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February 28, 2018

Archetipi, distopie e scarti di memorie: intervista al designer Francesco Faccin

Maria Quinz

Incontro il designer Francesco Faccin, classe 1977, nel suo studio di Milano, tra piante tropicali e strumenti da bottega. Una poetica, la sua, che unisce abilità artigiana e ricerca avanguardistica, tra continuità con la tradizione e sguardo critico sulla contemporaneità, capace di sceverare dalla materia forme archetipiche e senza tempo. Un processo creativo che sembra far emergere l’ossatura profonda ed essenziale che sta dentro le cose. Da due anni Francesco insegna “Product Design” alla Libera Università di Bolzano. Gli chiediamo di raccontarci la sua esperienza bolzanina e non solo.

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Francesco, come è stato il tuo incontro con la Facoltà di Design e la città di Bolzano?
Trovo che siano due gli aspetti più affascinanti della mia esperienza. Dal punto di vista personale vivo un interessante percorso “al contrario”: il passaggio da Milano a una realtà di provincia, quando di solito avviene l’inverso, mi ha permesso di scoprire una dimensione di lavoro più raccolta e concentrata. Nei due giorni di soggiorno bolzanino, in particolare nel momento di solitudine e sospensione del viaggio di andata e ritorno in treno, riesco a concentrarmi e a prendere molte decisioni. C’è in Bolzano una doppia anima che mi piace molto: da una parte la scala ridotta della città, dall’altra il respiro mitteleuropeo, che si percepisce subito ed è molto forte anche in Università.

È palpabile un’atmosfera di apertura, serietà e rigore, cosa che non si ritrova in altre Università italiane. Nonostante abbia insegnato altrove, è la prima volta in cui mi senta realmente un professore universitario in un contesto competitivo con realtà di assoluto livello in giro per il mondo. Questa ambivalenza è speciale.

Equilibrio 2001Ci sono elementi della cultura altoatesina, come per esempio la lavorazione del legno, che si ritrovano nel tuo percorso professionale?
Il mio percorso è profondamente legato al legno. Mi sono formato con l’architetto-liutaio Francesco Rivolta e l’attenzione da ebanista al materiale, quasi rinascimentale, mi ha reso sensibile ai contesti dove è viva tale cultura in tutte le sue forme. L’Alto Adige è all’eccellenza in questo. Qui si percepisce come gli artigiani conoscano la storia di ogni tronco: provenienza, processi di lavorazione e possibilità massime di utilizzo nello sfruttamento virtuoso delle risorse. Tutto ciò rende il sistema autosufficiente e sostenibile. Al contrario l’artigiano della Brianza, per esempio, è completamente slegato dal luogo di provenienza della materia prima a cui lavora. In Alto Adige, in questo come in altri campi, si ha la sensazione forte di una consapevolezza che tutto il percorso sia pulito e chiaro. Realmente, alla fine del processo, si può parlare di artigianato. In questo senso l’Alto Adige è un modello. 

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Dove affonda la tua passione per il design?
Molto prima di decidere di occuparmi di design, mi piaceva raccogliere scarti o parti di cose. Era la fine degli anni Novanta e avevo iniziato a viaggiare, in particolare in America Latina. Partivo da solo con lo zaino e tornavo carico di oggetti all’apparenza inutili, ma che poi negli anni successivi ho iniziato in modo spontaneo ad assemblare. Allora non davo importanza a questa ricerca, era “un passatempo necessario” quanto inconsapevole. Col senno di poi, mi sono reso conto che al design ci sono arrivato anche attraverso quelle ricerche. Non mi interessavano tanto gli oggetti in generale, ma le storie che erano in grado di raccontare. Ciò che mi ha sempre affascinato è come l’uomo produca cose alla stessa velocità con cui se ne disfa e che tutti quegli oggetti diventino reperti delle contemporaneità in cui sono stati originati: è il destino di tutto ciò che noi facciamo come designer. Creo oggetti che prima o poi diventeranno spazzatura o “scarti di memoria”. In sostanza ho iniziato proprio così: raccogliendo spazzatura.

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A cosa stai lavorando in questo momento?
Sto lavorando a dei progetti di produzione industriale che presenterò al Salone del Mobile: una poltroncina in alluminio e cuoio e un tavolo che si chiamerà “Quattro gambe”. 
Il tavolo avrà linee semplicissime ma anche gambe e piani intercambiabili. Da catalogo si potrà creare il proprio mobile nel dettaglio: combinando gambe e piani si avrà una variazione quasi infinita di tavoli. Ho in cantiere poi la rivisitazione di una sedia della tradizione, in collaborazione con una galleria di cui non posso fare ancora il nome. Anche questo è un tema che mi interessa molto: usare oggetti della tradizione come punto di partenza per riflessioni che abbiano a che fare con la trasposizione di quell’oggetto in chiave contemporanea: più che il semplice re-design. Se un oggetto viene prodotto da tempo non è solo perché è bello o funzionale, ma analizzandolo capisci che ha in sé tratti vicini alla perfezione. E quegli elementi possono essere riportati in vita, magari con lavorazioni e materiali nuovi. In musica sarebbe una variazione sul tema. È inutile illudersi pensando che ogni progetto debba essere un’invenzione da ogni punto di vista. Le invenzioni arrivano eccome, anche a 360 gradi, ma più spesso inaspettatamente e all’interno di un flusso di ricerca in continuità con il passato. 

Triennale Honey-Photo Stefania Giorgi

 Recentemente il tuo volto è stato immortalato dal fotografo Platon per il calendario Lavazza 2018/2030 e sei stato scelto come uno dei 17 ambasciatori delle Nazioni Unite con il tuo progetto Honey Factory. Ci racconti di cosa si tratta?
Ho presentato “Honey Factory” in concomitanza con Expo 2015, commissionato da Expo e Salone del Mobile, intorno al tema dell’apicultura urbana. Si tratta di una micro architettura pensata per la didattica, che vuole sensibilizzare al tema del ripopolamento nelle città di insetti impollinatori. Partendo dalle api, intendevo creare uno sportello dove informarsi e riflettere su tutta una serie di problematiche legate all’ambiente. L’anno scorso sono stato contattato da Lavazza che da 25 anni realizza un calendario fotografico a tema e che quest’anno ha deciso di promuovere i 17 “Global Goals”, ancora poco noti: si tratta dei 17 punti che le Nazioni Unite hanno stilato nel 2015 con 192 paesi e costituiscono gli obbiettivi da raggiungere entro il 2030 in più settori. Una sorta di deadline posta dalle Nazioni Unite, oltre cui il mondo rischia seriamente di collassare. Il mio progetto è stato scelto per il Goal n.11: “Città e Comunità sostenibili”. L’idea alla base del progetto è che le cose debbano partire dal basso, cioè che siano le comunità dentro le città a creare momenti di sensibilizzazione e attivare cambiamenti veri. Il messaggio è che tutti sono chiamati a partecipare: sono tante piccole decisioni che, come in una catena, possono cambiare il mondo.

Con gli studenti hai ora qualche progetto particolare?
Sì, posso anticipare che il prossimo semestre lavorerò con Pietro Corraini, editore mantovano-milanese e mio collega a Bolzano, a un corso condiviso su distopia e post-apocalittico. Il tema, “design after human”, naturalmente è un paradosso. Il sottotitolo sarà: “la distopia è ora”. Perché, riallacciandomi al discorso di prima, credo sia giusto che gli studenti, progettisti del futuro, prendano consapevolezza che bisogna lavorare affinché certe cose non succedano. Non si può più progettare come se vivessimo in una società borghese di metà Novecento o del boom economico. Viviamo già in un periodo storico drammaticamente distopico, anche se estremamente affascinante. Come dice Paola Antonelli, si deve uscire dalla zona di confort per progettare in modo contemporaneo e far germinare progetti “inquietanti”, cioè in grado di smuovere profondamente il pensiero. Portrait by Carlo Piro 

Crediti fotografici:
foto 1: Honey Factory, ph by Delfino Sisto Legnani 
foto 3: Equilibrio 2001
foto 4: Pelleossa, ph Andrea Basil
foto 5: ph Stefania Giorgi, ElleDEcorItalia
foto 6: Triennale Honey, ph Stefania Giorgi
foto 7: Portrait by Carlo Piro

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