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October 13, 2016
Utopie, necessità e prospettive del Design: Giorgio Camuffo
Mauro Sperandio
Graphic designer, art director e organizzatore culturale, docente presso la Libera Università di Bolzano, Giorgio Camuffo è stato recentemente anche co-curatore dello spazio italiano alla prima alla London Design Biennale. Proprio il tema dell’esposizione, Utopia by Design, ci offre lo spunto per parlare di necessità e prospettive di questa disciplina sospesa tra pensiero sconfinato e funzione necessaria…
La prima biennale di design a Londra ti ha visto co-curatore del salone italiano. Per interpretare il tema di questa edizione, l’utopia, avete scelto la bandiera bianca. Qual è il significato di questo oggetto? Resa oppure nuova opportunità?
Condivido con Silvana Annichiarico (direttrice del Triennale Design Museum della Triennale di Milano n.d.r), che assieme a me ha curato questo spazio, il pensiero che non si tratti di nuova opportunità. La professione di designer ci porta a vivere, in un certo modo, di utopie. In questo momento l’utopia maggiore sta nel guardare al nostro mondo, cercando di interpretarlo, spiegarlo e affrontarlo. La bandiera bianca ha sicuramente un significato di resa, ma in questo caso vogliamo pensarla come simbolo della tregua, di un tempo necessario alla riflessione sul presente.
Come hai vissuto la preparazione a questo evento e la sua realizzazione?
All’inizio eravamo un po’ titubanti nei confronti del tema; il lavoro si è dunque focalizzato sulla ricerca di un concept che fosse connesso alla realtà e che rappresentasse anche questa fase di rimodellamento della propria identità che il design sta vivendo. Non volevamo parlare di oggetti e di prodotti, ma piuttosto di attitudini, di scelte, di ruoli e possibilità future, offrendo a noi stessi, al settore in cui operiamo e ai visitatori nuovi spunti di riflessione.
Quale è stato il riscontro del pubblico?
Molto positivo, anche per quanto riguarda la stampa internazionale. È stato apprezzato questo modo nuovo di interpretare il design, che non si sottomette alle autorità dei grandi maestri, come storicamente è stato in Italia. Non va dimenticato come la posizione sul planisfero decisa dai designer per piazzare le loro bandiere abbia avuto sicuramente una valenza politica. Il contesto in cui il disegno dell’oggetto è stato posto ha un valore non trascurabile.
Credi che le declinazioni “locali” del design internazionale rischino una globalizzazione degli stilemi e dunque una eccessiva omogeneità?
Senza dubbio. Si aggiunga anche il fatto che, in questo momento, risulta molto difficile dire cosa sia il “Design”. La globalizzazione degli stili e la crisi economica hanno reso sicuramente meno chiara la visione. Se guardiamo al design che viene reso attraverso gli oggetti non è più possibile riconoscere le caretteristiche e i modi di progettare dei paesi di origine. Il design italiano, quello scandinavo e quello inglese erano un tempo immediatamente identificabili, ora ci troviamo davanti ad un grande melting pot. Credo però che da questa energia, da questa mescolanza di idee, possano emergere nuove interessanti forme di design. Come dice Ezio Manzini, dobbiamo però intenderci su cosa ascriviamo alla categoria del “design”. Se intendiamo semplicemente il disegno degli oggetti, rischiamo di limitarci. Se pensiamo che il Design sia qualcosa di più ampio, diventa tutto più interessante e vario.
Il concetto di utopia si presta ad alemeno due letture: quella rinfrancante di “magnifico progetto a cui anelare”, ovvero fonte ispirazione, e quello desolante di meta tristemente irraggiungibile…
L’immagine e l’immaginifico sono parte fondamentale del mio lavoro, entrambi i concetti hanno a che fare con l’utopia. Allo stesso tempo, il mio lavoro ha degli obiettivi concreti e deve soddisfare dei bisogni; per adempiere a questi è necessario creare una mediazioni tra utopia e realtà. L’isola di Utopia, pensando all’opera di Thomas More, è uno spazio in cui mi trovo a mio agio, ma che non posso permettermi di abitare stabilmente.
La nostra è una disciplina in continuo movimento, per questo mi figuro il designer come un traghettatore che porta all’isola di Utopia. Penso al Design come allo spazio che sta tra il voler arrivare e l’arrivare veramente, piuttosto che identificarlo con l’isola stessa o con la terraferma.
Viviamo in un mondo caratterizzato da un turbinare instancabile di informazioni, immagini e mode, ricchi di tutto, ma spesso poveri di tempo per riflettere, gustare, far sedimentare. È possibile e asupicabile una resa del tempo, o meglio una maggiore ricerca di attenzione, spessore e solidità?
Tutta la nostra vita e anche il Design sono caratterizzati da una velocità che non conosce precedenti nella storia.
Sulla necessità di fermarsi a rifletttere leggevo giusto ieri un pensiero di Duchamp che spiegava come questi passasse più tempo a pensare che a fare. Siamo bersagliati da immagini, notizie e informazioni, e ciò comporta uno sforzo per isolarci a riflettere. La bandiera bianca della Biennale di Londra torna in tale ottica come simbolo di una tregua anche con noi stessi, una richiesta di tempo per riflettere.
Foto: Curzio Castellan
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