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January 19, 2016

Vicino ma non qui:
Luca Coser e la pittura sospesa

Allegra Baggio Corradi

In viaggio tra Trento e Milano Luca Coser dipinge illusioni di purezza e silenzio. Aggiunte e sottrazioni di colore che rimandano ai suoi interessi per il cinema, la letteratura, la musica, la danza. Contaminazioni visive e artistiche che fanno della sua pittura come del suo insegnamento a Brera un flusso di quesiti. Anche le risposte sono in constante mutamento, così come le forme, gli spazi, i materiali estetici. Abbiamo intervistato Luca per rivolgere uno sguardo più attento al suo percorso di artista, alla sua pratica, ai suoi pensieri, alle sue avventure future…

Cosa significa essere un pittore nel panorama dell’arte contemporanea del Trentino Alto-Adige oggi? Quali sono le difficoltà e quali invece le differenze rispetto ad altre realtà che hai conosciuto?

Dal punto di vista organizzativo, per quanto mi riguarda non ci sono grandi differenze. Viviamo in un mondo dove i mezzi di trasporto e comunicazione hanno accorciato le distanze. In poco tempo siamo in grado di soddisfare egregiamente qualsiasi richiesta di materiale documentativo, nell’arco di una o due giornate possiamo presenziare a un appuntamento in un paese molto distante da dove ci troviamo. Dal punto di vista concettuale e spirituale (per usare un termine molto abusato) abitare in un territorio piccolo e ricco come il nostro, caratterizzato dal panorama alpino, pone nel bene e nel male interrogativi e soluzioni di indagine artistica molto particolari; ma anche questo in modo relativo: è sufficiente intrecciare relazioni personali e professionali con persone in altre parti del mondo ed ecco che, ancora una volta, le distanze si assottigliano. Credo permanga un “carattere” legato alle radici etniche e culturali, e  che emerga anche lavorando su strutture estetiche cosiddette internazionali. Insomma, è la storia di sempre, l’artista si
rapporta con il mondo e con le proprie radici in una dinamica contraddittoria che trova il suo equilibrio lì dove l’obbiettivo artistico viene raggiunto.

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Di che natura é il rapporto che intrattieni con gli artisti del passato? Di comunicazione immaginaria a distanza, di confronto o di timore? Le opere ispirate a Medardo Rosso e Tullio Garbari, ad esempio, sono degli studi in profondità dei due artisti o piuttosto un modo per comprendere te stesso, la tua arte attraverso le affinità con personalità storicizzate?

Di confronto e timore, certo. E anche per comprendere me stesso e quello che mi sta intorno. Le figure artistiche del passato, intese nell’insieme di ciò che hanno prodotto, presentano una caratteristica che mi affascina molto: sono obsolescenti e al tempo stesso attuali. Questa loro caratteristica funziona come una sorta di misteriosa macchina del tempo che stravolge di continuo il senso stesso del fare arte, senso che si propone come opera aperta, in evoluzione costante, indefinita, priva di precisi connotati temporali. Quando entro in relazione con opere d’arte del passato non opero una “copia” ma una ri-definizione di materiali, estetici culturali eccetera, che per la natura di cui parlavo prima concorrono a mescolare le carte. Quello che può sembrare l’avere indossato un vestito vecchio e “fuori moda” diviene alla fine attuale, ma in modo misterioso, nella difficoltà di stabilire tracciamenti certi dei diversi percorsi attuati, difficoltà questa presente anche nella
consapevolezza dell’artista stesso. Ecco, questa “sospensione”, questo “vicino ma non qui” è l’ossessione che mi accompagna.

La tua attività artistica sembra svolgersi in maniera discreta, al riparo dal trambusto della produzione contemporanea. Nonostante tu operi nell’ombra uno dei colori più utilizzati nelle tue opere é il bianco, simbolo di luce. Come spieghi questo contrasto? E’ ideologico oppure cromatico o entrambe le cose?

Probabilmente il mio “operare al margine” è più una conseguenza. Non starò a specificare in relazione a cosa, che non una scelta, ma anche di questo non sono del tutto sicuro. Al bianco ci sono arrivato lentamente, nella mia progressiva necessità di annullare il detto, il fatto. In questi ultimi anni mi sono ritrovato a dipingere dei soggetti e poi a ricoprirli con il bianco nel tentativo di ritornare al “nulla” della superficie originaria. Ma il bianco finale non è quello originario, contiene in se’ ciò che è stato in parte o del tutto cancellato, ciò che sotto trama per riemergere. E’ il “vicino ma non qui” di cui parlavo prima. Credo sia un’illusione di silenzio e di purezza, al tempo stesso di negazione e rinuncia che mi ha portato al bianco. Il desiderio di farla finita con il piccolo e crudele mondo dell’arte e il non riuscirci… Difficile muoversi nella luce del bianco; ricordo un bel cortometraggio di qualche anno fa, alla fine un bianco si fa luce accecante e in sovraimpressione compare una domanda: La luce di Dio ci illumina o ci acceca?
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In quale misura ritieni che la definizione di artista “astratto” possa essere pertinente rispetto alle tue opere e che importanza ha in questo senso la tecnica di stratificazione del colore bianco sopra le immagini figurate che spesso utilizzi?

Non utilizzo mai questa terminologia. Astratto e figurativo sono parole che non mi interessano, e credo che in realtà non interessino a nessuno: vengono utilizzate per comodità, ignoranza, paura. E’ più astratta una tempesta di Turner o la copia fotografica di una cellula umana? Sono più occupato a lavorare sull’aspetto più o meno narrativo delle mie opere, su questo aspetto mi fermo e il senso mi sovrasta, mi sfugge, e sento che va bene così.

Nelle tue opere il contenuto ha mai un rapporto diretto con il medium? Penso ad esempio alla serie di opere incluse in “There are reasons”, mostra svoltasi nel maggio 2015 a NY, in cui sei tornato ad utilizzare la tela.

Si, spesso. La necessità di “togliere” e di “cancellare” la pittura mi porta anche ad asportare il colore con strumenti rigidi, quindi prediligo le superfici dure come il legno o l’alluminio, ma recentemente, come ad esempio nella mostra a New York di cui parli, mi sto riappropriando della tela grezza. Grezza, forse per quella necessità di indossare un abito vecchio… In ogni caso la modifica del medium corrisponde sempre alla modifica dell’opera, alla sua efficacia, al suo modo di svelarsi, al suo mistero, e questo riguarda ovviamente l’arte in generale.

Luca Coser

All’Accademia di Belle Arti di Roma tieni il corso “Elementi di morfologia e dinamiche della forma” incentrato sull’analisi della rappresentazione del corpo nella letteratura, nel cinema, nella danza e nel teatro, nella cultura popolare legata alla televisione e al costume. In che misura la tua attività di insegnante ha influenzato la tua produzione artistica?

Da quest’anno porto avanti il mio insegnamento a Milano, all’Accademia di Brera, e ne sono felice anche se mi mancano la bellezza e il sole di Roma. Il mio insegnamento consiste non tanto nel dare risposte quanto nel porre quesiti. Cerco di portarmi dietro i ragazzi fino a che qualcosa non li fa andare da soli, rispetto alle cose che dico. Intreccio arte visiva, cinema, letteratura eccetera un po’ perché questo fa parte della mia natura, della mia formazione, e poi perché le dinamiche dell’arte e dell’estetica contemporanee vivono di contaminazione e di evoluzione costanti, non fai in tempo a definire che ti viene chiesto di ri-definire, e questo è il meno: non fai in tempo a definire che l’opera stessa, se inserita nel contesto pubblico, si impossessa di elementi che la portano a ri-definirsi e a ri-definirti, in una logica di mutazione per niente accomodante, che anzi stanca, a tratti dispera, destabilizza, al punto che vorresti mollare… ma non riesci. L’insegnamento è un aspetto del mio lavoro artistico, uno dei tanti. Di buono ha, oltre allo stipendio, che spinge a rimettersi in gioco di continuo, a stare al passo con i ragazzi, dai quali apprendo più di quanto non sospettino.

Qualche anticipazione sui progetti in serbo per il futuro?

Il progetto è sempre il solito: smettere. Ma, per una questione di principio oltre che di metodo, noi artisti, narcisi e mondani quel tanto che basta, possiamo pensare di smettere come “scelta” solo a seguito di un trionfo, o di un terribile spavento. Quindi ho paura che anche per quest’anno porterò avanti progetti più o meno o per nulla interessanti. Penso di tornare a New York in primavera per una collettiva, sempre in primavera una buona presenza in una mostra in Austria, una piccola cosa a Roma, un’altra a Milano, un contatto da curare a Monaco.

Foto: Luca Coser

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