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July 21, 2014

“Megalopolis” a Bolzano Danza. Constanza Macras: “Rappresento attraverso il corpo la violenza della città contemporanea”

Bianca Maurmayr
Mercoledì 23 luglio, Bolzano avrà il piacere di ospitare al Teatro Comunale alle ore 21 il premiato "Megalopolis" di Constanza Macras, coreografa di origini argentine, dal 1995 residente a Berlino, spesso considerata l'erede di Pina Bausch.

Megalopolis” è un luogo metaforico creato dall’argentina Constanza Macras, che mette in scena il malessere della società odierna nelle grandi città, la linea di confine tra sfera privata e pubblica, dove le persone si incontrano ma non finiscono mai per conoscersi davvero. Lo stress, l’inquinamento, il rumore, la mancanza di spazio, Macras cerca di farci rivivere una condizione quotidiana e di mostrare la violenza fisica e psicologica, il carattere tragicomico e il trash delle nostre città.

“Megalopolis” di Constanza Macras – ospite del Teatro Comunale il 23 luglio nell’ambito di Bolzano Danza – è uno spettacolo del 2009 sulla condizione umana nell’ambiente urbano e più specificatamente nelle megalopoli, come il titolo stesso della performance suggerisce. Non è un elogio alla modernità, alla globalizzazione o al consumismo, ma al contrario, è la rappresentazione coreografata delle strategie di sopravvivenza cui siamo obbligati a ricorrere nelle grandi città, per non cadere vittime della paranoia, della dittatura della tecnica, o della crisi identitaria. Si tratta di uno spettacolo difficile da digerire e introiettare, perché Constanza Macras non risparmia nulla ai propri danzatori, attori e musicisti: costretti in uno spazio scenico ristretto, dove si ammassano cartoni, sacchetti della spazzatura, muri di cartapesta e corpi, gli interpreti sono portati a spingere la loro frustrazione ed il loro malessere fino allo stremo delle loro forze fisiche e al limite del loro grado di sopportazione.

Sebbene Constanza Macras abbia vissuto in diverse città del mondo, e abbia da queste tratto esperienze ed insegnamenti, “Megalopolis” non parla di un luogo specifico. La città che vediamo in scena è piuttosto una città metaforica e per questo significativa per qualsiasi realtà urbana e riadattabile a diversi contesti. Probabilmente ognuno di noi potrà ritrovare una parte di sé, o solo una sensazione, provata in una grande città, fosse anche questa una sensazione molto negativa, oppure sarà portato al rifiuto, vista la forza e la violenza con cui la coreografa trasmette il suo messaggio.

Quanto della sua esperienza personale vissuta in città quali Buenos Aires, Amsterdam, New York, Hong Kong, ha confluito nella creazione di questo progetto sul nonsense della città odierna?

La produzione è stata senza dubbio influenzata da esperienze personali e da materiale video che ho accumulato negli anni, specialmente a New York, Buenos Aires, Johannesburg, Tokyo e Seul. Ciononostante nella creazione sono confluite anche letture importanti, in particolare “Il declino dell’uomo pubblico” di Richard Sennett: due dei temi fondamentali di “Megalopolis” sono proprio la perdita delle nozioni di spazio pubblico e privato e il carattere performativo della società odierna, che ritroviamo in questo libro. Posso anche ricordare qui “S,M,L,XL” di Rem Kolhass e Bruce Mau.

Si tratta di un progetto da lei completamente guidato o al suo vissuto della città si sono affiancate anche le esperienze e le sensibilità dei suoi interpreti, fra l’altro molto diversi fra loro, per origini etniche e artistiche?

Le nostre creazioni sono tutte frutto di una collaborazione stretta tra i vari interpreti: utilizziamo l’improvvisazione come parte del processo creativo, che viene poi diretta, coordinata e convogliata da me stessa in quello che dovrà diventare il risultato finale. Detto questo, in “Megalopolis” non vengono messe in scena storie personali: nel caso specifico, ho scritto io le parti declamate, oppure ho adattato degli spezzoni di biografie, testi, libri e addirittura di film che trovavo interessanti per questo progetto.

“Megalopolis” è stato il primo lavoro di una sorta di trittico sulla condizione dell’individuo nelle città di oggi: a questo primo successo hanno seguito “Berlin elsewhere” (2011) e” Here/After” (2011). Il malessere contemporaneo, il senso di alienazione e d’isolamento, restano allora una fonte d’ispirazione proficua?

Assolutamente sì! Anzi la mia indagine sulla condizione contemporanea nasce in realtà nel 2007 con “Brickland”, uno spettacolo che trattava delle vita delle comunità racchiuse nelle periferie delle grandi città. In “Megalopolis” ho preferito indagare più nello specifico la perdita, appunto, dello spazio dell’individuo, dello spazio che gli è proprio, quello privato, ma anche dello spazio che condivide con altre persone, quello pubblico.

Non ha dunque temuto un rifiuto netto da parte del pubblico rispetto al riflesso cinico e ironico, violento e trash della società attuale che trasmette?

Devo rispondere alla sua domanda in maniera molto franca: non sono mai spaventata dalla reazione del pubblico, perché io non lavoro mai per il pubblico. Faccio spettacoli molto diversi gli uni dagli altri, quindi non tutti trasmettono gli aggettivi che mi ha appena enumerato. Se ci concentriamo sul caso specifico di “Megalopolis”, il cinismo, l’ironia, la violenza e il trash sono effettivamente presenti, ma accanto a questi, possiamo trovare anche dei momenti più tranquilli e fragili, che vogliono mostrare quella parte di solidarietà che può crearsi tra gli estranei.

Trovo che la violenza che lei mostra non sia solo ideologica (l’idea di una città malata), ma anche fisica, percepibile ed esperibile dallo spettatore. Il corpo dell’interprete diventa lo strumento d’azione sociale per criticare la civiltà moderna, mostrandone il suo stesso volto di violenza?

Risponderò alla sua domanda con un’altra domanda: se il primo luogo in cui esperiamo la violenza è la natura, allora quale mezzo migliore per poter esprimere questa stessa violenza, riviverla, ed eventualmente capirla, se non il corpo, la sua fisicità, la sua espressività e la sua sensibilità?

Come definirebbe il suo stile, la sua danza? Teatrodanza, danza contemporanea, nouvelle danse, danza di denuncia?

In realtà preferisco il termine francese “création”, che prevede, all’interno dell’idea di creatività e di germinazione delle idee, anche quella di cammino, di un percorso più o meno lungo condotto per tappe dal singolo o da un gruppo di persone per arrivare insieme ad una produzione artistica.

Esiste a suo avviso la speranza di una redenzione?

Non posso proprio rispondere a questa domanda, perché mi induce a pensare secondo una mentalità troppo legata al Cristianesimo…

Constanza Macras è di poche parole, perché forse convoglia tutto quello che vuole dire nel linguaggio della danza e delle arti performative. Non posso nascondere una lieve sensazione di dubbio, un punto in sospeso che è rimasto ad aleggiare sopra di noi. Devo ammettere che, per me, sarà difficile accettare la visione disincantata, cinica, a volte brutale, che sembra trasparire dai brevi spezzoni video di “Megalopolis” disponibili su internet  e sarà soprattutto difficile pormi nella “condizione cinestetica” – quella famosa empatia di cui parla Hubert Godard – per accettare una tale rappresentazione. Forse, però, è proprio qui che sta tutto l’interesse di tale spettacolo: il fatto che faccia riflettere e prendere posizione. Andrò verso qualcosa che ancora non conosco, curiosa, ma piena di domande.

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