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February 25, 2016
La scuola in scena allo Stabile: intervista a Silvio Orlando
Mauro Sperandio
Spettacolo teatrale, quindi film di successo, ora di nuovo a teatro: La scuola sembra una storia che non invecchia, forse perchè , a dispetto delle apparenze, docenti e discenti rivestono ruoli senza tempo.
A Silvio Orlando ho chiesto de “La scuola” e della scuola, di professori e maestri, dell’insegnamento e dell’errore.
Sono passati venti anni dalla prima “La scuola”; cosa è cambiato e cosa vi ha spinto a riproporre un testo che nasce per il teatro, passa per il cinema e torna ora a teatro?
Avevamo grande fiducia nel testo; eravamo convinti che i temi e il modo in cui erano stati trattati sarebbero stati attuali anche in questo secolo e che l’opera avrebbe potuto ritagliarsi il suo spazio di piccolo classico del teatro comico-satirico italiano. Credo che la scuola si modifichi nel tempo, ma non cambi la propria essenza. Le domande che i professori e tutti quelli che se ne occupano si pongono sono alla fin fine sempre le stesse e spesso non hanno risposta.
Cattedre e palcoscenici, alunni e pubblico, la capacità di attirare l’attenzione su di sè e su ciò che si sta dicendo: le analogie tra docenti e attori non sono poche. Cosa pensa della capacità di far riflettere – ed anche insegnare – che è insita nel fare teatro?
Il teatro ha un senso se fa pensare intrattenendo in maniera intelligente, vitale, garbata o anche maleducata, a seconda anche di chi va in scena. Il nodo, la scommessa, del teatro è questo: contribuire a far cambiare le cose senza gesti plateali, con discrezione.
La storia de “La scuola” – tanto a teatro quanto al cinema – ha suscitato sempre grandi risate; il periodo della scuola, per la difficoltà legata all’età degli studenti, è un periodo che di spensierato ha magari poco. Non crede che questa storia sia comica in quanto scritta da adulti e dunque addolcita dal tempo?
Il testo teatrale, più che dei ragazzi che sono sullo sfondo e non presenti in scena, parla di un gruppo di persone – i professori- che si interrogano su sè stessi, sul loro ruolo e sul rapporto con gli studenti. L’occasione degli scrutini diventa la fiera delle vanità, dei sogni disattesi, la voglia di non muoversi dalle proprie opinioni. A me fa molto ridere questo gruppo di persone che si azzanna spesso per questioni di poco conto, aggrappandosi a slogan vuoti. Queste “pochezze” diventano il meccanismo comico principale.
La scuola è il luogo in cui si impara e l’errore viene corretto. Le chiedo che rapporto ha lei con l’errore e l’imperfezione?
Io sono un attore imperfetto, mi rendo conto di questo. Non nasco primo attore, ma lo sono diventato, conquistando il ruolo sul campo. Ci sono attori che nascono con lo spirito del protagonista, per me ci è voluto del tempo; diciamo che sono in qualche modo un attore precario, come i professori. Limare i miei difetti, le mie imperfezioni e contemporaneamente farli diventare il mio marchio di fabbrica è quel che ho fatto. Gli attori troppo bravi e troppo perfetti diventano un po’ freddi, poco comunicativi. Ho scelto un’altra strada tenendomi stretti i miei difetti, con la coscienza che sono poi i difetti di tutti gli esseri umani. Ho lavorato soprattutto su questo, senza ansie.
Molti insegnanti e pochi Maestri, tanto nella vita quanto a scuola. Quali sono i maestri che ritiene importanti nella sua vita e nella sua carriera?
Il mio periodo di studente era poco centrifugo e molto centripeto. Avevamo una grande voglia di scoprire e rapportaci col mondo, piuttosto che stare chiusi dentro la scuola. Il mio maestro principale, quello che ha saputo accendere in me una scintilla, è stato un prete inseganante di lettere che gestiva un cineforum. Da lì è partita la mia passione per il cinema, prima come spettatore e poi come giovane che muoveva i primi passi nel mondo della recitazione. A quel prete devo la voglia matta che mi ha spinto ha intraprendere la mia carriera.
Foto: a cura di Francesco Domenico d’Auria; Sara Magni
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