Food

January 29, 2016

De gustibus Connection #30: Norbert Niederkofler, Ristorante St. Hubertus, San Cassiano in Badia

Mauro Sperandio
De gustibus connection è una violazione della proprietà (intellettual-culinaria) altrui, un auto-invito a pranzo da chi sa cucinare davvero, un rapido interrogatorio senza la presenza di un legale, una perquisizione senza mandato tra mestoli e padelle. Per non smarrire la strada abbiamo pensato ad affidarci a ben due stelle: quelle di Norbert Niederkofler.

Mauro Sp: Tutti sanno dove lavori e come arrivare al tuo ristorante, mi piacerebbe però sapere quali strade hanno portato te a diventare un grande chef.

Norbert Niederkofler: L’educazione più grande è quella che si riceve in casa, quella che ti trasmettono i genitori. Fin da bambino la vita ti insegna valori, modi di lavorare e comportarsi che ti permetteranno di poter riconoscere la tua strada. Tutto inizia in quel momento. Quando cresci, i grandi maestri possono darti dei piccoli input, ma quando giungi a quel punto la formazione l’hai già avuta, a scuola, a casa. Il rispetto per la nautura, l’ambiente e le altre persone sono cose che si hanno o non si hanno, si apprendono ma non si insegnano. Se ti sei formato da arrogante, sarai sempre arrogante.

M: Credo che la disposizione d’animo di un cuoco si legga nei suoi piatti.

N: Sono convinto che dopo aver mangiato tre o quattro piatti di un cuoco tu sia in grado di capire perfettamente il carattere di un cuoco, nel bene e nel male…

M: Cosa ti ha insegnato l’ambiente in cui sei nato?

N: Ci sono due ambiti che mi hanno formato: quello domestico e quello naturale. Sono nato in Valle Aurina, una valle stretta tra le montagne, ma in una famiglia di larghe vedute. La mia famiglia mi ha offerto un contesto molto felice: mia madre aveva studiato alla scuola italiana e da giovane si era trasferita a Roma, fatto non comune all’epoca. Casa nostra era un ambiente molto aperto; quando le mie sorelle maggiori studiavano all’università, erano solite invitare a casa nostra le loro amiche che provenivano da città e paesi differenti, erano quelle le occasioni per scoprire ed imparare. Grazie alle esperienze ed al carattere di mia madre e alla disposizione di mio padre, che ci permetteva di fare moltissime cose, ho ricevuto una formazione che nella vita mi ha aiutato moltissimo. Nostro padre, però, ci concedeva questa libertà, a patto che ci asssumessimo le nostre responsabilità: “Se hai fatto una cazzata, te la risolvi anche” ci diceva. Sembra una cosa banale, ma questa è stata una grande lezione di vita.
Le montagne della valle, invece, educavano al rispetto e offrivano protezione, come un bozzolo. Il paesaggio allo stesso tempo faceva crescere in me la curiosità di andare a vedere cosa c’era oltre le montagne.

M: Questo legame nei confronti della tua terra natale come entra nella tua cucina?

N: So da dove arrivo e dove voglio arrivare, porto avanti l’idea di Cook The Mountain perchè sono nato tra i monti, se fossi nato nel deserto avrei fatto cooking desert. L’idea è di vivere con rispetto per l’ambiente in cui ci si trova. Abbiamo creato un nostro sistema di cucina che rispetta i produttori instaurando una strettissima collaborazione che ci permette di lavorare secondo i tempi della natura.
A venticinque anni poi, quando mi trovavo negli Stati Uniti per lavoro, ho vissuto un mese e mezzo in una riserva indiana; l’incontro con quella cultura è stato per me un’occasione per approfondire il mio rispetto nei confronti della natura.

M: Come nasce l’idea di diventare cuoco?

N: Ho iniziato questo mestiere per avere la possibilità di viaggiare. Non ho inziato con l’obiettivo di diventare uno chef stellato, ma di girare il mondo. Cercavo lavoro nei posti in cui avrei voluto andare in ferie, mete che non potevo permettermi, perchè troppo costose.

M: Ti è mai capitato di prendere degli abbagli durante la tua formazione?

N: Ogni cosa ha il suo tempo. Quando da giovane sono andato negli USA ho pensato “Mamma mia, ho trovato il modo di fare cucina!”: piatti elaboratissimi con un’infinità di sapori, ma che in realtà non ti lasciavano altro che una grande confusione. Con il tempo si comprendono molte cose, se ne imparano altrettante e si trova la propria strada, a patto però di rimanere curioso e non arrogante. Se a vent’anni credi di aver capito tutto dalla vita sei rovinato. In tutti i campi del fare e del sapere ci sono delle fasi che vanno vissute e da cui bisogna imparare.

M: Potresti presentarmi dei piatti che spieghino la filosofia della tua cucina?

N: Dietro i miei piatti c’è sempre almeno uno di questi due concetti: sfruttare il prodotto al 100% oppure proviamo a raccontare una storia.

M: Una storia in un piatto? Raccontamene una!

N: “C’era una volta una trota di fiume” è un antipasto preparato utilizzando un prodotto nostrano – la trota della Val Passiria – e sfruttandolo al 100%. Grazie alle tecniche e agli strumenti che abbiamo a disposizione, possiamo utilizzare questo pesce senza buttare nulla. La pelle, che normalmente si scarta, è buona quando è croccante e preparata come una chips. Il sale nella trota non serve, usiamo solo un po’ di fumo secondo la tradizione e per la conservazione. Il salato è conferito dal caviale di trota. Con le lische e dell’olio di aneto prepariamo una salsa beurre blanc.

M: Ai miei figli, quando è l’ora di andare a letto, non basta mai una storia sola, io credo di aver preso da loro…

N: Come primo piatto potrei raccontarti di un orto di rape. Gli gnocchi di rapa rossa con ripeno di rafano liquido si accompagnano ad una mistura composta di crosta di pane e carbone vegetale a cui è aggiunta della birra freddissima: il risultato riproduce i profumi dell’orto bagnato.

M: Cosa mi proporresti per un dessert da favola?

N: La delice di mela verde. Da un frutto così semplice è possibile ricavare quattro cose diverse: svuotiamo il frutto mantenendo integra la buccia e con la polpa prepariamo un sorbetto che rimettiamo nella buccia e mettiamo a congelare. Con il succo ricavato dalla centrifugazione del frutto prepariamo, grazie ad un sifone, una spuma di mela verde. Con l’affettatrice tagliamo finissima la mela e con dello zucchero sciroppato prepariamo delle chips che facciamo essiccare. Prepariamo poi anche i Krapfen di mela verde.

M: Si dice che del maiale non si butta via niente, il proverbio funziona bene anche con altri alimenti…

N: Per quanto riguarda la carne, noi ci riforniamo prevalentemente da contadini della zona. Quando acquistiamo gli animali da questi piccoli produttori, dobbiamo accettare bestie intere. Si pone dunque la sfida di studiare come usare tutti i tagli. In un secondo piatto può capitare di presentare fino a sei cotture diverse per lo stesso animale. La conoscenza della cucina classica e di tutte le tecniche moderne mi permette di ampliare la nostra proposta, stando però attenti a non diventare schiavi della tecnica. Ci chiediamo sempre: “La natura come ci propone questo ingrediente?”. A partire da lì scegliamo la cottura e la tecnica più giusta per portare la natura nel piatto.

M: Che rapporto hai con i tuoi collaboratori?

N: Per arrivare ad un grande risultato ci vuole una grande squadra ed un grande impegno.
Assieme a tutta la squadra di cucina elaboriamo i nuovi piatti, in questo modo tutti sono a conoscenza del lavoro della squadra. È fondamentale che tutti agiscano allineati nella stessa direzione.
Lavorare assieme a dei giovani professionisti mi permette di imparare tantissimo ogni giorno.

M: Come spendi il tuo tempo libero?

N: Nel tempo libero sto con la mia famiglia. Quando sono con loro non ci sono nè telefono, nè internet, nè facebook, nè altro. La mia famiglia mi ha dato la tranquillità e la forza per fare grandi cambiamenti e scelte. Come quando ho chiuso dopo dieci anni Cups e ho dato vita a CARE’S-the ethical chef days, un progetto basato sul futuro e il rispetto della regionalità e della stagionalità.

M: A casa cucini?

N: No a casa la cuoca è mia moglie, ed è anche molto molto brava.

Foto: ©Daniel Töchterle

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