Quando ero bambino, me ne andavo dicendo: da grande voglio fare l’astronauta. 

E la gente rideva, perché pensavano si trattasse di una cosa tanto per dire. 

Dicevano che mi sarebbe passata questa mania per lo spazio. Che ne sa lui della vita, è solo un bambino mormoravano con occhiate complici, minando la mia sacra aspirazione. 

Camera mia era tutto un ritaglio di giornale con foto e articoli sullo spazio. Io volevo farlo davvero l’astronauta. Volevo vederla dall’alto questa palla chiamata terra. 

Io da bambino, internet non ce l’avevo mica, eh. E allora passavo i pomeriggio in biblioteca, a spiare il mio futuro immaginato, tra le pagine di libri più grossi di me.

Io l’astronauta lo volevo fare davvero. 

Volevo vivere a testa in giù e indossare quella tuta bianca bianca con l’oblò in testa. 

Volevo vedere le luci notturne della città che riposa dall’alto.

Volevo che la gente guardasse in diretta il lancio del mio Shuttle, e pensare che potessero dire, sospirando: -eh sì, loro ce l’hanno fatta!-. 

Volevo mettercela pure io la mia impronta su quella sabbia magica. 

Poi è arrivata l’adolescenza, il motorino, la prima barba acerba ma sufficiente a rendermi desiderabile e Lei a cui rubavo baci spaziali al suono della campanella.

Il liceo si è allungato di un anno e anche io, come i grandi che mi guardano dall’alto al basso quando ero piccolo, ho cominciato a desiderare la cosiddetta normalità: il posto fisso, il tran tran quotidiano, una famiglia forse.

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