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June 4, 2014

People I Know. Giacomo Strapazzon e la “sua” montagna, tra ricerca e passione

Anna Quinz


Per chi vive in Alto Adige la montagna è habitat naturale, dove tendenzialmente ci si sente a proprio agio. Ma in situazioni di emergenza, è molto importante sapere che esistono persone preparate ed esperte, capaci di tirarci fuori dai guai. Giacomo Strapazzon, vicentino di origine, classe ‘79, è una di queste persone. Laureato in medicina, da sempre Giacomo ha la passione per le vette, e così in lui è nato presto l’interesse per la medicina di montagna. Parallelamente ha sviluppato un percorso nel soccorso alpino, prima come tecnico giocando un po’ con corde e barelle, poi come medico. Specializzato in medicina interna d’urgenza, nel 2010 Giacomo è venuto a lavorare a Bolzano come primo dipendente dopo il direttore, all’istituto per la medicina d’emergenza in montagna dell’Eurac. Oggi questo è ancora il suo posto di lavoro, il suo laboratorio, che si alterna al lavoro sul campo, nella tanto amata montagna.

Giacomo, non è facile per chi sta fuori immaginare la vita del ricercatore. La tua come si svolge? Tempi, luoghi, modi?

Il lavoro di ricercatore – ed è per questo che in Eurac abbiamo orari flessibili – è vario e variabile nel corso della giornata e dell’anno. Ci sono periodi in cui si lavora 20 ore al giorno, altri meno. All’inizio di un progetto si cerca di finanziarlo, soprattutto a livello europeo, e non è semplice. Una volta trovati i finanziamenti, si sviluppa un protocollo per il comitato etico dell’ospedale e poi si passa alla fase di attuazione. Prima di tutto si pensa alla logistica, che può essere complessa, come quando abbiamo fatto uno studio sull’Ortles. Poi ci si mette all’opera e quei giorni si lavora senza cognizione di giorno, notte, sabato o domenica. Si raccolgono i dati, e questo si può fare in molti modi, coinvolgendo il 118, l’anestesia, i servizi di soccorso alpino, per vedere quanti incidenti ci sono, le tempistiche d’intervento ecc. i dati raccolti vengono messi in dei database e poi analizzati. Oppure in altri studi sperimentali, abbiamo una domanda, creiamo un modello, una situazione standardizzata da ripetere più volte modificando qualche parametro clinico. Vedendo le variazioni si arriva alla risposta.

Dunque il laboratorio e il camice bianco, sono la tua vita…

Nel mio caso anche piumino e scarponi, come recentemente in uno studio a Braies, dove lavoravamo all’esterno, e il nostro laboratorio era la neve. Abbiamo ricostruito una valanga artificiale. In pratica, io faccio una ricerca che serve ad analizzare in modo sistematico la pratica medica quotidiana. Per esempio, quando andiamo a soccorrere un paziente sotto una valanga dobbiamo sapere per quanti minuti può sopravvivere. Per capire questo servono degli studi, che possono sembrare astratti ma che sono fondamentali.

1Ma la pratica medica sul campo, non ti manca?

Continuo a lavorare nel soccorso alpino e a seguire spedizioni. Naturalmente bisogna fare delle scelte e decidere se dedicare più tempo alla ricerca o alla pratica. Conciliare le 2 cose, soprattutto quando si è giovani, è impegnativo perché la ricerca richiede una preparazione notevole e forse nel nostro caso è ancora più difficile perché oltre al background da ricercatore ci vuole anche quello medico, quindi aver studiato per 12 anni medicina e medicina d’urgenza, è fondamentale per trovare le risposte che cerco.

Mai avuto paura?

La paura si ha sempre, ed è un buon campanello. Bisogna però che non diventi panico. Capire i pericoli va bene, si cerca di controllarli e si cerca di agire nel migliore dei modi, non riconoscerli può voler dire avere tragedie come quelle che capitano quando muoiono soccorritori per cercare dei dispersi. Non sempre si riesce a prevenire, ma bisogna partire con questo presupposto.

3Tu hai grandi responsabilità, puoi avere in mano delle vite. Come vivi questo carico emotivo?

Penso che studiare medicina porti a formarsi in questo senso, anche se poi è molto personale, perché nessuno realmente te lo insegna. Anche se abbiamo dei maestri – la medicina è un po’ un’arte – che ci hanno insegnato come porci in queste situazioni. Non abbiamo la soluzione per tutto, ma dobbiamo cercare di dare delle certezze. Mi capita spesso la notte di pensare se ho applicato la soluzione migliore o se potevo fare meglio. E in questo le linee guida aiutano. Anche se in montagna capita di uscire dallo standard e lì si ha sensazione che la vita del medico sia simile a quella dell’artista: importa solo l’intuizione.

Vivi ancora la montagna nel privato?

Sì, anche se vivendola cosi tanto nel lavoro, viverla anche per hobby è strano. Pratico sci, sci alpinismo, free ryde, arrampicata ma anche sport più inusuali: canyoning, torrentismo o speleologia. Spesso, visto il mio lavoro, mi saltano più all’occhio problemi che altri non vedono. Io so le conseguenze di ciò che faccio. E così, vicino al pericolo, ci penso due volte se avanzare o meno.

In generale, come ti trovi qui?

Mi trovo bene, anche se sento la distanza dal mare. L’Eurac è un bellissimo ambiente molto stimolante, internazionale. È un po’ come essere in una grande città.

 

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