Music

August 20, 2015

Bolzano Festival Bozen:
Lo sguardo forte di Noseda

Alessandro Tommasi

Ci sono determinate persone che suscitano grande ammirazione, fosse anche solo per la forza delle loro idee e la determinazione delle loro parole. Una di queste è Gianandrea Noseda.
Che dire? Non potevo sperare di meglio per il mio ritorno su Franz, dopo molti mesi dal mio ultimo articolo. Ma come sempre, rieccoci qui, a commentare ed esplorare il nostro sempre bello Bolzano Festival Bozen.

Per il primo articolo mi divertirò a sbobinare l’oltre mezz’ora di intervista che ho avuto occasione di fare al Maestro Noseda, il quale dirigerà la EUYO (l’orchestra giovanile europea) nel secondo dei due concerti bolzanini Venerdì 21 Agosto alle 20.30, presso il Teatro Comunale, in un programma a tema Verdi e Mahler.
Non ho usato il termine “divertirò” a caso, comunque, perché di un vero piacere si tratta. Ma raccontiamo con ordine.

Arrivato allo Sheraton, dove l’orchestra stava provando, ho potuto assistere per un po’, appoggiato in fondo alla sala. La possibilità di osservare un grande direttore all’opera è sempre un’occasione di apprendimento, ma ad esser sincero ciò da cui ho imparato di più è stata la lunga intervista che ho potuto fare una volta terminate le prove.
La teoria prevedeva che questo articolo uscisse insieme ad un’intervista video di una decina di minuti, la pratica ha voluto che Noseda chiedesse un’intervista senza video per poter “riflettere adeguatamente sulle domande” e si sia andati avanti per mezz’ora. E dunque non posso dilungarmi troppo sul quanto sia stato bello, sul come la discussione si sia evoluta, sul come sia proseguita sul taxi con cui mi hanno dato uno strappo a casa, sul come ogni volta tutto ciò ti lasci infiniti spunti sui quali riflettere e con cui maturare.

Fate conto che ne abbia parlato ampiamente e permettetemi solo di darvi una chiave di lettura: ciò che colpisce davvero del Maestro milanese non è solo la radicalità delle sue idee, quanto anche la forza con cui le esprime, quella forza calma e pacata che deriva dal suo sguardo forte e dalla voce salda. Qualcuno potrebbe non concordare con le sue idee, ma nessuno negherebbe mai loro un grande rispetto. Ma ora basta perder tempo e buttiamoci a capofitto nelle parole di Gianandrea Noseda.

Bene, possiamo partire! La prima domanda riguarda il suo stile come direttore d’orchestra. Il suo approccio alla partitura è fedele oppure preferisce prendersi delle libertà? E per la scelta dei tempi, in generale preferisce tempi più spigliati o tempi più lenti e tesi?

Diciamo che ciò fa fede come riferimento ultimo è la partitura. Chiaro che nonostante questo sei tu che ti approcci allo spartito, è la tua sensibilità che viene stimolata e la stessa partitura può dare cose diverse a diversi direttori. Anche se lo scopo ultimo è essere il più fedele possibile allo scritto del compositore e cercare di capire perché il compositore ha scritto in quella maniera, che è la domanda più interessante, d’altro canto non posso evitare di pensare che sono io, con la mia personalità a interagire. Per quanto riguarda i tempi, quelli partono principalmente da un’indicazione metronomica che, ormai, i compositori mettono. Certo, l’indicazione metronomica non dev’essere una prigione, però sicuramente se la scelta è fortemente diversa rispetto alle volontà del compositore, non penso sia una libertà che l’interprete debba prendersi. Il metronomo è un punto di partenza che va considerato. Poi dipende, ci sono direttori che certi brani li dilatano, altri cercano di essere più stringati. Io in genere amo una certa compattezza. Mi piace che ci sia un tempo magari non veloce, ma che abbia un’urgenza. Diciamo che nei tempi lenti mi piace avere una certa urgenza, nei tempi veloci invece il tempo per dire le note. Questo non significa avere paura dei limiti e anzi bisogna poter fare tempi molto lenti e tempi molto veloci, però anche lì il limite è quello esecutivo. In genere mi piace avere un fraseggio naturale, come per la parlata. Il troppo veloce ed il troppo lento per me sono sbagliati, o per lo meno non fanno arrivare il messaggio.

La seconda domanda la vede non solo come direttore d’orchestra, ma anche come direttore artistico e direttore musicale. Quale può essere un suo consiglio per dei giovani direttori d’orchestra che cercano di imporsi sul mercato attuale?

E’ sempre difficile dire qualcosa che possa suonare come un consiglio saggio ed efficace. La cosa che bisognerebbe fare, e che io ho fatto quando ero uno studente o un giovane professionista, è stata quella di seguire molte prove di direttori importanti, perché c’è da imparare, si vede il modo di relazionarsi con l’orchestra, cosa chiedono e come lo chiedono. Concentrarsi solo su un direttore però è sbagliato. Ad un certo punto inizi a pensare come lui, mentre invece sarebbe meglio vedere ad esempio due grandi direttori, ma che lavorano in maniera molto diversa, con diversi obiettivi. Questo dà l’opportunità di apprendere, perché nei conservatori spesso si impara la teoria, ma non si ha la possibilità di metterla in pratica davanti all’orchestra. Ai miei tempi a Milano l’orchestra la vedevamo tre volte all’anno, è come chiedere ad un pianista di imparare a suonare il pianoforte studiando su un tavolo. Poi bisogna iniziare a fare qualcosa, anche con gruppi piccoli, chiamando amici. E poi, quello che ho fatto io è stato iscrivermi a concorsi di direzione d’orchestra e fare corsi di direzione in istituzioni importanti, perché apre porte. Il mio rapporto con Gergiev (famosissimo direttore russo, nda) è nato perché sono stato suo allievo nel 1993 alla Chigiana di Siena. Questo magari due o tre porte te le apre, sapendo che poi devi camminare con le tue gambe, non ci sarà nessuno che continuerà ad aprirtele. Insomma devi metterci subito il piede in mezzo e proseguire. I concorsi invece sono sempre un grande terno al lotto, ma ti danno la possibilità di metterti in luce e il tuo nome inizia a girare. Inoltre bisogna essere molto creativi e se uno capisce che per lui è importante andare a studiare fuori dall’Italia è giusto che lo faccia, facendo bene attenzione di avere la possibilità di dirigere là dove vuole studiare. Io incoraggio molto poi quella qualità che è l’esser testardi e insistere, ma non bisogna illudersi, se le cose davvero non vanno, forse non è quella la tua strada.

Terza domanda. Lei è anche particolarmente attento a quello che è il mondo italiano della musica. Le recenti modifiche alla distribuzione del FUS avranno un impatto piuttosto forte su diverse realtà. Molte ne saranno duramente colpite, altre avranno nuove possibilità. Il bilancio sembra essere però negativo. Questo è il punto di partenza per una domanda: cosa pensa che manchi alla gestione della musica in Italia, oltre ai fondi?

Questo è veramente un campo enorme. Il pensare che tutto il mondo musicale possa vivere solo di soldo pubblico non è più immaginabile. Il mondo sta andando in un’altra direzione. Questo non vuol dire che bisogna arrivare all’eccesso americano, in cui è tutto a sponsorizzazione privata, quello è un eccesso che a lungo termine non porterà lontano. La soluzione è un po’ nel mezzo: avere sempre una presenza di sovvenzionamento pubblico, ad esempio sul 60%, e poi muoversi di finanziamento privato. Certo, il FUS è pubblico e non si può sovvenzionare tutte le istituzioni nello stesso modo. Il problema a questo punto è il problema di fondo: il merito. Che viene molto sbandierato e poco praticato. Le realtà che trarranno beneficio dalle modifiche del FUS sono quelle che veramente offrono la più alta qualità? Il nocciolo non è salvare tutti per essere tutti ad un livello medio-basso, ma individuare quali sono le punte di eccellenza su cui investire. Eccellenza vera però, non di nome o di altro. E come si fa a capire queste cose? E’ molto semplice. Bisogna vedere numero di concerti e quantità di pubblico, numero di dischi e registrazioni fatte, non con l’amico ma con le case discografiche importanti, vedere i tour fatti, l’impatto educational con nuovo pubblico e nuove generazioni, importantissimo per essere efficace nel tessuto sociale e non essere soltanto una cattedrale per pochi eletti, quante sponsorizzazioni private è riuscita ad ottenere, qual è il livello di direttori, solisti, cantanti. L’essere in un mondo globalizzato secondo me è fantastico perché elimina molte differenze, ma d’altro canto devi competere a un livello globale, non ad un livello regionale o nazionale. Se si ragionasse così i fondi in alcune istituzioni non arriverebbero proprio perché queste non sono riuscite a piazzarsi in modo competitivo. Non ne sto facendo una colpa, ma continuando così c’è il rischio che per salvarne molti non si salvi nessuno. Poi bisogna anche capire chi decide dove va il merito. E’ lì che casca l’asino. Se facessi una piccola inchiesta, so già che non ci sono le basi e gli elementi per motivare l’aver premiato qualche realtà di più e qualche altra di meno. Bisogna capire una cosa: chi fa parte della commissione cultura? A me piacerebbe tanto che nella commissione non ci fossero Italiani. Vorrei gente da fuori che non conosce nessuno, prende in mano le carte, osserva i dati e valuta. E per farlo bisogna chiamare grandi manager, grandi compositori, grandi solisti, metti lì dieci persone con i dossier e fine. “Ah ma come si fa, ma come si fa, la sovranità nazionale”, ma anche la sovranità nazionale non ha più senso di esistere. O siamo in un mondo globale o continuiamo a richiuderci in nazionalismi piccoli, che non andranno da nessuna parte e posticipiamo il problema. E’ sempre una mancanza di assunzione di responsabilità.

 Se posso permettermi una provocazione, sicuramente premiare l’eccellenza dovrebbe essere un punto fermo. Tuttavia l’eliminazione delle realtà anche di “serie B” non è una cosa negativa in quanto si va a togliere la pluralità di offerta, che magari raggiunge tutto il territorio e permette di avere più impiego per i musicisti e una maggiore diffusione della musica?

 Sono d’accordissimo, ogni luogo e regione deve avere degli spazi in cui si faccia musica. Ma una cosa è coprire una utenza limitata e piccola… C’è poco da fare, se in Germania i Berliner, i Bayerischer Rundfunk, la Staatskapelle Dresden, il Gewandhaus Leipzig hanno più sovvenzioni c’è una ragione. Non vuol dire che in Germania non ci siano altre orchestre di altissimo livello, però quelle orchestre importanti diventano specchio per l’intero Paese. Non tutti sono fatti per l’eccellenza e vale anche per i singoli musicisti. Attenzione però: al gradino di partenza devono avere tutti le stesse possibilità, senza discriminazione. Poi ci sono talenti diversi, è giusto ammetterlo. Quello che è uguale è la dignità. Tu meriti tutto il mio rispetto perché sei un essere umano. Poi ognuno ha i propri campi. Tu puoi essere un genio nel fare il pane, puoi essere il migliore al mondo nel fare le buste per le lettere. I veri geni sono quelli che fanno davvero bene il loro lavoro. Se uno finisce sotto i riflettori facendo il proprio lavoro va bene, ma non è per quello che eccelle. Uno può eccellere anche facendo il padre o la madre. Tutti vogliono arrivare alla notorietà, ma non è quello il punto. Non devi fare cose grandi, devi essere grande in quello che fai. E questo vale in tutti i campi, ma tutti devono partire dallo stesso punto di partenza. Non è un discorso elitario, è un discorso di oggettività.

Penultima domanda, riferita al concerto che dirigerà con la EUYO. La prima metà sarà costituita da repertorio operistico , con ouverture e arie di Verdi, la seconda metà sarà repertorio sinfonico, con la quinta sinfonia di Mahler. Cosa cambia per un direttore e per un’orchestra nel lavoro sul repertorio operistico e su quello sinfonico?

 In realtà dovrebbe cambiare poco perché di musica si tratta. Di fatto la cosa che mi interessa quando accosto musica operistica e sinfonica è che i due campi si contaminino. Mi piacerebbe che nella musica sinfonica ci fosse una libertà di fraseggio anche senza le voci mentre nella parte operistica una maggiore precisione strumentale, che spesso è più difficile da ottenere. E questo sarebbe fantastico. Inoltre un’orchestra, soprattutto giovanile, quando lavora con i cantanti acquista una flessibilità maggiore. D’altro canto Mahler, tra l’altro grande direttore d’orchestra e grande direttore d’opera, mi piace che non sia inquadrato in questa cella della precisione, perché c’è anche una precisione dovuta al sentire ed all’entrare in un tempo, senza sentirsi costretti. Questo è un concetto molto dell’opera e invece meno comune nel sinfonico. Secondo me è importante che i due campi possano davvero contaminarsi.

Per finire una domanda un po’ più leggera: quando lei non è direttore d’orchestra, cosa ama fare?

Leggo molto, mi piace molto camminare. Però quando cammino non leggo. Mi piace molto approfondire quelle cose che nella vita ti capita di voler capire di più. A me piace bere vino durante i pasti, quindi ad un certo punto ho cercato di saperne di più, qual è il vitigno, quali sono i metodi di produzione, perché in certi posti vengono fuori certi vini e così via. Poi da un punto di vista manageriale mi interessa anche capire come riusciamo sempre ad essere inferiori ad altri come marketing, quando invece abbiamo un prodotto che può competere su tutti i mercati mondiali. Inoltre io sono molto ossessionato dal suono che produce un’orchestra, ad un certo punto quando chiedi molto arrivi ad un limite in cui vedi che, ad esempio negli archi, loro possono darti il massimo, ma se gli strumenti che suonano sono cassette della frutta, più di un certo non possono. E dunque cercare di capire come funziona nelle grandi orchestre: grandissimi strumentisti, grandissimi strumenti. E allora ho iniziato a studiare liuteria, capire dove poter trovare gli strumenti, coinvolgere fondazioni private che collezionano strumenti per poterli dare alle prime parti ad esempio. Il tutto non solo secondo il gusto, per fare ciò vado anche a studiare quali sono le caratteristiche costruttive della scuola fiorentina, rispetto alla scuola cremonese o veneziana, o torinese, o quella napoletana, o quella milanese e bresciana o anche quella di Bolzano con Mattia Albani. Perché è interessante non rimanere soltanto in superficie, o per lo meno approfondire un po’.

 Bene, direi che è stato a dir poco illuminante! La ringrazio molto del tempo concesso!

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