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July 4, 2016

Roberto Keller: progetto, impegno e passione d’editore

Mauro Sperandio
Roberto Keller, fondatore della Keller editore, ci parla del suo lavoro, della sua visione e del prezzo che bisogna pagare per avere un orizzonte senza limiti.

La Keller editore è attiva dal 2005 e nel 2009, grazie a “Il paese delle prugne verdi” del premio Nobel Herta Müller, si consacra come “piccolo grande editore”, ovvero come agile e libera realtà editoriale, capace di cogliere primizie dall’albero della letteratura internazionale e portarle tra le mani dei lettori italiani.

Nel raccontarmi la sua attività, e il pensiero che la sottende, Roberto Keller usa parole ed immagini molto concrete. Ogni pagina dei libri che pubblica è intrisa della vita dell’autore, ma tra una pagina e l’altra ci sono il suo sudore, la sua fatica, la sua lungimiranza e il suo entusiasmo.

Con le proprie scelte ogni editore definisce la cifra della propria attività. Come descriveresti il suo essere editore indipendente?

Con le opere che sceglie di pubblicare, un editore definisce il catalogo e, in definitiva, il proprio percorso culturale e imprenditoriale. Indipendente, per me, significa proprio questo: scegliere con la consapevolezza che ogni scelta è una responsabilità culturale ed economica. Preferisco usare il termine editore di progetto, anche se sono allergico alle definizioni. Un editore dovrebbe essere un editore e basta: ossia uno che sceglie un libro e su quel libro rischia la propria credibilità, la propria cultura e il proprio capitale. E quindi fa libri in cui crede.

Cosa significa, invece, essere un editore libero?

Libertà e scelta sono collegate nella mia visione di editoria. Io penso che fare l’editore “vero” sia un mestiere molto difficile, anche solo dal punto di vista economico. Non si hanno certezze di vendita perché tutto dipende da una serie di fattori sui quali non hai un controllo efficace, come invece puoi averlo nel momento in cui il volume è creato. Quando un libro esce e viene mandato alla vendita, si mettono in moto situazioni che non puoi prevedere fino in fondo: il promotore avrà letto il materiale che gli abbiamo inviato, avrà ascoltato ciò che gli abbiamo spiegato e sarà stato in grado di trasferire tutto questo al libraio? E il libraio, quel giorno, sarà stato sensibile, avrà voluto rischiare sul nostro titolo? Lo leggerà, gli piacerà, lo consiglierà? Lo esporrà? I giornali ci daranno spazio? Oppure il nostro lavoro nella comunicazione e nelle PR avrà scarsi risultati? E ancora, i lettori saranno sensibili al nostro libro? … Le domande e le ipotesi possono affastellarsi quasi all’infinito, mentre infinito non è il tempo a disposizione dell’editore per ottimizzare il risultato, perché nella concorrenza per gli spazi librari, a livello nazionale, è difficile che un libro sopravviva più di un mese in libreria, se non comincia subito a vendere.
In tutto questo, un editore comprende che sono poche le cose sulle quali può avere un controllo reale e sulle quali può decidere. Al di là della fedeltà alle scelte editoriali e al valore del proprio marchio, al di là della qualità del lavoro che deve essere il più possibile inattaccabile… beh, al di là di tutto questo, c’è solo una cosa che un editore deve decidere di non lasciare ad altri ed è appunto la propria libertà. Se un editore rinuncia a quella, nella mia concezione di questo mestiere, è finito.
E aggiungo che quella libertà ha un prezzo.
Grazie a questa fedeltà a principi semplici ma essenziali, un editore può essere credibile e influenzare le scelte di lettura del pubblico e, allo stesso, contribuire al dibattito culturale e alla trasmissione delle idee (che poi è l’essenza stessa dell’oggetto libro).

Il catalogo della Keller editore presenta un numero consistente di autori stranieri: quali sono le motivazioni di questa scelta?

Il catalogo Keller è interamente, salvo rarissime eccezioni, dedicato alla scoperta di scrittori e intellettuali stranieri, e quindi alla traduzione in lingua italiana delle loro opere. Oggi la casa editrice si è ritagliata una credibilità importante tra librai, addetti ai lavori, mondo culturale nazionale e internazionale e lettori proprio per la fedeltà che ha sempre dimostrato al proprio progetto editoriale.
La motivazione è semplice: il luogo di nascita della casa editrice – una regione di confine – è stato interpretato come un’opportunità per guardare a cosa accade lungo e oltre le Alpi, quindi in tutta Europa, e portarlo in Italia.
E’ stato facile? No, assolutamente no, e ancora oggi non lo è. Conquistare credibilità – e mantenerla – è una delle cose più impegnative e dure che ci si ritrova a dover fare, così come è stato difficile, ed è difficile, superare pregiudizi verso un editore che non è figlio d’arte, o che non è espressione di gruppi culturali particolari, o di un luogo tradizionalmente vocato a sfornare gli editori nazionali.

L’ultima nata delle vostre collane editoriali è “Razione K” – come quella dei militari – e definite “piccoli oggetti di sopravvivenza” i titoli che la compongono. In che modo questi libri possono aiutarci a sopravvivere?

Esatto, il nome della collana si basa su un gioco di parole. Il  nome rimanda alle razioni distribuite ai militari durante le missioni per il loro soddisfacimento del fabbisogno energetico quotidiano e alla lettera K che è il marchio della Keller. La razione K(eller) è la commistione tra essenzialità e spirito della nostra casa editrice. Questo incontro è l’anima di una collana espressamente dedicata ai reportage letterari – quelli di scrittori come Ryszard Kapuscinski, per intenderci – capaci di raccontarci il mondo e ciò che sta avvenendo vicino e lontano a noi, con uno sguardo unico e una qualità di scrittura molto alta.
Le domande sul valore dei libri sono sempre molto pericolose, ce lo insegna la storia, posso quindi solo parlare per me. I libri possono aiutare a capire, ci danno le parole per definire il mondo fuori e dentro di noi, arricchiscono le nostre interpretazioni, ma possono anche rendere più acuta la percezione delle cose che non funzionano. I libri ci trasmettono cose che non puoi “insegnare” o “spiegare”, ma che si possono trasmettere con ciò che sei e ciò che fai.
Ti faccio un esempio. Quando penso ai primi giorni degli eventi di quella che noi chiamiamo “piazza Majdan” a Kiev, ricordo solo una grande confusione. Nessun servizio giornalistico riusciva ad entrare in profondità e spiegare cosa stesse accadendo. Ci voleva un altro spazio, un altro tempo del pensiero che fosse in grado di parlare dell’oggi, ma riuscisse anche ad andare a fondo e magari indietro nel tempo. Così, ho chiesto ad Andrei Kurkov di pensare a un libro con queste caratteristiche. Quando mi ha detto che stava facendo una cosa simile per il suo editore tedesco, ho deciso di prendere quel libro e tradurlo in italiano. “Diari ucraini” ha quindi inaugurato la nostra collana di reportage.

I colossali eventi geopolitici ed economici, che stanno ridisegnando l’aspetto del nostro pianeta, non possono lasciarci indifferenti. Come editore, senti dei doveri di carattere civile? Conoscenza, sano dubbio, conforto: cosa dobbiamo chiedere, in questo momento, ai libri?

L’impegno ha un costo e richiede anche scelte difficili. Bisogna credere non solo nei libri che fai, ma anche in come li fai, anche se questo significa fare una vita monacale, per investire tutto ciò che hai in un libro dopo l’altro.
I libri sono il condensato di un lavoro di moltissime persone, sono un veicolo di tante cose: di idee – buone e cattive, positive e malvagie – di verità e bugie, di mondi reali e di fantasia. I libri sono tanto, ma non possiamo pensarli senza noi lettori, senza gli scrittori e senza gli uomini.
Più “esperienza”, più capacità e sguardo avremo, più in questo mondo potremo starci da persone che coltivano e motivano una propria posizione, senza semplicemente subirla.
Devo anche dire che ai libri non possiamo chiedere ciò che non possono darci. E non dimentichiamo mai che un libro può essere anche sana evasione, leggerezza, gioco…

Oltre la sopravvivenza, nell’ambito del non strettamente necessario, cosa cerchi in un libro che ti intrattenga, anche con leggerezza?

Apprezzo la capacità di evocare immagini, il ritmo del racconto. Mi piace quando uno scrittore è in grado di portarmi dove non mi aspetto, quando ha coraggio. Mi piace anche ridere grazie ai libri. Non ho preclusioni di genere letterario e penso che il libro sia uno straordinario strumento “democratico”: c’è un libro per chiunque.

Un editore è anche un imprenditore; simpaticamente, ti chiedo di pubblicizzare un titolo dei vostri per questa estate.

Per l’estate, sicuramente “L’ultimo amore di Baba Dunja” di Alina Bronsky. È la storia di Baba Dunja, un’ex infermiera che torna a vivere la propria vecchiaia a Chernovo (a pochi passi da Chernobyl), il paese natale che ha dovuto lasciare il giorno dell’incidente al reattore. E’ un libro molto bello, leggero e profondo allo stesso tempo. In Germania è stato ed è un successo.
Agli amanti dei romanzi “storici”, consiglio un giallo un po’ particolare, ambientato nell’Albania degli Anni Venti, dove pare sia stato trovato il petrolio. Questa scoperta scatena gli appetiti di nazioni potenti e ci scappano due morti americani… Il titolo è “La strada del nord” e l’autrice è Anila Wilms.

Foto: Giovanni Cavulli

 

 

 

 

 

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