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May 3, 2017

BASSOX3: Sepp Mall

Mauro Sperandio
Tre illustri personaggi legati al Trentino-Alto Adige, raccontano il loro punto di vista sul concetto di "basso". Parola detta e parola scritta, vite comuni ed eventi straordinari, bisogno di esprimersi: lo scrittore Sepp Mall racconta il suo "basso".

Durante il nostro incontro, Sepp Mall cita spesso le sue origini contadine, illustrando – tanto a parole quanto ad accenni e silenzi – l’essenza e l’atmosfera che pervade, o forse pervadeva, il mondo rurale. Il suo racconto si compone di parole ricercate e “di fino”, ed anche di espressioni concretissime. Gli studi letterari e la profondità dell’analisi umana sembrano integrarsi al buon senso del contadino, alla delicatezza del potatore, al bisogno di tranquillità di chi non ha bisogno di parlare per capire ciò che lo circonda.

Le parole sono gli strumenti del suo lavoro. Cosa esprime, per lei, la parola “basso”?

Sono due le associazioni che mi vengono spontanee rispetto a questa parola, una riguarda le mie origini e l’altra l’oggetto del mio lavoro. Vengo dall’Alta Val Venosta, non dalla Bassa Val Venosta, tuttavia sono nato in una famiglia di piccoli contadini e dunque vengo comunque dal basso, perché non di un ceto sociale alto. Pur non essendoci libri in casa, sono cresciuto con una grande voglia di leggere e di scrivere.
L’altro “basso” riguarda i protagonisti delle storie che scrivo, che spesso vengono dal basso, dai margini, come nel caso dei personaggi del mio romanzo “Wundränder”, pubblicato in Italiano col titolo di “Ai margini della ferita”. Non mi interessano gli eroi, che stanno in alto, ma chi dal basso osserva la realtà.

Immagino che per lei la scrittura sia un’esigenza. Le chiedo se questa pulsione provenga dal basso oppure dall’alto del suo essere.

Direi dal basso. Per dirla con altre parole, il mio scrivere nasce dalla voglia di esprimermi ed asseconda non solo un desiderio dello spirito, ma anche del corpo, che viene dallo stomaco, dall’intestino. Voglio comunicare, esserci ed affermare: “questo sono io, questi sono i miei pensieri”. Non si tratta di un bisogno di raccontare storie e di fare lo scrittore, ma proprio di un bisogno di esprimermi, com’è quello dei bambini che si affermano dicendo “io”.

Oltre che scritta, la parola, le piace anche detta?

Fine ad un certo punto. Preferisco pensare e scrivere, e lascio solitamente ad altri più bravi di me l’attività del parlare. Mi piace però partecipare ai discorsi, ascoltando.

Crede che l’”essenzialità” del dialetto sudtirolese abbia influenzato la sua scarsa propensione per la parola detta?

Non credo che l’influenza derivi dal dialetto, quanto dal ceto sociale di provenienza. I contadini non parlano tanto, si dedicano ad un loro lavoro su cui c’è poco da discutere, perché da secoli uguale a se stesso. Il nostro dialetto permette di esprimerci senz’altro molto bene, ma non in forma scritta. Per quanto riguarda la sfera emotiva, trovo più facilità ad esprimermi in dialetto: le bestemmia e le parole d’amore credo trovino nel dialetto maggior espressività, rispetto all’Hochdeutsch. Il dialetto è la pelle, mentre il tedesco standard sono i vestiti. L’uso dell’Hochdeutsch mi permette un maggior distacco dall’argomento. Tutti i miei tentativi di scrivere in dialetto non sono andati a buon fine e gli argomenti di cui mi verrebbe spontaneo scrivere in vernacolo si limitano all’ambiente contadino.

Oltre all’attività di scrittore, lei svolge la professione di insegnante. Quale crede sia il compito di chi si trova in cattedra?

Per me, insegnare alla scuola media significa prendere per mano i giovani, mostrando loro com’è il mondo. Lavoro nella scuola da una trentina di anni e questo mi ha permesso di vedere come la vita dei ragazzi sia cambiata, divenendo più complicata. Ancor più in questi anni, sento che il mio lavoro deve offrire un aiuto alla crescita dei miei alunni, aprendo loro la porta verso il mondo degli adulti.

La parola silenziosa, quella scritta, di cosa ha bisogno per nascere?

Scrivere è per me sinonimo di tranquillità. Scrivere significa starsene soli con i propri pensieri e le proprie parole, tenendo a distanza il mondo che mi circonda. La parola scritta torna poi al mondo, ma per nascere ha bisogno di staccarsene. Nella pratica, pur nella tranquillità della mia casa, se non sono solo, non riesco a scrivere.

Penso al suo “Ai margini della ferita”, a come la tranquillità delle comuni vite dei giovani protagonisti sia turbata dai grandi mutamenti imposti dalle vicende storiche…

Quella del giovane Paul è un po’ anche la mia storia di adolescente. Sono nato e cresciuto a Curon, in un ambito contadino e tedesco. Nel nostro paesino di trecento abitanti, quasi da un giorno all’altro, aprirono una stazione di polizia in quella che era stata fino ad allora una pensione. Per noi ragazzi questo fu un evento molto interessante, anche perché i poliziotti avevano a disposizione una televisione, cosa all’epoca molto rara. Alla domenica sera, ci facevano vedere le partite di calcio, illustrandoci squadre e funzionamento del campionato di serie A. Questo contatto mi aprì gli occhi sul mondo italiano, un’altra realtà al di fuori di quella contadina in cui stavo crescendo e che non mi bastava. Oggi come allora, ritengo indispensabile non chiudersi, anche per rimanere tedeschi ma non allo stesso modo in cui per secoli lo sono stati i nostri antenati.

Lei che ama la tranquillità, non teme questi grandi rivolgimenti?

La tranquillità va conquistata anche attraverso il confronto, il dialogo e la comprensione tra italiani e tedeschi. Le figure positive di “Ai margini della ferita” sono i giovani che si aprono verso questa differente realtà, chi invece vuol chiudersi, muore.

Oltre che alla prosa, lei si dedica anche alla poesia. A quali esigenze interiori rispondono queste due diverse attività?

Le risposte sono tante. Con la poesia riesco a guardare nel mio profondo, analizzandomi come mi guardassi allo specchio. Con il romanzo non cerco la stessa profondità, ma uno sguardo il più ampio possibile sulla società e sul suo funzionamento. Il lavoro di traduzione in cui mi è capitato di cimentarmi, come nel caso di “Der Zug hält nicht in Ugovizza” – nell’originale “Se il treno si fermasse a Maglern” – della scrittrice triestina Kenka Lekovich, lo penso come qualcosa di simile ad un allenamento alla scrittura. O meglio, un esercizio di scrittura, che consiglierei a tutti coloro che fanno il mestiere di scrittore. Il confrontarsi con un’altra lingua è sempre un’occasione importante, che alla fin fine ti porta a conoscere meglio la tua lingua, aumentando la capacità di esprimersi.

Dal basso, che cosa si vede?

Dal basso non si riescono a veder bene le teste, ma risaltano i culi e i piedi che calpestano. Dal basso non si vedono le parti che si occupano di pensare, ma quelle che lavorano.

C’è dunque bisogno di sollevarsi?

Sì, ma non in maniera definitiva. È anche necessario, di tanto in tanto, ritornare al basso ed osservarlo da diverse prospettive.

Foto: Sepp Mall

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