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April 25, 2015
“Paesi Alti”: con Bortoluzzi tra monti e ricordi
Cristina Vezzaro
Paesi Alti (Edizione Biblioteca dell’Immagine, 2015, pagg. 194, €14) è il nuovo romanzo di Antonio G. Bortoluzzi, già segnalato dalla giuria del Premio Italo Calvino in due edizioni e autore del bellissimo Vita e morte della montagna.
Leggere questi due romanzi in sequenza è come guardare un’opera d’arte prima da lontano, poi sempre più da vicino. Un dettaglio che già nel primo romanzo si delinea sempre più preciso, e che nel secondo si sgrana fino a diventare quasi irriconoscibile per poi riassumere dal nulla le sembianze del tutto.
Siamo sempre nei monti sopra il Bellunese, alle Rive, dove poche case e poche anime condividono una vita fatta di quotidiane fatiche e ripetizioni. I ritmi sono quelli dettati dalla natura, dalle esigenze dell’agricoltura, dell’allevamento, dalle piccole grandi grane della vita quotidiana. Il tutto vissuto dalla prospettiva di un ragazzino, Tonìn, che il 25 aprile del 1955 ha abbastanza anni da non andare più a scuola ma non tanti ancora da non dover obbedire quotidianamente agli ordini della madre. Una madre che sorride poco, che al massimo tira le labbra. “Non era un vero sorriso, però quando lei l’abbozzava, così, appena appena, era bello lo stesso e sembrava che tutto potesse andare a finir bene.”
In realtà, l’ottimismo, in queste terre, in quest’epoca e in questo romanzo, sembra impossibile da trovare. Le abitudini sono quelle di un tempo: il rispetto ai vecchi è dovuto, così come il saluto per strada a tutti, anche a quanti si ostinano a non rispondere, ma l’istruzione è un optional e alla “signora maestra” si manda a dire che “abbiamo solo dieci pecore e due vacche e ci basta la tabellina del cinque.”
La difficoltà di questa vita quotidiana fatta di preoccupazioni sempre imminenti è aggravata dalla partenza, per nove mesi all’anno, degli uomini che vanno in Svizzera a fare i muratori. Così fa anche l’amato padre di Tonìn. Ed è proprio in quei nove mesi, da febbraio a novembre, che si svolge il romanzo. Gli stessi nove mesi che servono a Anna Molìn ad avere un figlio. Gli stessi nove mesi in cui la madre di Tonìn, poco a poco, si spegne.
Tonìn rimane quindi solo, e Tonìn “odiava stare da solo con sua madre, e un po’ ne aveva paura.” Non capisce ancora quanto pesino le preoccupazioni economiche e di salute e della vita, intuisce solo che quell’affetto non gli basta, come non deve bastare ai maialini che arrivano ogni anno piccoli e vengono messi all’ingrasso prima della macellazione. “Chissà com’era crescere tutta la vita dentro una stanza lercia, senza una carezza, una parola buona, una passeggiata giù al vallone. Sempre da solo e con brodaglia a volontà.”
Tonìn patisce la sua solitudine. Se almeno avesse un fratello, o anche una sorella piccola “piuttosto che niente”, avrebbe forse un alleato per capire i genitori, un mondo incomprensibile. “E invece doveva arrangiarsi in tutto. Una cosa l’aveva capita della vita, fare tutto da soli è più fatica. Sempre.”
Ma questa è anche l’età in cui Tonìn vacilla tra l’immagine di una madre che “non poteva essere una femmina normale, doveva avere qualcosa di speciale, non proprio come la Madonna, che quella era unica per tutto il mondo, ma qualcosa di diverso lo doveva avere”, e i primi battiti del cuore per una coetanea, una vecchia compagna di classe di cui s’infatua e che gli ride “in modo da far pensare al peccato mortale”.
Tra piccoli fatti della vita quotidiana, piccoli grandi eventi, come la nascita di tre merli o la sagra del paese, piccole o grandi tragedie, come la minaccia che un animale, la Mora, di ritorno dall’estate in alpeggio rischi di non sopravvivere, piccoli grandi appuntamenti con il padre attraverso le lettere (e i soldi) che arrivano e le lettere da spedire – così, tra i dettagli, si perdono le ore e i giorni dei mesi.
Fino a che non arrivano gli eventi grandi per davvero. La nascita, la morte, che quasi sempre coincidono. È allora che i dettagli, sgranati fino a diventare irriconoscibili, chiudono il cerchio, unendosi al senso più grande, più universale della vita. Così, in questa cronaca di una morte annunciata, ti ritrovi alla fine a piangere per il dolore della vita che ha il sopravvento su tutto il nostro piccolo lavorio di formichine. Ma è sempre allora che, tra gli amici, anche quelli che ti hanno picchiato e preso in giro e tediato, trovi dei fradèi, dei fratelli. E da lì ricominci.
In questo nuovo romanzo, Antonio Bortoluzzi continua a descrivere un microcosmo che conosce per essere quello delle sue origini, concentrandosi, più che sulla Storia di quelle terre, sul mondo degli uomini. E lo fa con una sensibilità che conferma le sue grandi doti narrative e una grande capacità di lettura delle storie.
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