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March 13, 2018
Walter Moroder e le sue figure fuori dal tempo
Mauro Sperandio
Scultore solidamente gardenese, Walter Moroder non mostra nulla dei caratteri della sua terra. Slegato dal tempo come le sue statue lo sono dalla contingenze, l’artista vive a cavallo tra l’adesso e l’eternità. A pochi giorni dall’inaugurazione di una sua personale alla Galleria Doris Ghetta, parliamo con l’artista di come queste visioni entrino nei suo lavori.
Tanto nella tua famiglia, con tuo padre, quanto nel contesto in cui sei nato e cresciuto è presente un’importante tradizione scultorea. Credi che questo in qualche modo ti abbia costretto a faticare per trovare una sua strada?
Posso dire di aver avuto allo stesso tempo vantaggi e svantaggi. L’attività di scultore, che altrove è una professione “eccezionale”, in Val Gardena è un mestiere quasi comune e per questo non di difficile accesso. Se la tradizione mi ha avvantaggiato, è vero anche che non sono mai stato interessato al tipo di scultura che qui si pratica. Non ho quindi faticato molto a liberarmene.
Per quanto in continua evoluzione, il tuo stile ha ora delle caratteristiche ben definite e lontane dall’essere “gardenesi”. Ti è capitato, anche per curiosità, di confrontarti recentemente con i temi e gli stilemi della tradizione?
Sì. Il mio lavoro è rischioso, perché lavoro con la figura – un tema classico – anche se non credo sia possibile fare arte figurativa. Penso infatti che solo con l’astrazione sia possibile fare arte. Trovo che le mie figure siano astratte e per questo i temi della tradizione li considero superati. Prossimamente parteciperò ad una mostra in cui alcuni miei piccoli lavori troveranno posto accanto ad opere di epoca carolingia. Il confronto è in questo caso con una tradizione distante da noi un millennio, e quindi da noi lontana quanto un’astrazione.
La realtà montana, in cui tutti si conoscono, può far desiderare evasione e anonimato. In te e nelle figure che rappresenti pensi siano presenti questi sentimenti?
In tutti c’è il bisogno di confrontarsi con se stessi ed anch’io sento questo bisogno. Vivo in una realtà piccola e ho molti amici. Ho la fortuna poi di avere alcuni amici artisti con cui mi posso confrontare e non soffro di solitudine.
Nel momento di “fare arte” si è però comunque sempre soli. Che me ne stia a New York o tra le montagne, quando mi trovo nel mio studio sono in un mondo solo mio.
Che ruolo riveste il disegno nel tuo processo creativo ed espressivo?
Il disegno è un campo artistico a sé stante ed è alla base del lavoro di scultura: se non sei in grado di disegnare non sei in grado di fare le forme. Ho sempre disegnato tantissimo – specialmente nudi – per capire la figura umana, ma considero questa attività semplice “studio”. Il disegno con finalità puramente artistica lo pratico poco.
Le tue opere sembrano vivere in una realtà senza tempo. Che rapporto hai con il tempo?
La nostra società misura tutto con il tempo. Una domanda che mi viene fatta spesso è “quanto tempo hai impiegato a fare questa scultura?”. Considero però questo fattore irrilevante, perché associato all’idea di investimento e guadagno. È vero che con il passare del tempo giungiamo alla morte, ma è anche vero che tutte le cose importanti della nostra vita non sono misurabili con il tempo e nemmeno in altro modo: l’amore, la gioia e il dolore sfuggono ad ogni misurazione. Il tempo è una convenzione utile per prendere il treno o darsi un appuntamento. L’arte per essere tale deve essere senza tempo.
Cosa credi accomuni le opere selezionate per la mostra che aprirà il 17 marzo?
Il filo conduttore è la “verticale”: l’uomo è un verticale nella natura e l’energia sale in verticale dalla terra verso il cielo. Le mie figure, con le loro somiglianze, hanno in realtà ognuna una vita propria. Ciascuna rappresenta un gradino in più di una scala che mi porterà non so dove…
Foto ©: Foto Ochsenreiter
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