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July 25, 2015
Pugilato audiovisivo: la dura lotta
tra cinema e serialità
Alessio Posar
Questa mattina mio padre ha innaffiato i pomodori. Può significare solo una cosa, penso mentre guardo fuori dalla Weigh Station di piazza del Grano, verso il cielo, mentre i tuoni si susseguono e sono grato di avere un ombrello nella borsa. Non ho tempo, però, di pensare che per qualche ora dimenticheremo il caldo, che poi arriverà l’umidità, che le camicie ci si appiccicheranno strette alla schiena e faremo di tutto per non darlo a vedere, perché sono qui per il PUGILATO AUDIOVISIVO, un dibattito organizzato da BLS in collaborazione con la Scuola Holden di Torino, in cui cinema e serie televisive si scontrano e s’incontrano. Arbitro di questa sfida è Alice Drago, tutor del College Cinema della Holden.
All’angolo destro troviamo Andrea Jublin, torinese trapiantato a Roma, sceneggiatore cinematografico e regista, fresco dell’uscita del suo film Banana. Di fronte a lui, Andrea Nobile, romano di nascita, sceneggiatore televisivo – anche sue le serie Il Tredicesimo Apostolo e Il Bosco. Eccoci, quindi, sono passate da poco le cinque e, dopo una breve introduzione su cosa sia la Scuola Holden e quali mestieri della narrazione vi si insegnino, si inizia.
Qui si parla di autori che usano una storia per raccontare il proprio mondo interiore e di mondi che devono generare storie. È questa la più grande differenza tra la narrazione cinematografica e quella seriale.
Il cinema si mostra come un racconto chiaro, d’impatto e soprattutto chiuso, finito, in grado di raggiungere il pubblico e fargli intravedere la visione del mondo del suo autore, il tema che lui si porta dentro e che cercherà di esternare meglio in ogni suo film.
«Io» dice il cinema, «sono in grado di commuovere i miei spettatori mentre guardano il mio eroe riuscire o fallire nella propria impresa, quando il film volge al termine».
Fuori si alza il vento, ancora non piove, la serialità televisiva contrattacca. «Io sono infinita» risponde. «Posso continuare fino a quando tu non ti stanchi di me. Ti innamori dei miei personaggi e del mondo che abitano, perché è questo mondo che genera le storie e i miei personaggi sono come te, come voi, pubblico. Sono in un perenne conflitto con se stessi, incapaci di capire se saranno mai in grado di cambiare, in meglio o in peggio. E io lo so che voi li odierete, questi personaggi, quando cambieranno, li abbandonerete e la serie finirà».
Eppure, anche se la serie si fregia ora di essere il nuovo romanzo per il grande pubblico – i numeri parlano chiaro, insieme alla fama che avvolge le serie degli ultimi anni – non riesce a scrollarsi di dosso quell’aura di pura industria che la circonda, di creazione fatta per guadagnare attraverso gli spot pubblicitari. Finalmente, però, si sta anche sviluppando, da noi in Italia, questa nuova ondata di serialità – parliamo di prodotti come Gomorra e 1992 – che cerca di svecchiarsi, di prendere ispirazione dalle serie americane, che ha capito che non ha più senso, nel mondo dell’ on demand, di Internet, di Netflix, dello streaming e degli anglicismi a caso, cercare di accontentare tutti, che è meglio raccontare una sola cosa e raccontarla bene, sotto tutti i punti di vista.
Si tratta di evoluzione e adattamento per entrambi i linguaggi, di capire come il cinema possa ritrovare il pubblico che ha perso e di come la serie possa, anche in Italia, diventare finalmente adulta.
Nel frattempo, io ho capito che pioverà solo quando non avrò un ombrello, che il match si è concluso in uno stallo e che è tempo che questi autori assaggino il nostro Hugo.
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