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June 6, 2017

Viva l’arte vera. Breve cronaca dalla Biennale di Venezia

Emanuele Quinz

Sono passate tre settimane dall’apertura della Biennale di Venezia. Dopo l’infuocata kermesse dei vernissage, e quella dei commenti a caldo, si passa ad una fase più calma, mentre la frequentazione del pubblico sembra stabilizzarsi e l’attenzione del mondo dell’arte si sposta frenetica verso gli eventi in arrivo, verso Kassel, verso Münster o Basilea.
Allora, approfittiamo di questa calma per fare un rapido bilancio di questa Biennale, e magari per andare controcorrente. Tutti i critici sembrano accordarsi sull’eccellente programma di eventi paralleli (dalla sofisticata esposizione The Boat is Leaking, The Captain Lied”, curata dallo scrittore e regista Alexander Kluge, l’artista Thomas Demand, la scenografa e costumista Anna Viebrock e il curatore Udo Kittelmann, alla immancabile appuntamento con Axel Vervoordt e Daniela Ferretti al Palazzo Fortuny, in cui si celebra l’intuizione, e poi i Vetri di Sottsass e Alighiero Boetti alla Fondazione Cini), e allo stesso tempo deplorano il rutilante exploit spettacolar-commerciale di Damien Hirst a Palazzo Grassi e Punta della Dogana (sottolineando che “comunque va visto”). Sui padiglioni nazionali, le opinioni si fanno più divergenti. Personalmente, ho apprezzato la generosità del progetto di Xavier Veilhan che ha trasformato il Padiglione francese in una sala prove in cui si alternano musicisti di diverse formazioni e culture, o l’austerità quasi glamour del Padiglione tedesco, abitata dai performer spettrali e bellissimi di Anne Imhof, senza dimenticare quelli della Svizzera, del Sud Africa e del Giappone. E certo non può lasciare indifferenti il luttuoso Padiglione italiano, in cui le tre proposte di Roberto Cuoghi, Adelita Husni-Bey e Giorgio Andreotta Calò sembrano levigate da un’unità atmosferica, un nero come la pece, ma iridato da suggestive risonanze e vertigini.

Fin qui, mi sento di seguire le voci dei critici titolati, che, nonostante qualche variazione o deviazione contrappuntistica, sembrano tutti intonare la stessa melodia. Ma trovo stonate le critiche dell’esposizione di Christine Macel, che si snoda nelle due sedi delle Corderie dell’Arsenale e nell’ex-Padiglione Italia, ora ribattezzato Padiglione Centrale – delle critiche ingiuste, spesso pregiudiziali. Ed è qui che voglio andare controcorrente.
Premetto che non avevo apprezzato per nulla la precedente edizione, curata da Okwui Enwezor, in cui “tutti i futuri del mondo” (questo era il titolo) sembravano rivolti al passato, in cui la prospettiva politica di molte opere era ridicolizzata dall’ostentazione del proposito curatoriale.
Macel si é spinta sicuramente in un’altra direzione. Alcuni commenti hanno, giustamente, rilevato un’atmosfera diversa, non più tesa sulle asperità del mondo, ma al contrario labile, come uno di quei giardini sotto vetro che vanno oggi di moda – fuori dal tempo, lontana dai tormenti della società e persino dalle polemiche che sollevano il microcosmo dell’arte. Il padiglione centrale appare un po’ spento, in tono sommesso, nonostante un ingresso animato dagli atelier di Olafur Eliasson e un’esaltante elogio dell’ozio come momento fondatore: le opere più pungenti, come quelle storiche di Franz West e di Mladen Stilinovic, si perdono in un mare di pitture spesso senza personalità. Invece  l’Arsenale è colorato, trabocca di opere vagamente lanuginose, di fiori e animali di pezza, di bolle di vetro o di grotte abitate da scene dionisiache o psichedeliche (Pauline Curnier Jardin), si passa dai feltri di Franz Ehrard Walter alle tende-ragnatele di Ernesto Neto, che celebrano, con leggerezza, i riti della partecipazione, troppo spesso appesantiti dalla retorica dell’impegno forzato. Tutte queste opere, a metà strada tra il feticcio e il totem, sembrano isolate dal mondo, come se fossero atterrate all’improvviso in quella foresta di colonne, ma ad una seconda lettura appaiono connesse da legami tellurici profondi, da un magmatico magnetismo sotterraneo, oppure da volatili intrecci, come le maglie che compongono un tessuto immenso e invisibile. Allo stesso tempo, sembrano non prendersi sul serio. O forse no, questo apparente caos vuole proprio prendere sul serio la vera missione dell’arte – che forse non è quella di farsi critica, come sempre di più impone l’imperativo di un mercato paradossale che si nutre della sua contestazione, ma di aprire orizzonti visionari e varchi in una realtà troppo opprimente. Forse, proprio perché l’esposizione di Macel sembra fuori moda, centra il bersaglio.

Una delle obiezioni più correnti è che non c’è un filo conduttore che connette le opere, che l’esposizione non ha una tematica precisa. Ma anche su questo punto, sono tentato di difendere la curatrice. Anche se quella che può apparire, nelle note programmatiche, come una giustificazione – che è una “Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano, i modi di vivere che scelgono. La Mostra offre un percorso espositivo coniugato alle opere degli artisti, piuttosto che un tema conduttore unico”–, in realtà indica in modo modesto i limiti dell’intervento del curatore, il cui esercizio, in un evento come La Biennale, che richiede di “riempire” una superficie espositiva enorme, è quasi impossibile e contraddittorio. Molte edizioni precedenti avevano già mostrato la difficoltà del curatore a tenere le fila di un tema o di un campo di esplorazione (ad eccezione di Massimiliano Gioni, che era riuscito con il suo Palazzo Enciclopedico a costruire un’unità se non contenutistica, almeno atmosferica). Del resto anche i diversi sotto-padiglioni che compongono il percorso all’Arsenale non hanno frontiere chiare, sembrano nebulosi, interscambiabili, molte opere potrebbero trovarsi nell’uno come nell’altro. Hanno forse solo la funzione di richiamare dei concetti chiave d’un interrogativo più generale, più che di fornire delle indicazioni per la lettura delle opere.
Perché, invece di difendere un territorio preciso, invece di identificare un perimetro locale per renderlo globale, Macel riporta al centro la questione della missione universale dell’arte. Certo questione che può sembrare outdated ai tecnici modaioli dell’arte, un po’ naive, un neo-umanismo tinto di romanticismo e d’utopismo vintage, una nostalgia un po’ hippie. Ma forse si sbagliano.
L’arte è viva, proclama Macel: “occorre considerarla anche per se stessa, per quello che apporta nella nostra vita quotidiana”, annota in un’intervista su artribune. E aggiunge, con una sincerità che sembra spiazzante in un contesto così sofisticato come quello dell’arte contemporanea: “L’arte è un modo per riconciliarsi con se stessi. Ti permette di esperire la realtà in maniera globale: c’è il pensiero, c’è l’esperienza fisica, c’è l’emozione… E l’emozione ti dà da pensare, creando un loop. L’arte destabilizza e ci si deve avvicinare considerando anche le proprie emozioni, quel che si sente di fronte ad essa, e poi sviluppare il confronto razionale. (…) Gli artisti reinventano la vita tutti i giorni! L’arte dà un supplemento alla realtà e non si può limitare a riprodurre la realtà. Non siamo più ai tempi della mimesis, e peraltro la mimesis è una maniera di trasmettere la realtà.”

A me sembrano questioni importanti e giuste, che meritano di essere riposte, ribadite regolarmente, esplorate senza sosta. Sono questioni forse fuori moda, ma vitali come un respiro di sollievo. Come gli enormi batuffoli di lana di Sheila Hicks che sbarrano la strada alle Corderie, un po’ maldestri, un po’ kitsch, eppure così rassicuranti. Anche se non sono belli, anche se non denotano un impegno politico esplicito, quando li vediamo, abbiamo una sola voglia: tuffarci dentro. 

Foto: Rasheed Araeen, Zero to Infinity in Venice, 2016–17, painted wood, dimensions variable; 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva, Photo by: Italo Rondinella; Courtesy: La Biennale di Venezia

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