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May 23, 2016

Fulvio Falzarano:
voci e pensiero d’attore

Mauro Sperandio

Fulvio Falzarano è un attore dal curriculum vasto e variegato, il suo lavoro lo ha portato sul piccolo e grande schermo, in innumerevoli teatri di ogni dove. La sua interpretazione di Giò il brattaro in “Brattaro mon amour”, produzione del Teatro Stabile di Bolzano, è stata l’occasione per parlare con lui di vita e teatro, di voce udibile e di voce interiore, di suono e pausa, di posa e lavoro.

 Partiamo dall’attualità. In Brattaro mon amour ha interpretato un personaggio che si trova in un contesto linguisticamente e culturalmente eterogeneo e parla una lingua ibrida. Come ha costruito la voce e la personalità del brattaro?
 
Penso spesso a questo aspetto quando porto in scena lo spettacolo. Nell’immaginare la personalità di Joe il brattaro ho fatto riferimento ad una categoria di personaggi omogenea che si può incontrare in tutte le periferie del mondo. Penso ad esempio ai “brattari di Roma” – città in cui ho abitato per 20 anni – e posso dire che, a parte il dialetto, sono numerose le caratteristiche che li accomunano a tutti i gestori di chioschi. Allo stesso modo, la tipologia di persone che ruotano loro attorno sembra essere la stessa ovunque.  
Un testo teatrale o cinematografico, una sceneggiatura, una storia o uno spaccato di vita che racconti queste storie ai margini delle città è interessante proprio perché parte dell’esperienza di tutti.  È capitato a tutti di fermarsi a mangiare in fretta qualcosa ad un chiosco, se si è sufficientemente curiosi e divertiti è possibile cogliere diversi aspetti della fauna che bazzica questi punti di ritrovo. C’è qualcosa che accomuna tutte le storie dei sud del mondo e i personaggi che le popolano.
Quanto alla lingua parlata da Joe il brattaro, devo dire che ho evitato di imitare o puntualizzare il dialetto veneto che si sente parlare a Bolzano, badando solo a ricordarne l’emozione o la curiosità di certi espressioni. Essendo nato a Trieste, non sono rimasto insensibile alle molte le analogie che accomunano la mia città a Bolzano: il bilinguismo, la ricchezza e le difficoltà della convivenza sono tratti che ben delineano entrambe le città.

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Trieste è una terra contesa, linguisticamente varia, dai molti volti. Che rapporto ha con le sue origini e con il suo dialetto?

Il mio legame con Trieste è fondamentale come lo è quello con la città di Benevento – città natale dei miei genitori – che frequentavo per diversi mesi all’anno nelle vacanze estive. Vivere in due città così diverse mi ha permesso di coglierne le enormi differenze nel modo di vedere la vita, permettendomi di evitare l’atteggiamento di chiusura che avrebbe potuto instillarmi il mio essere anche triestino. Saranno stati i tre secoli dominazione austriaca, ma Trieste, a differenza di altre città di mare, ama restarsene per i fatti suoi… Dopo Angelo Cecchelin, il capoluogo giuliano non ha più avuto una tradizione teatrale forte come Venezia, oppure un fermento come quello che si poteva trovare a Milano, Roma o Napoli; per questo motivo trasferirmi è stata una scelta obbligata.
Curiosamente, dieci anni fa mi è capitato di lavorare al Teatro Stabile del Veneto con un personaggio che parlava un dialetto misto di veneziano e napoletano, si trattava de “Il trionfo dell’amore” di de Marivaux, diretto da Luca de Fusco. La mia conoscenza di entrambi i dialetti mi ha aiutato, ma devo anche dire che all’epoca provai una certa crisi identitaria per la nostalgia che le due lingue mi suscitavano.  
 
Parliamo ancora di lingua, di espressione. Il nostro esprimersi come esseri umani è paragonabile all’interpretazione di un ruolo, lei interpreta anche per mestiere. In che modo l’aver appreso gli strumenti della recitazione ha influenzato la sua vita e il rapporto con gli altri?

L’influenza c’è stata ed è stata positiva. Sono una persona molto curiosa ma, ahimè, anche pigra. Il mio lavoro mi ha portato di volta in volta ad approfondire temi che per indolenza avevo tralasciato. La mia esperienza quasi trentennale comprende numerose esperienze a teatro, al cinema, nella pubblicità, in contesti diversi e con opere per la più parte felici, è al teatro però che sono maggiormente debitore, perché mi ha dato la possibilità di apprendere ed affinare, grazie anche al lungo periodo di prove che ogni spettacolo richiede.  
Tutti i teatranti, anche il più umile, tanto sul palco come nella vita privata, non appena trovano uno spazio parlano di se, incontrando – devo dire – il favore di chi si trova con loro. Il mio mestiere mi ha decisamente avvantaggiato nel rapporto con gli altri e, allo stesso tempo, mi ha portato a osservare gli altri con occhio attento: il barista che mi serve il caffè, ad esempio, diventa un personaggio da studiare.

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C’è dunque una compenetrazione ed uno scambio tra vita e teatro?

Non ho fatto scuole di recitazione e sono stato “catapultato” negli anni ’80 sul palco a fare teatro per ragazzi e d’estate operette e teatro lirico, ho lavorato con Arbore e fatto esperienze diversissime, tanto varie da farmi chiedere “Da che parte sta andando la mia carriera?”. Con il tempo ho però capito che questa varietà di esperienze assecondava una natura eclettica e curiosa, che andava rispettata e favorita. Ho inteso che la mia naturale inclinazione a ricercare esperienze diverse era una ricchezza che mi avrebbe permesso di attingere a diverse fonti. Forse non sarò un attore teatrale catalogabile, ma mi va bene così. Questa consapevolezza l’ho sentita chiaramente ne “La recita di Versailles” con Paolo Rossi, che conosco da trent’anni. Lo spettacolo era sostenuto da una traccia molto rigida, ma essenziale, che ci lasciava la libertà di portare in scena uno spettacolo diverso ogni sera. La mia esperienza poliedrica mi ha sicuramente avvantaggiato in quell’occasione, evitandomi le difficoltà che un attore dedito ad un solo ambito avrebbe forse incontrato.
Il momento più ostico del mio lavoro è quello in cui mi trovo ad affrontare un nuovo testo, perché mi metto a nudo per vestire i panni del nuovo personaggio. Scatta poi qualcosa che mi fa capire dove poter osare con la voce, con gli atteggiamenti e con ricordi talmente tangibili da potersi trasformare nel corpo del personaggio.
 
A volte, in circostanze particolari, può capitare che “manchino le parole”. Nel suo interpretare le è mai capitato di vedersi travolto, coinvolto o turbato dalla storia di un personaggio?

Certo, varie volte. In un caso in particolare mi è successo di non poter continuare a parlare perché sopraffatto dall’emozione. La cosa successe due anni fa, durante “Artemisia Gentileschi – L’incontro”, un atto unico a due personaggi che racconta l’ultimo incontro tra la pittrice e il padre. Durante il tentativo di violenza perpetrato dal genitore nei confronti di Artemisia, oltre alla concitazione, mi colse una forte compassione nei confronti della pittrice. Dovetti lavorare non poco per riuscire a proteggermi da un’emozione così forte. Se un attore piange in scena al pubblico non resta altra altro che godere dell’interpretazione, senza potersi fare un’emozione propria. Se l’attore dissimula il pianto, lo spettatore può far propria l’emozione.
È impossibile spiegare perché questo accada, il fenomeno assomiglia all’effetto che provoca l’ascolto di un brano musicale che in un certo passaggio solletica delle emozioni difficili da gestire.

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Che rapporto ha con la musica?
 

La musica è alla base di tutto e muove ogni parola che noi diciamo. Sono consapevole che la musica mi abbia aiutato nell’elaborazione dei personaggi, nella metrica che li caratterizza e nelle ricerca delle battute, sopratutto quando mi sono trovato ad interpretare dei testi classici. Scoprire che i grandi autori lavorano tutti con la musica è stato per me una rivelazione: nelle parole esiste una musica, quando l’attore ha assimilato la partitura, la recitazione diventa suono. Suono e respiro formano dall’interno il personaggio, differenziando l’attore dall’imitatore.  
 
Che rapporto ha con il silenzio?
 
Molto buono, specialmente in scena, perché è parte integrante della musica. Ci sono molte persone che temono il silenzio perché non lo sanno gestire, lo considerano assenza di suono, mentre il silenzio è  una parte necessaria anche nelle partiture musicali.
 
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Parliamo dunque di pause. Come impiega il suo tempo quando non lavora?
 
Ascolto tantissima musica e vedo tantissimi film, perché il cinema mi piace tanto. Lei dirà: “Bella vita da pigro!”, ma è così. [ridiamo entrambi] Leggo molto e vado a teatro solo per vedere cose mirate che sono convinto non mi deluderanno. Parlo contro il mio interesse, ma se fossi uno spettatore non credo mi farei un abbonamento, ma valuterei di spettacolo in spettacolo.
Vado forse più volentieri al cinema che a teatro. Cerco quella magia che non mi fa accorgere di aver speso due ore guardando stando seduto. Mi piace stare con le persone, quelle genuine. A cinquantasei anni non sono più così spasmodico nella ricerca di lavori e contatti e lavoro tanto per conto mio, magari non sapendo neppure di farlo. Curiosamente mi è capitato di leggere o andare vedere qualcosa, concentrandomi e approfondendo quanto ho visto, e di venire poi chiamato ad interpretare quel ruolo. Chissà, se fossi meno pigro e viaggiassi di più magari avrei la possibilità di conoscere storie e testi a cui potrei appassionarmi…
 
Mi perdoni, ma lei mi sembra un falso pigro…
 
Sono pigro forse perché penso a tutte le cose che avrei potuto fare, senza pensare a quelle che ho fatto. Nel mio lavoro sono molto concreto e non mi risparmio perché ho la fortuna di fare ciò che mi dà gioia.
 
Cosa si augura per il suo lavoro?
 
Non so quali lavori mi riserverà il futuro, ma ciò a cui tengo di più è un passaggio di testimone con i giovani. A Trieste, con delle persone a me molto affini, stiamo cercando di costituire un gruppo che tenga dei laboratori permanenti per dare ai giovani la possibilità di entrare in questo mondo che è il teatro. Mi piacerebbe condividere la mia esperienza, instaurando con chi vuole intraprendere questo splendido mestiere uno scambio di esperienze e impressioni.

Foto: Stefano Schirato; Federico Pedrotti; Tommaso Le Pera

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