nel settore farmaceutico e chimico, come Alfred Lustig che fondò il primo istituto di radiologia di Merano o come il batteriologo Wolfgang Gronich venuto dalla Bucovina attraverso Vienna e Berlino. Fino alla Prima guerra Mondiale, i medici ebrei costituivano un terzo di tutti i medici a Merano. Un progetto importante della Fondazione Königswarter era quindi la creazione di un sanatorio per ebrei poveri, che, grazie alle offerte provenute da tutto il mondo, veniva aperto nel 1893 e nel 1909 in un’impressionante struttura ampliata e ancora oggi esistente.

Come si potrebbe onorare queste personalità?

Sarebbe bello se la città ricordasse queste personalità pubblicamente, per esempio mediante la denominazione di una strada al primo medico ebraico Raphael Hausmann, forza trainante nella costituzione della Fondazione Königswarter e quindi anche della comunità ebraica di Merano, oppure ai rabbini Aron Tänzer e Adolf Altmann e al professore di filosofia Moritz Lazarus. Si tratta di personaggi di grande cultura, impegnati contro l’antisemitismo in un modo creativo, concreto, fondamentalmente etico, oltre che autori di libri anche famosi, stampati tra l’altro a Merano. Nella città del Passirio Moritz Lazarus concluse la sua “Etica dell’ebraismo”, una delle sue opere principali, che venne citata dal rabbino Aron Tänzer, quando il 27 marzo 1901 inaugurò la sinagoga a Merano, allora era la prima sinagoga in tutto il Tirolo. Meritevole di ricordo è anche la seconda moglie di Moritz Lazarus, Nahida Lazarus, nota già da giovane come attrice, giornalista e soprattutto scrittrice, nonché sostenitrice del Museo e fondatrice dell’associazione per la protezione degli animali. Altre figure ingiustamente dimenticata è quella della scrittrice femminista e salottiera Clara Schreiber, moglie del medico Josef Schreiber, che a Merano diresse il sanatorio Hygiea. Ed ancora, la famiglia Bermann, che a Merano possedeva l’albergo Bellaria, una struttura kasher nota in tutta l’Europa, il sanatorio Waldpark, il ristorante Starkenhof e la pensione Ortler. Grazie all’atteggiamento onesto di sindaco Paul Rösch e di Arno Kompatscher, negli ultimi anni si instaurò però un bel contatto con la famiglia Bermann, che oggi vive in Israele e a Zurigo.
Joachim ed io, nella nostra ricerca, abbiamo inoltre trovato una moltitudine di imprenditori, negozianti, avvocati, artisti, attori, artigiani, fotografi o musicisti oggi dimenticati, e quasi tutti privati dei loro possessi prima della fuga forzata dal 1938 in poi. Queste personalità erano venute a Merano perché qui si stava radunando un pubblico internazionale benestante, ma anche per motivi di salute, come i pazienti del sanatorio ebraico Markus Krys o le sorelle Popelik, espulsi dall’Alto Adige nel 1939 e assassinati durante la Shoah. Altri motivi per venire a Merano erano la violenza antisemita nell’Est, l’antisemitismo Viennese fortemente rivolto a medici e commercianti, e, per personaggi più benestanti, il clima, l’atmosfera “mediterranea” e il fascino di un ambiente tedesco lambito dalla cultura italiana.

Quanto ancora rimane non studiato e diffuso di questa storia?

Col nostro libro abbiamo cercato di comunicare le profonde sofferenze delle famiglie ebraiche sudtirolesi. Con l’aiuto dei nuovi strumenti digitali abbiamo scoperto vittime della Shoah che prima non erano riconosciute come Sudtirolesi. Dal 2011, per la banca dati della comunità ebraica di Merano abbiamo raccolto oltre 5.000 entrate su persone ebree che hanno vissuto in Sudtirolo. Di tanti di loro ancora sappiamo pochissimo. Ci sono ancora da svolgere ricerche su immobili di proprietari ebrei, su attività commerciali o sulle vite di membri della comunità e di pazienti del sanatorio ebraico provenienti da tutta l’Europa.  Alcune ricerche soprattutto su scrittori di provenienza ebraica compariranno in un mio nuovo libro, che uscirà in autunno.

Crede che nella negazione della memoria ci sia stata colpa oppure “umana” voglia di guardare avanti dopo i terribili accadimenti del secondo conflitto mondiale?

Nei primi anni del dopoguerra in Sudtirolo e in Austria, la negazione del passato era utile per poter presentarsi come vittima davanti agli alleati. In Austria venne curato il mito della “prima vittima del nazismo”, nonostante il fatto che alla fine degli anni ‘40, con la Guerra fredda, tutti i partiti corteggiarono i vecchi nazisti, osteggiando i comunisti, che presto non ebbero più rappresentanza nel parlamento. Per il Sudtirolo il vittimismo era ugualmente opportuno nelle trattative politiche. Le sofferenze dei Sudtirolesi sotto il fascismo non possono essere paragonate alle sofferenze e ai danni materiali patiti dagli ebrei del Sudtirolo. Le opinioni politiche dell’era Magnago e Durnwalder relativizzarono i crimini nazisti in questo modo. Era proprio per questo motivo – per l’oblio in cui era relegata la “storia ebraica sudtirolese” e la sua brutale distruzione – che Joachim ed io abbiamo incominciato a ricercare le biografie in un modo più profondo, includendo informazioni biografiche, geografiche, professionali e sugli immobili, stabilendo bellissimi nuovi contatti personali.
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Sono ormai scaduti (o in scadenza) i termini per la segretezza dei dati sensibili che riguardano le delazioni a danno degli ebrei meranesi. Che opinione ha riguardo la diffusione di questi nomi, che sicuramente comprenderanno personaggi noti, forse ancora in vita, o di recente scomparsa?

La nostra intenzione non era incolpare singole persone, volevamo però illustrare la dimensione del profitto economico tratto dall’espulsione degli ebrei dal 1938 in poi e questo era solo possibile nominando le ditte e persone coinvolte. Alcuni  abitanti del Sudtirolo, di lingua tedesca e italiana, coinvolti tentarono di evadere la verità, creando miti intorno agli avvenimenti del ventennio 1930/1940: anche questo motivò il nostro tentativo di demistificare tali racconti figli di una volontaria negazione della memoria, tanto sudtirolese quanto italiana.

Come è stato accolto il vostro libro dalla società e dagli studiosi/intellettuali?

È stato ben accolto, sia dai media austriaci che italiani. Abbiamo avuto tanti colloqui rinfrancanti con persone interessate o venute al Museo ebraico, ma anche con colleghe e colleghi alle scuole. Un grande appoggio è venuto da storici e scienziati, ai quali siamo veramente molto grati, visto che il libro è stato prodotto al di fuori di un istituto universitario. Anche da parte dell’ANPI Alto Adige, allora ancora sotto la direzione di Orfeo Donatini, è venuta tanta e incoraggiante solidarietà. Abbiamo anche avuto l’onore di un’esibizione del maestro Marcello Fera in occasione della prima presentazione del nostro libro nella sinagoga di Merano.

 Con quale atteggiamento ed emozione è stata accolta dalle famiglie ebree meranesi la richiesta di ricordare i tragici eventi del periodo delle persecuzioni?

Il libro è stato possibile solo grazie alla cooperazione delle famiglie ebraiche, grazie alle 15 testimonianze dirette di Aziadé Gabai, Lola Polacco, Roberto Furcht, Cesare Finzi, Fritz Singer, Leopold Bermann ed Emanuele Neiger tra gli altri, e alle numerose testimonianze di discendenti di vittime della Shoah e di sopravvissuti, persone che oggi vivono in Italia, in Israele, in Inghilterra o negli Stati Uniti. Salvo rare remore, tutti ci hanno dato massimo appoggio, perché convinti dell’importanza del nostro sforzo in favore della memoria. Gli incontri sono stati per me emotivamente toccanti, ma anche confortanti, perchè ho potuto entrare in contatto con forze morali veramente enormi, di una magnanima capacità intellettuale. È stato questo per me il dono più bello di tutto il progetto. Oltre questa mia personale opportunità, è stata una soddisfazione per tutti quelli che hanno reso possibile la pubblicazione di questo libro vedere un cambiamento decisivo dell’atteggiamento dei politici sudtirolesi.

Sono previsti altre presentazioni del vostro libro?

Sì. Il più vicino si svolgerà a Milano l’11 aprile, presso la Libreria Claudiana.

Foto ©: Museo ebraico di Merano. (1) Il matrimonio di Sarah Gans e Josef Bermann davanti all’Hotel Bellaria a Merano, il 13 aprile 1926. (2) Emma e Moritz Götz (seduti al centro), in piedi da sinistra Rudolf, Berta, Kathi e Walter Götz all’inizio degli anni Venti. Emma e Moritz furono deportati da Merano il 16 settembre 1943 e non sopravvissero la Shoah. Berta il 1 settembre 1942 fu deportata dal campo di concentramento di Theresienstadt a Raasiku vicino la capitale estone di Tallinn e lì assassinata.

(Si ringrazia l’editore Raetia e la libreria Alte Mühle per la disponibilità)

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